Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale
- giugno 15, 2022
- in carcere, recensioni
- Edit
Recensione di Carla Panico, del Centro studi sociali dell’Università di Coimbra (Portogallo), al libro di Angela Devis “Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale” edito in Italia da Minimum fax
È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del carcere? Abolire il carcere è, innanzitutto, un potentissimo atto immaginativo: è questo il tema del saggio di Angela Davis intitolato: Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, ripubblicato da Minimum fax nel 2022 – con traduzione di Giuliana Lupi.
Il primo grande merito di Angela Davis è quello di tracciare una genealogia intersezionale della prigione, all’interno della storia razzializzata degli Stati uniti, con uno scopo ben chiaro: storicizzare il carcere per strappare questa istituzione alla sua eternità, de-naturalizzarla, mostrarla come risultato di domini e oppressioni contestuali; raccontare come il carcere è nato e si è trasformato nella sua forma contemporanea per ricordare che non è sempre esistito e che, come tale, potrà un giorno cessare di esistere.
Il carcere è stato una parte della vita di Davis, arrestata nel 1970 a causa della sua militanza nelle Black Panther: tale esperienza è stata raccontata nel 1974 nel testo: Autobiografia di una rivoluzionaria, che costituisce il primo manifesto abolizionista dell’autrice. Esplicitamente ispirata dalla lettura degli scritti di Gramsci, Davis trova nel carcere un catalizzatore della propria riflessione teorica, inserendosi all’interno della tradizione della letteratura carceraria afroamericana – gli scritti degli schiavi prima e dei prigionieri politici poi.
Ed è proprio sulla voce dei detenuti e sulla relazione complessa tra detenzione e produzione culturale, in cui si sentono gli echi del pensiero di Appadurai sui subalterni e “la capacità di aspirare” (2011), hanno riflettuto da una prospettiva femminista le teoriche femministe Carlotta Cossutta e Elisa Virgili (2020) a partire dall’esperienza di un laboratorio di filosofia politica tenuto in carcere, “non per abbellirlo o far sì che sia più confortevole, ma per trasformarlo, almeno per le due ore di lezione settimanali, in uno spazio pubblico”. È dunque possibile immaginare il carcere come un luogo in cui creare forme di resistenza culturale, spazi minimi di produzione di nuove narrative, pur mantenendo una prospettiva abolizionista? È possibile trasformare temporaneamente il carcere in uno spazio pubblico, attraverso la possibilità offerta a chi sta all’interno di raccontarsi? Secondo Angela Davis, il carcere continua ad esistere perché siamo costantemente messi nella condizione di pensare che non ci riguardi, che costituisca, per eccellenza, l’esperienza con cui non possiamo identificarci né empatizzare, un’alterità radicale rispetto al quotidiano. Di conseguenza, permettere a chi è dentro al carcere di maneggiare strumenti per analizzarlo, raccontarlo e scriverne diventa una operazione trasformatrice e rivoluzionaria, per “conoscere e a scoprire l’umanità che vi si nasconde” (Kalica 2018) e trasmetterla all’esterno delle mura.
Del resto, la violenza strutturale del sistema detentivo risiede – secondo Davis – in due elementi: l’opacità verso l’esterno e il differente livello di umanità che viene riconosciuto a chi si trova all’interno. La “minore umanità” corrisponde ad una perdita di diritti – che negli Usa è ben rappresentata dalla negazione del diritto di voto – ed è correlata alla matrice razziale che ha dato forma alla popolazione carceraria fin dagli esordi.
Cambia, così, radicalmente la percezione sociale di ciò che è ritenuto accettabile dentro o fuori la prigione. In delle pagine particolarmente incisive, Davis parla a lungo delle perquisizioni fisiche che vengono imposte abitualmente a detenuti e, in particolare, detenute. Queste pratiche che, al di fuori delle mura del carcere, sarebbero universalmente considerate violenze sessuali, diventano una mera prassi burocratica al suo interno.
L’analisi complessa del sistema detentivo che Davis offre in questo libro – in particolare nella prima parte del volume, dal titolo “Il carcere è obsoleto?” – è profondamente radicata nella storia e nella genealogia del sistema penale statunitense che, come anticipato, non si può ricostruire prescindendo dalla dimensione razziale, ma anche da quella di genere. Le carceri statunitensi esistono, nella loro forma attuale, come diretta conseguenza del sistema schiavile: sono, parafrasando, la schiavitù proseguita con altri mezzi. La trasformazione del penitenziario – che inizialmente era luogo in cui pentirsi in attesa della pena, divenuto poi la pena stessa – di pari passo con la (formale) abolizione della schiavitù dà origine a ciò che Davis definisce il complesso carcerario-industriale, in cui la manodopera nera viene legalmente (ri)messa a valore.
La divisione di genere interna al sistema detentivo è ulteriormente articolata: la prigione americana nasce, inizialmente, per rinchiudere uomini, poiché essi avevano violato la legge; laddove, ricorda Davis, le donne criminali avevano sempre, piuttosto, violato la morale e ad esse era destinata una istituzione parallela e speculare: l’ospedale psichiatrico. L’ingresso delle donne nelle prigioni avviene, successivamente, con l’obiettivo di rieducarle riportandole all’interno delle aspettative di genere – e razza – proiettate su di esse: per farne, cioè, delle mogli – nel caso delle donne bianche – e delle serve – nel caso delle donne nere. Il lavoro di Davis sulla differente articolazione razziale e di genere della violenza carceraria costituisce uno dei migliori esempi di una metodologia che riporta l’intersezionalità – parola ormai spesso a rischio di svuotamento – in una dimensione incarnata e materiale, capace di tenere insieme senza semplificazioni privilegio, rappresentazione, posizionamento e lotta per l’uguaglianza. Quale uguaglianza è possibile in un mondo punitivista, in cui si dà per scontata la pena, come correlato indissolubile della colpa (Segato 2016)? Forse quella che passa per la redistribuzione genderblind o raceblind delle stesse pene elaborate da un sistema strutturalmente patriarcale, capitalista e razzista? In altri termini – si chiede Davis – avremo forse giustizia carceraria quando gli uomini bianchi saranno puniti tanto quanto gli uomini neri, o quando un maggior numero di donne sarà introdotta nel sistema punitivo – nella veste di detenute o di secondine? Qui risiede la sfida immaginativa: se il carcere è il prodotto di un sistema strutturale di oppressioni di razza, genere e classe, qualsiasi politica radicale femminista, antirazzista e anticapitalista non può che teorizzare e praticare il cammino per l’abolizione di tale istituzione.
Riferimenti bibliografici
Appadurai, A. (2011), Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, Et al.
Cossutta, C. e Virgili, E. (2020), “Disfare genere e carceri”, in Edizioni minoritarie,
https://www.edizioniminoritarie.it/blog/disfare-generi-e-carceri-cossutta-virgili (consultato il 05 Maggio 2022).
Kalica, E. (2018), Convict criminology and abolitionism: looking towards a horizon without prisons, in Journal of Prisoners on Prisons, vol. 27, n. 2, pp. 91-107.
Segato, R.L. (2016), La guerra contra las mujeres, Madrid, Traficantes de Sueños