Il “lavoro sporco” dei fascisti italiani in Libano e in Italia
- dicembre 08, 2014
- in antifascismo
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Le conversazioni/rivelazioni di Massimo Carminati, il “nero” che pare essere il centro della cupola affaristico-mafioso che si era impadronita delle istituzioni capitoline, contengono elementi utili per capire il filo nero che attraversa la storia recente del nostro paese. Un filo nero che ci restituisce figure “pesanti” del neofascismo italiano in posizioni apicali, sia nell’intreccio tra politica e affari, sia tra fascisti e malavita organizzata. Detto in soldoni, diventa difficile non cogliere i nessi tra quanto ha portato alla luce l’inchiesta sul “Mondo di mezzo” e la agiata sopravvivenza dei killer e degli squadristi fascisti nel contesto che è stato definito “Seconda Repubblica” e che ora si appresta ad una nuova transizione non certo migliore. Anzi.
Colpiscono, in tal senso, alcuni passaggi della chiacchierata che Carminati fa con un suo uomo “de panza” più giovane. C’è un po’ di nostalgia e un po’ di trasmissione dell’esperienza nel racconto di uno che ha la coscienza più che sporca e un passato più che pesante.
In particolare colpisce la parentesi “libanese” di Carminati, una parentesi comune a lui ed a molti neofascisti italiani, i quali a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta si recarono dai loro camerati falangisti libanesi a fare la guerra sporca contro i palestinesi e le forze progressiste in Libano, ma anche ad imparare trucchi e ad intessere relazioni che gli sarebbero state utili in futuro. Va detto subito e in modo chiaro: tutto questo non c’entra nulla con il “Libanese” della Banda della Magliana o degli sceneggiati televisivi. Da un certo punto di vista è anche peggio.
Cominciamo con un episodio rivelatore di questa complicità dei fascisti italiani con la guerra sporca in Libano.
Il 24 giugno del 1982 a Roma due agenti della Polizia di Stato vengono assaliti da un commando di fascisti. Gli agenti Antonio Galluzzo e Giuseppe Pillon sono in servizio di vigilanza fissa sotto all’abitazione del capo della rappresentanza in Italia dell’OLP, Nemer Hammad. I due poliziotti rimasero feriti da numerosi colpi d’arma da fuoco esplosi dagli attentatori. Antonio Galluzzo morì durante il trasporto all’Ospedale, in seguito alle ferite riportate, mentre il suo collega rimase gravemente ferito. Le indagini della Digos permisero in meno di una settimana di individuare ed arrestare due degli autori dell’omicidio. Si trattava dei membri dei Nar Gilberto Cavallini e Walter Sordi (quest’ultimo sicuramente reduce dai campi d’addestramento in Libano) che a seguito dei vari gradi di giudizio nel 1988 furono condannati all’ergastolo. Vittorio Spadavecchia e Pierfrancesco Vito, altri due componenti dei Nar coinvolti nel grave attentato, furono condannati rispettivamente a 14 e 10 anni di reclusione. Quest’ultimo – Vito – in anni e inchieste molto recenti, lo ritroveremo come uomo di fiducia e d’azione del broker nero Gianfranco Lande, meglio conosciuto come “il Madoff dei Parioli”, arrestato e condannato per i soldi rubati ai suoi facoltosi e famosi clienti nell’esclusivo quartiere della capitale. Anche Lande era stato vicino a Ordine Nuovo e agli ambienti neofascisti.
