Subito in cella i primi quattro ragazzi. Sconteranno 50 anni di carcere. Intorno a loro, il silenzio totale. I manifestanti sono in galera come se fossero assassini ma i sindacati di polizia volevano condanne più dure
Chissà perché le sentenze non si devono commentare. Questa poi… L’esito della sentenza della Cassazione che ha confermato le pene per i dieci manifestanti di Genova accusati di devastazione e saccheggio è una tale enormità che richiederebbe una rivolta popolare, almeno sul piano verbale, senza acrimonia, solo per rendere giustizia al buon senso violato. Ieri, su ordine della procura generale di Genova, sono scattate le «manette immediate», dice l’Ansa, per quattro condannati: Alberto Funaro (10 anni), Vincenzo Vecchi (12 anni e 6 mesi), Marina Cugnaschi (12 anni) e Francesco Puglisi (14 anni). Per Ines Morasca (6 anni e 6 mesi) invece l’esecuzione della pena potrebbe essere sospesa. Ma solo perché ha una bambina piccola.
Sono vite distrutte senza aver fatto male a nessuno, forse a un bancomat o a una vetrina, undici anni fa. Forse. Eppure nessuno si scandalizza. Deve essere perché i giornali stranamente hanno insistito soprattutto sul lieve sconto di pena rispetto alla sentenza precedente, come se 10 o 6 anni non fossero abbastanza. L’incredibile è che i più inferociti per quelle attenuanti irrilevanti sono i sindacati di polizia che sul Corriere della Sera si sono indignati perché la giustizia sa prendersela solo con i poliziotti. Nicola Tanzi, segretario generale del Sap, parla di «una disparità che ci indigna». Il suo ragionamento fa paura come una minaccia. «Tutto questo – insiste Tanzi – crea disagio tra le forze dell’ordine, il governo lo deve sapere, perché in autunno arriveranno nuove manifestazioni di piazza ed è chiaro che noi siamo poco tutelati». Felice Romano, segretario generale del Siulp, non è da meno. «Perché davanti all’accertamento giudiziario di responsabilità per entrambi, succede che ad alcuni, i no-global, la Cassazione riconosca delle attenuanti e ad altri, i poliziotti, no?» E giù ringraziamenti ai vertici della polizia condannati che hanno servito il paese (Gilberto Caldarozzi e Francesco Gratteri). La stessa domanda toglie il sonno anche a Enzo Letizia, segretario dell’associazione nazionale funzionari di polizia, «perché per i nostri nessuno sconto di pena mentre lo sconto invece è arrivato per chi attentò alla sicurezza del paese?». Insomma, questi poliziotti hanno il coraggio di invocare pene più dure di 10 o 15 anni per «devastazione e saccheggio». Forse l’ergastolo.
Non tocca a loro giudicare i delinquenti – li devono solo acciuffare – ma visto che in qualche modo sono «del ramo» è strano che non si rendano conto di una cosa piuttosto semplice. Ma lo sanno chi di solito è costretto a trascorrere parte della propria vita nelle carceri italiane, per quali reati e per quanto tempo? Lasciamo stare, per esempio, Mario Placanica, il carabiniere che quel 21 luglio uccise Carlo Giuliani e poi finì prosciolto per legittima difesa (adesso deve rispondere di un altro reato, violenza sessuale nei confronti di una undicenne). Consideriamo altre sentenze, e vediamo se i «no-global» meritano tutti questi anni di carcere. I quattro poliziotti che il 25 settembre 2005 hanno massacrato – per «eccesso dei mezzi di contenimento» – il diciottenne Federico Aldrovandi sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi. Un terzo della pena inflitta al più pericoloso spaccatore di bancomat ammanettato ieri.
Michele Ferulli, 51 anni, lo scorso 30 giugno, a Milano, è morto in seguito a un controllo piuttosto violento di una volante della polizia. I quattro poliziotti rinviati a giudizio sono accusati di omicidio colposo e rischiano una pena che va dai 6 mesi a 5 anni. Nella peggiore delle ipotesi, meno della ragazza che ieri non è andata in carcere perché mamma.
Poi c’è anche chi indossa una divisa e uccide volontariamente una persona, stando al rinvio a giudizio. Alessandro Amigoni, il vigile «rambo» milanese, che il 13 febbraio scorso ha ucciso con un colpo alle spalle il 28enne cileno Marcelo Valentino Gomez Cortes: con ricorso al rito immediato (sconto di un terzo della pena) rischia massimo 10 anni di carcere. Più o meno gli stessi anni di carcere che se l’avessero fotografato a Genova durante gli scontri che stavano coinvolgendo decine di migliaia di persone.
L’elenco potrebbe essere infinito, tanto sono assurde le condanne confermate ieri dalla Corte di Cassazione. Un pedofilo come don Riccardo Seppia, l’ex parroco di Sestri Levante, ha appena preso 9 anni e sei mesi, ma per tentata violenza su un minore, induzione alla prostituzione minorile e cessione di droga. Annamaria Franzoni, riconosciuta colpevole di aver ucciso il figlio Samuele, è stata condannata a 16 anni.
La polizia può dire quello che vuole, ma possibile che nessun altro abbia qualcosa da ridire?
Luce Manara da il manifesto
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