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Caro Travaglio, il disagio sociale non si cura con le manette

“Tor Scemenza”, il titolo dell’editoriale di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano, lasciava sperare in una riflessione misurata sulla follia che si esprime quando il disagio diventa esasperazione e l’impellenza di bisogni mai soddisfatti rende l’altro estraneo e carnefice, reo dell’incessante lottare in difesa degli stessi bisogni, della stessa mesta umanità.

«Chi ha la pancia vuota è molto più giustizialista di chi l’ha piena», dice Travaglio – «e guardan- dosi intorno in cerca dei colpevoli, li individua negli ultimi arrivati, sentendosi sempre penultimo di qualcun altro». Sana considerazione, saggia. Questo è il germe delle esplosioni di rabbia di Tor Sapienza. Non un odio autentico, radicato nel razionale, nella lucida opposizione a un male riconoscibile, nella individuazione consapevole di un colpevole.

È l’identificazione del sé e la contrapposizione con l’altro, diverso dal sé, la depaupe-razione dei diritti dell’estraneo appannaggio dei propri. È la polverosa cantilena del: «vengono a mangiare il nostro pane»; la squallida, grigia scena dei capponi manzoniani, legati insieme per le zampe e diretti allo stesso patibolo ma capaci solo di beccarsi l’un l’altro e di ferirsi mentre la stessa disgrazia li accomuna. Questo è il germe anche – ha ragione Travaglio – del giustizialismo.

Non dell’amore per la giustizia, non dell’aspirazione alla legalità! Del giustizialismo.

Il giustizialismo è un fenomeno malato. Un’esasperazione, anch’esso: la ricerca di un colpevole, uno, ad ogni costo; la possibilità di puntare il dito contro un male, la distruzione del quale offra l’illusione che una soluzione c’è. Ma l’individuazione del male è figlia adottiva della stessa tara: l’irrazionalità della pancia vuota. Quando le pance sono vuote è a loro che si deve parlare, le menti sono sopite, stanche, distanti. Gli istinti dominano, impellenti, rabbiosi e chiedono una gogna alla quale scagliare i propri sassi. E a loro parla Travaglio e offre pronto ristoro. Il nirvana è lo stesso di sempre, cerbero, il tintinnar di manette, pianto e stridore di denti.

Purificazione. Il disagio sociale ha un volto: approda alla Camera la legge «salva ladri», così la definisce. Una legge che tende a moderare l’abuso della carcerazione preventiva e che, in sé, è mera espressione di principi costituzionali dal valore assoluto seppur trascurati al punto da costringere il legislatore ordinario a una specificazione ed a un chiarimento.

Una legge della quale non ci sarebbe bisogno, in realtà, ove di quei principi fondamentali venisse fatta corretta e coerente applicazione.

La misura cautelare in carcere è, infatti, nel nostro ordinamento estrema ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata a rispondere alle esigenze cautelari, nell’ottica della prevenzione del crimine e della sicurezza. Per dirlo con le parole di Papa Francesco: la carcerazione preventiva, «quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto», costituisce «un’altra forma di pena illecita e occulta, al di là di ogni patina di legalità».

E ancora: «Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte».

Ed è solo una patina di legalità che sorregge la custodia in carcere quando al giudice che dovrebbe applicarla appare chiaro che la pena eventualmente irrogata in caso di condanna dovrà essere sospesa (una delle ovvietà introdotte dalla “salva ladri”). Che senso avrebbe mettere in carcere chi ancora deve essere giudicato se una volta dichiarato colpevole con sentenza deve essere scarcerato?

La legge specifica il principio di residualità secondo cui la custodia cautelare in carcere può essere irrogata quando altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate.

Per i reati più gravi le soglie di accertamento delle esigenze cautelari rimangono immutate mentre, per tutti gli altri reati, si prevede che, nel disporre la custodia cautelare in carcere, il giudice debba indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari.

Qualora i vincoli imposti a chi è ristretto agli arresti domiciliari vengano violati, viene disposta la custodia in carcere. Una legge, dunque, quella che approda alla Camera che, assai lontana dal fare rivoluzioni normative, offre delle linee guida di adattamento a parametri costituzionali preesistenti e forse mai adeguatamente osservati.

Una legge, pertanto, necessaria a fronte di due dati: la drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri tutt’altro che risolta dalle normative di urgenza, blanda e inefficace risposta alla sentenza Torreggiani e alle sonore bacchettate inferte e promesse dall’Unione Europea; l’esistenza di un dato statistico circa la tendenza inversamente proporzionale tra ammissione a misure alternative al carcere e tasso di recidiva. In parole povere, spazio all’ovvio: se il carcere si prospetta come reinserimento e rieducazione, si riduce il rinnovato ricorso al crimine.

Afferma, ancora, Travaglio che a un cittadino che veda qualcuno commettere un reato è difficile spiegare che «bisogna lasciarlo libero (magari a casa sua, senza controlli) per una decina d’anni, in attesa della fine delle indagini, dell’udienza preliminare, del processo in tribunale, in appello e in cassazione».

E, allora, caro Travaglio, a chi venga colto in flagranza di reato, ricorrendone i presupposti di legge, potrà essere applicata anche una misura diversa dalla custodia in carcere, quale quella degli arresti domiciliari, non senza controlli ma con i consueti, rigorosi controlli che a tale misura sono correlati. E magari si eviterà l’atroce abuso del tenere in carcere per anni, in attesa delle esasperanti lentezze giudiziarie, chi non avrebbe mai dovuto entrarci; si alleggerirà la decomposizione delle patrie galere, la brutalizzazione di uomini, l’incancrenirsi della società.

Maria Brucale da il Garantista