Siamo dunque nel 1982 e i fascisti italiani si prestarono a fare da killer contro il rappresentante palestinese dell’Olp in Italia. Venti giorni prima dell’attentato alla scorta e alla casa del rappresentante dell’Olp, altri due dirigenti palestinesi, Hussein Kamal e Nazyh Mattar, erano stati uccisi sempre a Roma con due autobombe. In Libano scorreva il sangue a seguito della guerra civile iniziata sei anni prima e dell’offensiva militare israeliana che sfocerà nel settembre 1982 nei massacri di Sabra e Chatila, dove il ruolo di macellai fu svolto dalle milizie falangiste libanesi e dai loro camerati provenienti da altri paesi. Su questo – almeno su questo – Carminati prende però le distanze. Vediamo cosa emerge dalle intercettazioni della sua conversazione con un certo Matteo, quando Carminati parla della sua parentesi in Libano: “Sabra e Shatila avete fatto…”, gli dice il suo amico Matteo. “No, ’82! …non me la potete dare…non me la ponno accollà…”, risponde ridendo. “Poi siamo andati al sud…”, continua, “quando siamo dovuti scappare da Beirut… gli israeliani ci hanno fatto passare… sapevano che avevamo i passaporti falsi …”. E ancora, ricordando all’amico il clima, aggiunge: “… tu salivi sui palazzi e lì cecchinavi dall’altra parte eh… sì…”.
Ma cosa era andato a fare Massimo Carminati in Libano, militante del gruppo neofascista dei Nar e killer a prestito della Banda della Magliana? Secondo i Ros dei carabinieri Carminati era in Libano, “tra il 1980 e il 1981, al fianco di altri appartenenti ai Nar, unitisi alle forze falangiste cristiano-maronite che prendevano parte al conflitto tra le forze filo-israeliane (alle quali esse appartenevano) e lo schieramento filo-palestinese”. “Ti compravi un M16 con 150 dollari…”, dice Carminati, e – a giudicare dalle sue parole, annota il Ros -, non era in Libano per sfuggire a provvedimenti giudiziari in Italia. Si trattava di “una missione vera e propria” con “compiti di carattere operativo” della quale “l’indagato evidenzia l’assenza di un ‘mandato ufficiale’, come a sottintendere la presenza di un mandante virtualmente titolato a formularne”. In altre parole, una missione che pare organizzata da servizi segreti, ma su questo il Ros dei carabinieri non dice molto di più. Anche perché in Libano i servizi segreti che intervengono sono più di uno. Ad esempio il Military Intelligence sezione 6 britannico, viene accusato di essere stato il servizio che proprio in Libano ha arruolato molti dei neofascisti fuoriusciti dall’Italia, assicurandone poi il rifugio in Gran Bretagna. Qui si apre un altro verminaio che ci porta direttamente ai giorni nostri, perché tra i fascisti italiani transitati in Libano o tra quelli latitanti rifugiatisi a Londra (dove alcuni sono riusciti ad arricchirsi in modo stupefacente, data la condizione di “latitanza”), troviamo Roberto Fiore e l’intellettuale (deceduto) Massimo Morsello, leader di Forza Nuova. Secondo The Guardian, a favorire la mancata estradizione dei fascisti dalla Gran Bretagna in Italia fu proprio il servizio segreto britannico MI6.
Ma torniamo in Libano dove alcuni fascisti italiani, inquadrati nelle milizie falangiste, partecipano sicuramente all’assedio, ai bombardamenti e al massacro del campo profughi palestinese di Tal Al Zaatar nel 1976. I fascisti italiani si trovano al fianco dei fascisti francesi del GAJ (Groupe d’Action Jounesse), agli spagnoli di Fuerza Joven, ai fiamminghi del Vlaamsa Militantenorde (VMO), gruppo paramilitare di Anversa guidato da Berr Erickson, e dai neonazisti tedeschi dell’organizzazione giovanile Karl Heinz Hoffman. I gruppi falangisti libanesi, già a metà degli anni Settanta, venivano spesso in Italia a fare conferenze, a raccogliere fondi e armi, utilizzando sia il circuito neofascista sia quello ultracattolico, contando sul fatto che i gruppi falangisti coincidono in larga parte con la comunità cristiano-maronita libanese.
