Abbattere o incendiare alberi e boschi sembra una pratica diffusa da Occidente a Oriente
Evidentemente l’isola di Pasqua non ha insegnato niente. Vuoi per “sport”, vuoi per profitto (in certi casi per aprire una miniera), vuoi per ragioni strategiche (snidare la resistenza curda)…usque tandem? Eppure: “quando avrete tagliato l’ultimo albero…”
di Gianni Sartori
Si parva licet.
Lumignano, Colli Berici. Scendiamo con circospezione lungo il sentiero infangato e reso ulteriormente viscido dalle biciclette che ieri – era festa – hanno evidentemente scorrazzato in sù e in giù (ma soprattutto in giù, vuoi perché prima si fanno trasportare in “quota” col furgone, vuoi perché in genere questi domenicali frustrati con l’elettrica salgono per le strade asfaltate e poi giù a capofitto per i sentieri tradizionalmente percorsi a piedi).
Di tanto in tanto contempliamo perplessi il taglio sistematico della vegetazione, sia arbusti che alberi, lungo i bordi. Con il risultato di allargare il sentiero (“el troso”) a livello di “caresà ”. Così da poter correre a tutta velocità senza pericolo di prendersi qualche ramo in faccia. Spettacolo ormai abituale.
Incazzatura (ma lieve, ormai con l’età prevale la rassegnazione) per un ginepro di discrete dimensioni (età presunta almeno un ventennio) e per qualche roverella (a crescita lenta) che faticosamente aveva superato il metro.
Ma poi arriviamo dove il sentiero si divide (divideva ormai) in due, nel punto dove troneggiava da decenni un alto esemplare di acero.
Evidentemente dava fastidio ai soliti ciclisti della domenica (per distinguerli da chi, come per decenni il sottoscritto, usava il mezzo per andare quotidianamente al lavoro, non solo per diporto) ed è stato tagliato, abbattuto, decapitato.
Il tronco appare perfetto, sanissimo, le ultime foglie non ancora seccate ne confermano la vitalità e buona salute. Ma allora perché? Solo per non dover rallentare un pò?
Oltretutto per poi lasciarlo qui a marcire o fornire l’esca per qualche incendio nel sottobosco…
Piccola storia – per quanto ignobile, emblematica- che forse scompare, evapora di fronte a quanto sta avvenendo in Turchia (e non solo).
La montagna Kaz (monte Ida) sorge tra le province di Çanakkale e di Balıkesir.
Nonostante fosse stato avviato un procedimento legale per impedire l’abbattimento degli alberi, questo è già stato avviato. Allo scopo di ampliarela miniera di Halilağa per l’estrazione del rame della società Cengiz Holding. Un’azienda che negli ultimi anni è stata ripetutamente contestata per aver realizzato grandi infrastrutture a elevato impatto ambientale.
Oltre all’ampliamento delle miniera stessa è previsto un ulteriore disboscamento per l’impianto di smaltimento dei rifiuti minerari.
Già qualche anno fa, nel 2019, la medesima montagna era stata al centro di una contesa tra il progetto di una miniera d’oro e la popolazione locale a cui si erano uniti gruppi ambientalisti.
A rischio in entrambi i casi anche le risorse idriche, in particolare le sorgenti che riforniscono di acqua potabile gli abitanti dell’area.
In un primo momento, a seguito delle proteste, il Primo Tribunale Amministrativo di Çanakkale aveva annullato la decisione del dicembre scorso che aveva consentito, in febbraio, le prime trivellazioni per i “carotaggi”.
Successivamente, maggio 2023, contro il progetto della miniera Halilağa era intervenuta anche l’Associazione per la Conservazione del Patrimonio Naturale e Culturale delle Montagne Kaz.
Ma evidentemente nemmeno questo era bastato per impedire l’avvio del disboscamento.
Nel frattempo non si arresta la protesta popolare contro il disboscamento di Akbelen. Una foresta di ben 740 ettari (in parte costituita da Pinus brutia) nei pressi del villaggio di Ikizköy (distretto di Milas). In questo caso per consentire l’estrazione di lignite (carbone) per rifornire la centrale di Yeniköy-Kemerköy, controllata da”Limak Holding”. Costruita verso la fine del secolo scorso, avrebbe ormai concluso il suo ciclo vitale, ma il governo ha deciso di prolungarla per altri 25 anni senza calcolare i danni ambientali prevedibili.
E senza considerare che in precedenza erano stati evacuati e demoliti con le ruspe almeno una dozzina di villaggi per far posto alle attività estrattive.
Sulla questione è intervenuta con una raccolta firme anche la nostrana Lipu associandosi alla Doğa, partner turco di BirdLife International (in difesa, oltre che della popolazione, della flora e della fauna, in particolare del raro picchio muratore di Krüper qui presente).
Le proteste ambientaliste durano ormai da circa tre anni e vengono regolarmente represse con lacrimogeni, manganellate e arresti. Come è toccato recentemente al militante ecologista libertario Tuğulka Tolga Köseoğlu.
Tornato in libertà, ha dichiarato di aver “tentato di impedire l’arresto di un suo amico” nel corso dell’assalto alla manifestazione da parte della polizia militare. Arrestato a sua volta, veniva ripetutamente colpito con “calci e pugni” e anche “alla testa con il calcio dei fucili”. Tutto questo mentre l’opera di abbattimento degli alberi proseguiva.
A suo parere, la rabbia della polizia si era innescata quando durante la manifestazione veniva denunciata anche la distruzione ambientale operata dall’esercito turco in Kurdistan. Proprio per aver evocato “l’ecocidio in atto nel Kurdistan” Köseoğlu era stato prima insultato e poi duramente maltrattato, picchiato. Durante il trasporto, oltre a vari colpi alla testa, avrebbe subito anche un “tentativo di aggressione sessuale”. Sbrigativamente dimesso dopo un sommario esame medico all’ospedale, il giovane veniva rinchiuso nella gendarmeria di Jandarma a Milas.
Denunciato per “resistenza alle autorità statali” era stato comunque rimesso in libertà, grazie al suo avvocato che aveva potuto dimostrare l’infondatezza delle accuse.
E come se ciò non bastasse, soldati turchi e iraniani stanno incendiando metodicamente altre foreste del Kurdistan per snidare i partigiani curdi. Ma questa è già un’altra storia (o un altro articolo, vedremo).
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