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Anatomia della strage nel carcere “Sant’Anna” di Modena

Modena, carcere Sant’Anna, piazzale esterno, 8 e 9 marzo 2020. Lo scenario è da “medicina da campo di guerra”, senza precedenti in tempo di pace. Una dottoressa dichiarerà a verbale di aver visitato in un paio d’ore una quarantina di detenuti reduci dalla sommossa e dai roghi, il che fa tre minuti a testa e sempre che non si siano state pause anche brevissime tra un paziente e l’altro.

Parma, notte tra l’8 e il 9 marzo. Una collega spiegherà agli investigatori non aver potuto verificare in presenza le condizioni di salute di sedici ragazzi appena arrivati, alcuni dei quali con problemi evidenti all’ingresso, perché si erano addormentati in cella e le celle di notte si possono aprire solo in situazioni particolari.

Li ha “visitati” dai corridoi, guardando dentro le celle. Ed era sicura che fossero tutti vivi, perché all’accensione della luce erano stati disturbati e si muovevano. Ancora Modena, 8 marzo. Medici e infermieri attivati per la maxi emergenza, con l’istituto fuori controllo e 546 detenuti presenti e potenzialmente bisognosi di cure, non hanno con sé abbastanza dosi di farmaci necessari per contrastare le overdosi di metadone e psicofarmaci. Si devono far portare altre confezioni da un pronto soccorso. Alessandria, un’ora all’alba del 9 marzo. Tra il malore di un detenuto appena giunto, la chiamata d’emergenza e l’arrivo di una ambulanza medicalizzata, a supporto di una dottoressa della casa circondariale, passano 40 minuti.

Un anno fa, durante e dopo le rivolte scoppiate in decine di carceri italiane, morirono tredici reclusi. Dopo dodici mesi di indagini – e di silenzi e indifferenza – per otto delle vittime della strage viene notificata la richiesta di archiviazione delle indagini firmata dalla procura di Modena, destinata ad essere formalmente contrastata dai legali del Garante dei detenuti, da Antigone e da un padre.

Otto dei 9 carcerati “modenesi” – si sostiene – sono stati stroncati dalle conseguenze provocate dall’ingestione di metadone associato a psicofarmaci, senza alcuna concausa, senza azioni di terzi o omissioni (o perlomeno con omissioni, come il mancato rilascio di nulla osta scritti ai trasferimenti, che vengono giustificate dalla procura con lo stato di necessità e il contesto emergenziale). Analoga richiesta era stata presentata a Bologna, dove pende un’opposizione già formalizzata. Da Rieti, dove i morti sono stati tre, tutto tace.

Idem da Ascoli e da Ancona, le due città dove potrebbe essere finito il fascicolo sulla fine tragica di Salvatore Sasà Piscitelli, palleggiato tra Marche ed Emilia Romagna. Le indagini modenesi sui reati commessi dai rivoltosi sono ancora in corso, così come quella su maltrattamenti, abusi e torture denunciati da almeno nove scampati (due denunce formali iniziali, due lettere con firme oscurate, un esposto con cinque sottoscrizioni della prima ora).

Quest’ultima e l’inchiesta madre, sugli otto morti, sembra non siano state incrociate (“Procediamo separatamente, perché un conto sono gli ipotetici maltrattamenti e un altro conto i decessi”, ha spiegato il procuratore capo pro tempore).

La richiesta di archiviazione delle indagini presentata al gip Modena, aperta contro ignoti e rimasta tale, in 76 pagine racconta le ultime ore di vita di Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Slim Agrebi (spirati l’8 marzo, il primo giorno della rivolta) Alì Bakili e Lofti Ben Mesmia (trovati senza vita il 10 marzo), Ghazi Hadidi (deceduto il 9 durante il trasporto a Trento, soccorso troppo tardi alla fermata di Verona), Artur Iuzu (morto in una cella del carcere di Parma, il 9), Abdellha Rouan (accasciatosi all’arrivo alla casa circondariale di Alessandria, sempre il 9). Una strage senza precedenti. L’epilogo di una rivolta che la procura ritiene sia stata “evidentemente” predeterminata, basandosi su tempi e modalità della protesta.

