Cambiamo il nome a piazza Monte Citorio, dedichiamolo all’uomo che si è dato fuoco ed è morto stremato dalla precarietà.
L’ho sempre odiato quello slargo, Monte Citorio. E ora ho un motivo in più. L’ho odiato per il passeggio di uomini potenti e dei loro entourage. C’è un dress code evidente che li riconosci subito, e ti avvedi immediatamente dei portaborse, dei giornalisti embedded, delle segretarie d’alto bordo, del generone cresciuto alla loro ombra. All’ombra del palazzone sei-settecentesco ci sono banche per loro, negozi per loro, ristoranti per loro. L’ho odiato da una mattina di ventuno anni fa che eravamo andati a protestare dopo quattro mesi di occupazione delle università. Ci eravamo chiamati la Pantera. Ci accampammo attorno all’obelisco, passammo la notte a cantare. E aspettammo il voto del parlamento su una controriforma che avrebbe mutato geneticamente, e così è stato, il nostro essere studenti. L’ho odiato sei mesi dopo.
Era una freddissima notte di gennaio. Si cantava, stretti tra noi, avvolti nelle coperte. Lo stesso parlamento diede il via alla partecipazione italiana alla prima guerra del Golfo. My name is Cocciolone, ricordate. L’ho odiato quando lì la polizia ha caricato i minatori del Sulcis o quando nemmeno ci ha fatto arrivare i terremotati dell’Aquila, gli ha menato prima. Come non odiare un posto del genere, dove si misura l’impotenza dell’opinione pubblica organizzata su meccanismi di delega assolutamente asimmetrici? Come non odiare un posto dove ho incontrato solo la disperazione e la solitudine di lavoratori che perdevano il posto, di ogni declinazione di precariato, di genitori separati dai figli, di vittime della malapolizia e il catalogo sarebbe indigeribile se ne tentassi la compiutezza.
Ma ora ho un motivo in più. Definitivo. In quello slargo l’11 agosto s’è dato fuoco un uomo della mia età stremato dalla precarietà. E ieri Angelo è morto. Ne ho riconosciuto il sorriso solo quando ho deciso di scrivere questo pezzo-appello. Brandelli di memoria riaffiorano dagli anni 90 quando ho incontrato Angelo nelle piazze di Roma, nei boschi tra Bracciano e Martignano. Me lo ha confermato via mail una collega di Bracciano, Graziarosa Villani: è proprio lui.
Lo avrei chiesto anche se non lo avessi mai visto: cambiamo il nome di quello slargo, glielo dobbiamo. Lo dobbiamo al figlio, a noi stessi. Perché la rabbia non vada dispersa. Perché il sacrificio umano preteso dal neoliberismo sia l’ultimo. Inventiamoci una forma di presenza. Prendiamo un appuntamento. E portiamo lì sotto luci, piante (magari non fiori recisi), testimonianze delle lotte e una targa: “Piazza Angelo Di Carlo, uno di noi”. (Non sarebbe la prima volta che quel posto cambia nome. Dopo il 25 luglio del ’43 era stato intitolato a Giacomo Matteotti, gli occupanti nazisti lo cancellarono per dedicarlo a Muti e gli americani ne ripristinarono il nome attuale).
Checchino Antonini
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