Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale.
- marzo 03, 2016
- in amnistia, carcere, diritti civili, tortura, violenze e soprusi
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Il carcere è un luogo inumano.
In troppi casi luogo di torture e morte, di abusi e sopraffazioni, dove chi indossa la divisa è legittimato a non rispettare i più elementari diritti umani.
Eppure ci riesce difficile immaginare una valida alternativa al carcere. Riporto le parole di Arthur Waskow, membro dell’ Instituite for Policy Studies:
“Lasciate perdere la riforma; è ora di cominciare a parlare dell’abolizione di carceri e prigioni (…) Tuttavia… abolire? E dove li mettiamo i detenuti? I “criminali”? Qual è l’alternativa? (…) L’unica vera alternativa è costruire quel tipo di società che non ha bisogno di prigioni: una decorosa ridistribuzione del potere e del reddito, così da estinguere il fuoco occulto dell’invidia bruciante che infiamma oggi i reati contro la proprietà (…) E un senso decente della comunità che possa sostenere, reinserire e riabilitare davvero quelli che sono presi improvvisamente dall’ira o dalla disperazione, che li tratti non come oggetti – “criminali” – ma come persone che hanno commesso atti illegali, come la maggior parte di tutti noi.”
Partendo da un’analisi molto approfondita del sistema carcerario, la studiosa americana Angela Davis, nel suo libro “Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale”, tratteggia la storia del carcere a partire dall’Illuminismo (Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene”) e mette in luce alcuni degli aspetti più raccapriccianti di questa istituzione, quegli aspetti che molti di noi si ostinano a non vedere – la coercizione sessuale, la tortura, il razzismo, lo sfruttamento.
– CENNI BIOGRAFICI
Angela Davis nasce in Alabama nel 1944. A partire dagli anni Sessanta è stata una figura fondamentale del movimento americano per i diritti civili, militante del Partito Comunista sempre in prima linea nella lotta degli afroamericani contro il razzismo e la repressione. Per la sua vicinanza alle Pantere Nere, nel 1970 fu accusata di essere coinvolta nell’omicidio di un giudice e per questo fu inserita nella lista dei dieci principali ricercati dell’FBI. Scontò un periodo di detenzione e la sua incarcerazione generò proteste di solidarietà a livello globale, portando alla sua assoluzione nel 1972. I suoi studi sociologici si sono concentrati soprattutto sul carcere, anche a seguito dell’esperienza personale. Oggi insegna Storia della Coscienza presso l’Università della California a Santa Cruz. Con la casa editrice Minimum Fax ha pubblicato “Autobiografia di una rivoluzionaria” e “Aboliamo le prigioni?”.
– L’ABOLIZIONISMO
Ovunque si da per scontato il rapporto delitto-castigo: chi ha commesso un reato, deve andare in prigione. Il carcere fa ormai parte del nostro panorama ideologico e sociale, risulta difficile, per non dire impossibile, immaginare una società senza di esso. Coloro che sostengono la tesi abolizionista vengono taccati come utopisti e idealisti – abolire il carcere sarebbe sconcertante e insensato, tuttalpiù sarebbe più razionale lottare per riformare le prigioni, migliorando le condizioni carcerarie.
La Davis esprime invece un punto di vista interessante: siamo sicuri che il carcere sia il sistema migliore?
Forse è semplicemente frutto di un determinato contesto storico, in cui sorgeva come valida alternativa alla pena di morte. Anche la schiavitù era frutto di un periodo storico ben preciso, e ai tempi si riteneva indispensabile, necessaria: eppure oggi è superata, obsoleta, ci fa orrore soltanto pensarvi. Che forse anche il carcere sia destinato a evolversi in questo modo?
Magari tra vent’anni, o forse meno, il carcere sarà obsoleto, e penseremo ad esso come oggi pensiamo, ad esempio, al sistema della compravendita di schiavi.
“Se il regime interno al penitenziario assomigliava a quello delle piantagioni al punto che i due erano spesso messi sullo stesso piano, come poteva il carcere servire alla riabilitazione dei criminali?” (Adam Jay Hirsch)
– L’ERA DEL COMPLESSO CARCERARIO-INDUSTRIALE
Negli ultimi decenni, nel panorama statunitense, si è assistito a un’espansione straordinaria degli edifici destinati alla detenzione. E con l’espandersi del sistema carcerario, “cresceva anche il coinvolgimento delle corporation nella costruzione delle prigioni, nel loro approviggionamento di beni e servizi nell’utilizzo di manodopera carceraria. Poiché la costruzione e la gestione delle prigioni iniziò ad attrarre ingenti capitali – dall’industria edilizia alle forniture alimentari, all’assistenza sanitaria – in un modo che ricordava la nascita del complesso militare-industriale, si è cominciato a parlare di un <complesso carcerario-industriale>.”
Le corporation legate all’industria penitenziaria ricavano dunque profitto dal sistema che gestisce i detenuti, e sono ovviamente interessate alla continua crescita della popolazione carceraria. Dato che l’incarcerazione in massa genera profitti, si tende a riprodurre proprio quelle condizioni che portano la gente in prigione, scrive l’autrice.
Ad esempio, le corporation che spostano la propria sede in un altra Nazione dove il costo della manodopera è nettamente inferiore, lasciano nei guai intere famiglie, che perdono il lavoro. La distruzione della base sociale di queste comunità fa sì che uomini, donne e bambini cresciuti in questo contesto di miseria e povertà diventino dei candidati perfetti per il carcere.
