Domenica le truppe turche e l’Esercito Libero Siriano, opposizione a Damasco agli ordini di Ankara, si sono portati a 2,5 km dalla città di Afrin. Ieri erano a un chilometro e mezzo: l’invasione del principale centro del cantone curdo-siriano è imminente. Con il passare delle ore cresce il timore di una strage, anticipata da un intensificarsi dei raid aerei.
Nei 52 giorni di operazione turca, secondo il Consiglio per la Salute di Afrin, sono stati uccisi 232 civili, 668 i feriti. Il 90% ha perso la vita in attacchi aerei. Ed è crisi umanitaria: l’esercito turco ha tagliato l’acqua, colpito ospedali e scuole, distrutto campi profughi. Sono decine di migliaia i civili in fuga dai villaggi del distretto verso il centro della città per sfuggire alle bombe e all’avanzata terrestre.
Centinaia di sfollati stanno trovando rifugio nelle case che altre famiglie hanno aperto per loro, mentre la popolazione si mobilita: i civili, dicono da Afrin, sono pronti a farsi scudo umano, a fare interposizione con i propri corpi. La comunità è circondata: le truppe turche premono da nord e sud e stanno completando l’accerchiamento a est e ovest, eliminando ogni via di fuga.
Alla voce della gente si unisce quella dell’amministrazione autonoma del cantone, creatura figlia dell’autogestione che da anni caratterizza Rojava e che domenica ha fatto appello al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Ma al Palazzo di Vetro a risuonare è il silenzio: i 15 membri ieri si sono riuniti a New York a porte chiuse per discutere di Ghouta est e della tregua in Siria prevista dalla risoluzione 2401, ma non delle iniziative belliche del governo turco.
L’ambasciatrice Usa Haley ha alzato la voce contro la Russia, minacciato un intervento in solitaria e presentato una nuova bozza di risoluzione che «non lascia spazio» a chi non rispetta la tregua, ma non ha nominato Afrin. A una situazione fuori dalla legalità internazionale non reagisce nessuno.
Non lo fanno gli Stati uniti, neppure di fronte alle reiterate minacce del presidente Erdogan che di nuovo sabato ha promesso di marciare su Kobane (simbolo della resistenza all’Isis) e Manbij (dove stazionano 2mila marines Usa). E con la Russia che tace, qualche notizia giunge dal fronte governativo: dopo le migliaia di combattenti pro-Assad inviati a proteggere i confini di Afrin ma tuttora silenti, ieri l’Osservatorio siriano (organizzazione basata a Londra e parte del fronte anti-Assad) ha riportato del dispiegamento a Nbul e al-Zahraa, 21 km a sud di Afrin, della Guardia repubblicana siriana. E proprio da Nbul verso Aleppo stanno fuggendo migliaia di civili, con fonti locali che parlano già di 25mila sfollati fuori dal cantone.
In Occidente gli unici a mobilitarsi sono i cittadini: da giorni le principali città europee sono teatro di presidi in solidarietà con Afrin, in Germania, Francia, Olanda, Svezia, Russia, Belgio, Regno Unito. In Italia migliaia di persone hanno preso parte da sabato a ieri a sit-in a Torino, Bologna, Padova, Roma, Reggio Emilia.
La battaglia prosegue anche nella capitale. Nelle ultime 48 ore l’esercito governativo ha ripreso la città di Medeira, a Ghouta est, spezzando la continuità del territorio controllato dal 2013 dalle opposizioni islamiste e dividendo la parte sud dalle due principali città , Harasta e Douma.
Douma è circondata ma le milizie salafite e qaediste non si arrendono: ieri la stampa Usa riportava di un accordo di evacuazione tra Jaysh al Islam e Mosca e l’Afp di un incontro tra opposizioni e funzionari governativi per discutere l’uscita, ma non ci sono conferme.
A fronte di voci di fratture interne agli anti-Assad, le unità islamiste dell’Esercito Libero smentiscono la resa, consapevoli che perdere uno degli ultimi bastioni aprirà alla perdita del sostegno degli sponsor esterni (Golfo e Turchia). Lo sa anche Damasco che ieri è tornata a colpire Daraa, terza enclave islamista con Ghouta e Idlib, nel sud del paese.
Tanto poca è la voglia di arrendersi che ieri, riporta l’Osservatorio, i jihadisti hanno aperto il fuoco su 700 civili che a Kafr Batna, a Ghouta est, chiedevano l’accordo con il governo. Una persona è stata uccisa.
Con la guerra data per conclusa che continua, il bilancio delle vittime a Ghouta est – secondo fonti di opposizione – sarebbe di 1.144 civili uccisi, di cui 240 bambini. Difficile stabilire quanti ne ha uccisi il governo e quanti gli islamisti che colpiscono con i missili anche la capitale, provocando decine di morti. Di certo c’è la crisi umanitaria: a Ghouta est si sta letteralmente morendo di fame.
Chiara Cruciati
da il manifesto