Il network neofascista europeo che combatte nella guerra civile in Libano contro i palestinesi e le forze progressiste, coincide moltissimo con quello che vedremo in azione dieci anni dopo nella guerra civile in Jugoslavia (in quel caso con i croati contro serbi e musulmani) e venti anni dopo in Ucraina. In pratica è la vera rete degli “uomini neri”, quelli disponibili a fare il lavoro sporco in senso anticomunista ovunque serva, inclusa la Bolivia di Evo Morales.
Ma torniamo di nuovo alla presenza e all’addestramento dei fascisti italiani nei campi dei falangisti in Libano.
La Corte d’Assise di Roma nella sentenza n.45 del 29/7/1985 relativa all’operazione “terrore sui treni”, rileva dalle dichiarazioni del col. Giovannone, alto ufficiale del Sismi, alcune informazioni sui neofascisti italiani presenti in Libano, a Beirut Est in modo particolare, in mezzo alle milizie falangiste. Nel documento si legge che:
a) gli italiani presenti nel luglio del 1980 nel campo di addestramento erano cica 6-8 provenienti probabilmente da Palermo, da Bologna (due), e Milano;
b) il capo del gruppo italiano era certo `Alfredo’, probabilmente bolognese, alto 1,75-1,80, snello curato, ben rasato, baffi neri e folti; parlava l’inglese;
c) detto ‘Alfredo’ in un discorso di commiato avrebbe affermato di voler tradurre presto in pratica gli insegnamenti ricevuti e, in tale contesto, avrebbe citato Bologna quale esempio di città ‘in mano ai comunisti’ e, quindi, di situazione da combattere.
Le suddette risultanze vennero inviate al CESIS in data 23/1/1981 con foglio n. 651/30-G/053. Sempre nella sentenza della Corte d’Assise, è scritto che “Fu loro impartito addestramento sull’uso di armi di tipo occidentale e su esplosivi; fra questi sono stati citati Tnt, Plastico e, con molti dubbi, Exogen”.
E che probabilmente i personaggi in questione non fossero affatto degli sconosciuti lo dice il Servizio del Comando Generale Arma Carabinieri, in data 9/5/1981, quando ipotizzò che il sedicente `Alfredo’ potesse identificarsi in Forcillo Alfredo, dimorante in Teramo, o in Alfredo Raimondi Molinari, entrambi noti alla magistratura e agli inquirenti. Non solo. Dagli atti giudiziari emerge che già nella prima decade del novembre 1980 agli inquirenti bolognesi constava che si trovassero in Libano, nei campi di addestramento, vari fascisti romani (tra cui Stefano Procopio, Alessandro Alibrandi, Walter Sordi e Fabrizio Di Iorio) e triestini (tra cui Amerigo Grilz, Gilberto Lippi Paris, Antonio Azzano, Fausto Biloslavo, Livio Lai, Ciro Lai, Roberto Cettini e Gianfranco Suttich).
Come vediamo, dal monitoraggio dei servizi e dagli atti giudiziari, non figura però mai il nome di Massimo Carminati. Eppure è proprio lui a confermare nelle intercettazioni rese note in questi giorni che era in Libano in quel periodo; che “cecchinava dai palazzi”; che passava la frontiera al sud controllata dagli israeliani.
Possibile che solo sulla presenza di Massimo Carminati in Libano abbiano “dormito” i servizi segreti italiani, israeliani, britannici? Oppure, ed è più plausibile, che proprio in Libano sia stata costituita quella generazione degli “uomini neri” che ha continuato il lavoro sporco in Italia durante e dopo la stagione delle stragi e fino ai nostri giorni? E forse emerge anche una pista diversa – a comunque da scandagliare – sugli attentati mortali contro i due dirigenti palestinesi a Roma nel giugno 1982. Carminati sembra aver goduto di molti favori da parte dei servizi segreti italiani e israeliani, e forse qualche favore ha dovuto restituirlo.
Sergio Cararo da contropiano
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