“Le prigioni sono diventate buchi neri in cui vengono depositati i detriti del capitalismo contemporaneo”.
– LA DIMENSIONE RAZZISTA E SESSISTA DEL CARCERE
La popolazione carceraria degli Stati Uniti è costituita prevalentemente da neri e ispanici, un ulteriore riflesso del razzismo che ancora permea fortemente le strutture della società americana. Le comunità “ghettizzate”, cresciute in contesti sociali caratterizzati dalla totale assenza dello Stato (nel campo dell’istruzione, sanitario, assistenziale,etc.) sono quelle maggiormente esposte al rischio del carcere. E d’altronde la polizia americana – da sempre poco incline alle buone maniere- ultimamente non si è fatta mancare occasione di uccidere a colpi di pistola sempre più ragazzi afroamericani.
Le donne in carcere sono spesso abusate e farmacologizzate, sottoposte a pratiche inquietanti come la perquisizione integrale, durante le quali vengono fatte completamente spogliare e vengono tastate dagli agenti – una vera e propria forma di violenza fisica.
“Le condizioni qui dentro rievocano costantemente passate esperienze di violenza e oppressione, spesso con risultati devastanti. A differenza di altre detenute che si sono fatte avanti per rivelare le loro impressioni sul carcere, non mi sento “più sicura” qui perché “gli abusi sono cessati”. Non sono cessati. Hanno cambiato forme e tempi, ma sono insidiosi e pervasivi in prigione quanto lo erano nel mondo che ho conosciuto fuori da queste mura. A cessare è stata la mia ignoranza degli abusi… e la mia disponibilità a tollerarli in silenzio”. (Marcia Bunny)
– LA TORTURA
Smettiamola di far finta di non vedere: la tortura c’è, esiste, viene praticata quotidianamente all’interno di celle buie, nell’indifferenza generale.
Emblematico il caso di Guantànamo, prigione statunitense situata a Cuba che raccoglieva prigionieri iracheni ed afghani collegati ad attività terroristiche. Le raccapriccianti foto della prigione di Guantànamo hanno fatto il giro del mondo: detenuti incappucciati e traumatizzati da scosse elettriche, costretti a stare accatastati gli uni sugli altri nudi o a masturbarsi davanti ai militari, sporcati di sangue mestruale dalle donne soldato. Ma non pensiamo che questo accada troppo lontano da noi: per citare un esempio, solo l’anno scorso la Corte di Strasburgo ha sentenziato che “a Genova (nel 2001, ndr) fu tortura”. E l’Italia non ha ancora fatto nulla al riguardo, non ha ancora introdotto il reato di tortura.
Le immagini di quello che è successo ci pervengono grazie al film “Diaz – don’t clean up this blood” di Daniele Vicari, fedelissime alle numerose testimonianze e ricostruzioni dei fatti: alla caserma di Bolzaneto, gli arrestati venivano costretti a stare in piedi (senza potersi muovere nemmeno per andare in bagno), umiliati davanti agli agenti e picchiati senza sosta.
Un altro aspetto che dovrebbe farci riflettere sulla brutalità (e inutilità?) del sistema carcerario.
– LE ALTERNATIVE AL CARCERE
Secondo Angela Davis, non dovremmo cercare delle strutture alternative al carcere (come gli arresti domiciliari), ma dovremmo porci lo scopo ultimo di eliminare il carcere dal paesaggio sociale e ideologico della nostra società. Cominciando ad esempio dalla “demilitarizzazione delle scuole, la rivitalizzazione dell’istruzione a tutti i livelli, un sistema sanitario che fornisca cure mediche psicofisiche gratuite a tutti e un sistema giudiziario basato sulla riparazione e la riconciliazione anziché sul castigo e la vendetta”.
- La demilitarizzazione delle scuole: cominciare eliminando la presenza di vigilanti e poliziotti armati nelle scuole “del ghetto”, trasformandole così in veicoli di “decarcerazione”: se non si elimina il clima di violenza nelle scuole delle comunità povere di colore, esse continueranno a essere la strada principale per il carcere.
- Il Sistema sanitario: le disparità razziali e di classe nelle cure disponibili per i benestanti e gli indigenti vanno elimintate, creando cosi un altro veicolo della decarcerazione.
- La depenalizzazione dell’uso di sostanze stupefacenti: la guerra alla droga ha svolto un ruolo fondamentale nell’accrescere enormemente la popolazione carceraria.
- Difesa dei diritti degli immigrati: eliminare i processi che puniscono chi entra nel Paese senza documenti.
- Piani per l’impiego e per il salario minimo garantito, programmi assistenziali.
- Concetto di giustizia riparatrice: definire il reato in termini di torto e parlare di diritto riparatore anziché diritto penale. Adoperare strategie di riparazione, non di punizione.
Pur concentrandosi specificatamente sul sistema carcerario americano, “Aboliamo le prigioni?” offre spunti di riflessione interessanti anche per la situazione italiana. E’ un libro che smuove le coscienze, un libro che ci fa uscire dal languido torpore quotidiano per catapultarci in una realtà che esiste ma che molti di noi si ostinano a non vedere – magari perché pensiamo “tanto a me non succederà mai”, o perché crediamo ancora che il carcere sia un sistema efficiente.
Ma può un uomo tornare a vivere davvero dopo la prigionia?