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Rileggere il 7 aprile in un altro secolo

Perché rimandare in libreria, trent’anni dopo la prima edizione, “Un’idea di libertà” il testo con cui Alberto Magnaghi rielabora i diari tenuti durante la detenzione a San Vittore e poi a Rebibbia? La prima ragione è che l’impianto accusatorio del “Teorema” del giudice Calogero, scrive Sergio Bologna in una bella recensione uscita su il manifesto, è diven­tato nel corso degli anni un’ipotesi sto­rio­gra­fica, uno schema logico sul quale oggi si con­ti­nua a costruire memo­ria e nar­ra­zione. È arrivato il momento, invece, di ripren­dere il respiro dello sto­rico e guar­dare di nuovo quel decen­nio dall’osservatorio del pre­sente. La seconda ragione è lo straordinario racconto dello spazio e del tempo del carcere: dalla riduzione alla passività alla prigione interiore, più angosciosa della prima. Il solo modo di eva­dere dalla pri­gione interiore è la soli­da­rietà con gli altri reclusi ma per un dete­nuto poli­tico la soli­da­rietà è anche con­di­vi­sione di scelte, di orien­ta­menti poli­tici, non può essere solo soli­da­rietà umana. Magnaghi coglie il desi­de­rio col­let­tivo nella cella dipinta di aran­cione che tutti cor­rono a vedere, nel tavolo di lat­tine rac­colte in una col­letta spon­ta­nea, nell’aliante che vola oltre il cor­tile e fini­sce su una tet­toia, dove non puoi andarlo a recu­pe­rare altri­menti le guar­die ti sparano

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di Sergio Bologna

Comin­cia con il rac­conto sur­reale di un bri­co­lage. Un tavolo fatto di lat­tine, con­ce­pito come arredo di una cella di San Vit­tore a Milano. Ma quando si parla di car­cere il sor­riso spa­ri­sce pre­sto dalle lab­bra. È l’avvio del libro di Alberto Magna­ghi Un’idea di libertà (Deri­veAp­prodi). Oggi (13 febbraio, ndr), la pre­sen­ta­zione a Milano. Appun­ta­mento alla Libre­ria Uto­pia, via Mar­sala 2, alle ore 19). L’autore viene messo in galera dopo aver messo in piedi, alla facoltà di Archi­tet­tura di Milano, uno dei cen­tri di ricerca e pro­get­ta­zione più inno­va­tivi sullo spa­zio civile ed eco­no­mico, agri­colo e urbano, sul ter­ri­to­rio. Rin­chiuso tra quat­tro mura è costretto a con­ti­nuare l’indagine sullo spa­zio ed osserva giorno dopo giorno come la costri­zione dello spa­zio fisico sia capace di scon­vol­gere lo spa­zio inte­riore, di alte­rare la facoltà per­cet­tiva, d’inaridire la dimen­sione emo­tiva, di con­di­zio­nare la memo­ria, il desi­de­rio.

La pecu­lia­rità dello spa­zio car­ce­ra­rio, costri­zione fisica den­tro un affol­la­mento, soli­tu­dine den­tro una costante vio­la­zione dell’intimità, assenza di suoni e sequela di rumori, è quella di saper ridurre il dete­nuto alla pas­si­vità. Si forma così pian piano una seconda pri­gione, forse più ango­sciosa della prima, per­ché è una pri­gione inte­riore. L’unico modo di sfug­gire, di eva­dere da que­sta pri­gione inte­riore, è la soli­da­rietà con altri dete­nuti. Facile a dirsi ma non per un dete­nuto poli­tico, non per uno che è stato di Potere Ope­raio un paio d’anni ma poi ha river­sato tutta la sua pas­sione civile nella ricerca e pro­get­ta­zione di un habi­tat sostenibile.

Un desi­de­rio collettivo

Per un dete­nuto poli­tico la soli­da­rietà è anche con­di­vi­sione di scelte, di orien­ta­menti poli­tici, non può essere solo soli­da­rietà umana. E poi soli­da­rietà non è solo la parola buona, il pac­chetto di siga­rette, il gesto di ami­ci­zia, è tro­vare il gesto che inter­preta un desi­de­rio col­let­tivo. Magna­ghi si trova in mezzo a dete­nuti poli­tici che inten­dono que­sto gesto solo come gesto di guerra, lui il desi­de­rio col­let­tivo lo coglie nella cella dipinta di aran­cione, che tutti cor­rono a vedere, nel tavolo di lat­tine, rac­colte in una col­letta spon­ta­nea, nell’aliante, che vola oltre il cor­tile e fini­sce su una tet­toia, dove non puoi andarlo a recu­pe­rare altri­menti le guar­die ti sparano.

