A quasi due anni dalle rivolte carcerarie del marzo 2020 una riflessione sul mondo della detenzione
di Nassi LaRage
Come mai così tante persone sono potute finire in prigione senza che ciò sollevasse dibattiti importanti sull’efficacia della detenzione?
Un gruppo superiore alla popolazione di molti paesi trascorre la propria esistenza rinchiuso tra 4 mura, molto spesso con regole che impediscono il movimento a causa degli spazi angusti, a guardare fazzoletti di cielo tra sbarre e grate.
Quasi ovunque abolire il carcere appare semplicemente impensabile, inverosimile, utopico perché il carcere è considerato un elemento inevitabile e permanente della nostra vita sociale.
Ma proviamo a analizzare una questione alla volta, ringraziando come sempre il contributo di Angela Davis a ciò che gli/le attivist americani chiamano Movimento Abolizionista:
L’aumento del numero dei detenuti è determinato da ragioni che nulla hanno a che vedere con l’aumento della criminalità e che stanno piuttosto nella adozione di leggi marcatamente repressive. In particolare, gli inasprimenti della disciplina sugli stupefacenti, le leggi sull’immigrazione e la regolamentazione sulla recidiva.
Il carcere – a differenza di quanto si crede abitualmente – non è affatto una istituzione di sempre. Al contrario, esso nasce solo agli albori della società industriale come contenitore della povertà e come congegno per escludere dalla cittadinanza sociale la popolazione marginalizzata, spesso connotata anche in termini etnici; ad essi è negato l’accesso legittimo alle risorse economiche e sociali disponibili, e vengono rappresentati come pericolosi, percepiti come una minaccia per la sicurezza sociale e, in conseguenza della loro esclusione, per la sicurezza fisica e patrimoniale dei cittadini.
In carcere poi, per toccare tasti etici, si sta male: sovraffollamento, soggiogazione psicologica, impossibilità di scrivere, leggere o guardare la televisione in un luogo diverso che non sia il letto. Per il problema del sovraffollamento l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2009, ma anche dopo lo scoppio della Pandemia nessuno passo in avanti è stato fatto.
Anzi, migliorano i sistemi di controllo, punizione, schiacciamento delle personalità.
Un numero altissimo di detenuti, anche a prescindere da patologie accertate e da percorsi terapeutici, è sottoposto a terapie farmacologiche di tipo psichiatrico anche importanti. In sostanza, una fetta molto consistente della popolazione detenuta viene costantemente sedata. Si tratta di un meccanismo di contenimento attraverso il quale si cerca di limitare i danni dell’inefficienza del sistema, con conseguenze facilmente immaginabili anche sul piano della salute mentale.
Come è possibile che questo tipo di punizioni possano essere uno strumento di rassicurazione per la popolazione libera?
Per tornare al sovraffollamento, il nostro sistema pratica un uso massiccio della carcerazione preventiva (quindi incarcerazione temporanea in attesa della conclusione delle indagini); questo comporta l’ingresso di un numero ingente di arrestati, poi trattenuti per qualche giorno e scarcerati in sede di udienza di convalida. Stiamo parlando del 32% degli ingressi.
Il fenomeno, definito «delle porte girevoli», ha un carattere di totale irrazionalità: la detenzione breve è, secondo tutti gli operatori, un trauma devastante quanto inutile per gli incensurati e uno strumento privo di deterrenza per chi incensurato non è.
Culturalmente viviamo una identificazione tra carcere e pena addirittura quando ci sforziamo di superarla. L’elemento di comparazione tra ciò che è concesso e no, è sempre il carcere. Viviamo in un’epoca dominata dalla convinzione della necessità delle detenzioni, che costituisce elemento chiave del “pensiero unico”.
Quindi è lineare che siano nati anche dei Centri di detenzione per migranti, che scontano una doppia pena (più l’espulsione dal territorio italiano) per un unico reato;
Il veicolo di questa operazione è, oltre alla segregazione, il sistema di interdizioni connesse con il carcere. Come negli Stati Uniti, dove dodici Stati prevedono per molte categorie di condannati l’esclusione dal godimento dei diritti politici, anche in Italia i detenuti stranieri, una volta usciti dal carcere, non hanno più diritto all’ottenimento della cittadinanza e entrano nel turbine della detenzione amministrativa con espulsione, grazie alla presenza di queste prigioni-lager sul territorio italiano.
Se il carcere non produce sicurezza, non argina la recidiva, provoca una sofferenza aggiuntiva, se – in altri termini – non è né utile né giusto perché conservarlo e addirittura incrementarlo?
Le risposte della politica per affrontare il problema del sovraffollamento sono costruire nuovi complessi carcerari. Questo aggrava, anziché risolvere i problemi.
Se vogliamo vederla in un’ottica legalitaria, l’ambito delle sanzioni come alternativa al carcere (pecuniarie, alternative, sostitutive, interdittive, risarcitorie o mediative etc.) è tanto ampio e variegato in astratto quanto inutilizzato in concreto.
Bisogna educare all’alternativa i giudici e l’amministrazione, come scrive il magistrato italiano Livio Pepino in “Qualcosa di meglio del carcere”. Non solo. Sradicare una mentalità che permette al sistema carcerario di crescere grazie alla richiesta diffusa della opinione pubblica. Anche di quella progressista, tra la richiesta di legalità e la richiesta di pena più dure.
Cambiamo rotta. Per tutte le persone disumanizzate all’interno delle prigioni, per chi ha 20 anni, per chi nasce da una madre detenuta e per tutte le contraddizioni che sta creando il sistema carcerario. Aboliamo il carcere, soprattutto dentro la nostra mente.