Poi la scena cam­bia di colpo. È nel brac­cio d’isolamento di Rebib­bia, il G8. Niente rumori, niente più grida, niente sporco o tracce di san­gue alle pareti, tutto ordi­nato. Non sei più un dete­nuto, sei un sor­ve­gliato spe­ciale, non ti deb­bono distrug­gere, ti deb­bono osser­vare. Anche i muri sono i loro infor­ma­tori, anche la lam­pa­dina sem­pre accesa. San Vit­tore, descritto fino a quel momento luogo di distru­zione e di degrado, diventa «umano», diventa fami­liare, diventa quasi un ricordo nostal­gico, l’affollamento viene ricor­dato come ele­mento vitale, l’ora d’aria come con­vi­vio. E ini­zia qui una seconda inda­gine sullo spa­zio, il car­cere diventa plu­rale, ce ne sono tanti. Dal G8 si passa al G7, sezione spe­ciale, dal G7 al G12, sezione nor­male. Si torna in mezzo alla gente, c’è aria di bor­gata. Dopo un anno e con la pro­spet­tiva di restarci assai il dete­nuto cam­bia, non è più il trauma del cam­bia­mento, è la ricerca dell’adattamento la molla che lo fa soprav­vi­vere. A segnare le sue gior­nate non è più la sen­sa­zione ango­sciosa che la pro­pria strut­tura inte­riore viene scon­volta ma l’accettazione della meta­mor­fosi, il «gal­leg­gia­mento nel vuoto», come scrive l’autore, la ras­se­gna­zione a un destino che si è com­piuto. È il secondo sta­dio della deten­zione. Il terzo è quello del riscatto, è quando nella mente s’insinua il mirag­gio dell’evasione, è il biso­gno di libertà. Ma per averla occorre pos­se­dere un’idea, ma per rag­giun­gerla occorre pra­ti­carla, a pic­coli passi, se si scarta l’idea della libertà con­qui­stata manu mili­tari o con il tun­nel sca­vato sotto il cor­tile. Un giorno a Rebib­bia manca l’acqua e fuori sono 40 gradi all’ombra. «Un flusso di comu­ni­ca­zione oriz­zon­tale ha per­corso, come un fre­mito, cia­scuno…. assem­blee di rag­gio, col­let­tivi, dele­gati, una rot­tura della cappa di piombo…». L’uomo torna ad essere una persona.

È un libro straor­di­na­rio che si chiude con l’immagine degli alianti, di cui Magna­ghi è esperto costrut­tore. Il loro volo silen­zioso rap­pre­senta splen­di­da­mente il desi­de­rio, l’idea, di libertà.

Ma la domanda che si fa chi prende in mano que­sto testo è: «Per­ché ripub­bli­carlo adesso? Trent’anni dopo la prima edi­zione!» Cos’è, archeo­lo­gia, redu­ci­smo? No, per­ché parla di un’epoca e di cir­co­stanze sulle quali ancora oggi qual­cuno costrui­sce delle nar­ra­zioni infami. Alle quali, per pigri­zia, per con­fu­sione men­tale, per indif­fe­renza, non diamo la giu­sta rispo­sta. Trent’anni dopo gli avve­ni­menti di cui parla il libro di Magna­ghi, un magi­strato, che ha avuto in quella vicenda giu­di­zia­ria un ruolo non secon­da­rio, ha sen­tito il biso­gno di tor­narci sopra: Gio­vanni Palom­ba­rini, ll pro­cesso 7 aprile nei ricordi del giu­dice istrut­tore (Il Poli­grafo, pp. 152). Si parla del pro­cesso all’Autonomia Ope­raia, del caso «7 aprile», nel quale molti degli impu­tati furono tenuti in galera per anni con accuse spe­ciose, che i pro­cessi smon­ta­rono in gran parte, elar­gendo molte asso­lu­zioni. Il libro di Palom­ba­rini mette a nudo la bar­ba­rie della deten­zione pre­ven­tiva. Fa onore ad uno che fa il suo mestiere aver rico­no­sciuto que­sti com­por­ta­menti inci­vili della giu­sti­zia ita­liana, ma il suo libro non affronta il vero pro­blema di quella vicenda, la vera ver­go­gna, che era l’impianto accu­sa­to­rio, l’impianto chia­mato «il teo­rema Calo­gero». Va beh, dirà qual­cuno, il pro­blema è stato supe­rato, le stesse sen­tenze dei pro­cessi hanno demo­lito quel teo­rema. Ed è qui che non ci capiamo.

Nar­ra­zioni in prima persona

Quell’impianto accu­sa­to­rio non è rima­sto un fatto giu­di­zia­rio cir­co­scritto alla vicenda pro­ces­suale, è diven­tato nel corso degli anni un’ipotesi sto­rio­gra­fica, uno schema logico sul quale si con­ti­nua, oggi — oggi non ieri — a costruire memo­ria e nar­ra­zione. Si è tra­sfor­mato, come dire, in una sostanza tos­sica a lento rila­scio che inquina dei ter­ri­tori, sia pur peri­fe­rici, dell’indagine sto­rica. Non solo ad opera di auten­tici pro­vo­ca­tori ma anche ad opera di per­so­naggi che occu­pano cat­te­dre nell’Università ita­liana e per­sino di sto­rici stra­nieri (è uscito di recente in Ger­ma­nia un pon­de­roso volume di una stu­diosa che, affron­tando un’analisi com­pa­rata dei movi­menti di lotta negli anni Set­tanta in Ita­lia e Ger­ma­nia, riper­corre certi sen­tieri inter­pre­ta­tivi trac­ciati da quella sta­gione giu­di­zia­ria). Da parte nostra c’è stata finora debole rispo­sta e dob­biamo far­cene colpa soprat­tutto noi che abbiamo scelto allora il ter­reno della sto­rio­gra­fia come ter­reno di azione. Ci siamo troppo attar­dati nella memo­ria­li­stica, esa­spe­rando un certo sog­get­ti­vi­smo. Invece è pro­prio il momento di ripren­dere il respiro dello sto­rico e guar­dare di nuovo quel decen­nio dall’osservatorio del pre­sente, per­ché solo oggi si può valu­tare come la mise­ria dell’Italia in cui viviamo sia opera di quelli stessi che hanno infie­rito con­tro l’Autonomia Ope­raia ed i movi­menti di lotta e libe­ra­zione di allora.

da Comune-Info