Le prime 25 pagine di testo (e le fotografie dei reparti inagibili e delle postazioni assaltate) servono per ricostruire le drammatiche fasi della rivolta, l’assalto alle infermierie e la razzia di metadone e psicofarmaci, la distribuzione di flaconi e pasticche come se fossero caramelle, il metadone bevuto a canna, le devastazioni e gli incendi, infermiere e medici barricati in stanze ammorbate dal fumo. Un crescendo drammatico Una situazione senza precedenti, ad altissima tensione. Per ricomporre il quadro la procura si basa sulle autopsie (tutte fatte solo dai consulenti della pubblica accusa, senza consulenti delle persone offese, nominati successivamente), sulle analisi tossicologiche, sulle relazioni e sulle dichiarazioni di agenti e graduati della polizia penitenziaria e di operatori sanitari del carcere ed esterni. I detenuti sentiti a verbale sono pochissimi.

Gli agenti hanno sparato in aria (dicono loro) per evitare evasioni e contenere i disordini, però il “particolare” non è stato dichiarato nelle informative al Parlamento e omesso dalle poche persone che qualche dichiarazione iniziale la fanno. Il metadone era presente in grande quantità (pari a 18 flaconi da 1,25 litri ciascuno). Ma non è strano, non secondo il personale medico e la procura. Era quello necessario per garantire due mezze giornate di terapia ai detenuti cui era prescritto. Ed era conservato correttamente, così si legge, con le modalità previste dalle Linee guida della regione Emilia Romagna (che però non prevedono l’eventualità di rivolte e i rischi connessi) e accorgimenti supplementari.

Nelle pagine successive vengono trattati i diversi scenari (decessi in carcere durante le rivolte, gestione sanitaria degli scampati, morti in cella dopo le rivolte e morti a seguito delle traduzioni), approdando a conclusioni simili per tutte le otto vittime. L’overdose (spiegata in termini di effetti letali sull’organismo) è l’unica causa individuata. Sui corpi sono stati trovati segni di ecchimosi e contusioni, ma si esclude che possano aver contribuito a provocare i decessi. Sarebbero stati lasciati da azioni fatte dai detenuti durante le azioni di protesta o a precedenti tentativi di suicidio.

Al detenuto morto sulla strada per Trento, Ghazi Hadidi, mancavano due denti, Aveva problemi odontoiatrici, da tempo. Ma non è stato chiarito dove e come abbia perso uno o entrambi. Ha preso qualche colpo in faccia? O già non li aveva? Il trauma al viso non è considerato in alcun modo influente sulla morte. Una dottoressa si ricorda che aveva già un dente rotto (non saltato via), però non sa dire quale.

Il capitolo centrale è quello sulla gestione sanitaria dei detenuti, che a Modena erano 546. La descrizione delle ore di massimo allarme è pesante, dura, drammatica. Forse per la prima volta si percepisce in quali condizioni si siano trovati ad operare medici, infermieri e volontari, costretti ad occuparsi di decine di persone in pericolo di vita e in un contesto delicato, come è quello carcerario. Sono stati colti impreparati, anche loro? Hanno fatto tutto il possibile, come sostiene la procura? Ci sono state sottovalutazioni?

La necessità di salvare vite, è la risposta data dall’inchiesta, ha prevalso su tutto. L’ordinamento penitenziario impone che siano da sottoporre a visita medica i reclusi da trasferire (con un nulla osta sanitario da consegnare al caposcorta), chi arriva in carcere, coloro che sono coinvolti in azioni i cui la polizia penitenziaria usa la forza (pratica ammessa in determinate circostanze). Nelle carte della procura sintetizzate dalla richiesta di archiviazione (carte che rimandano ad atti ponderosi e con contenuti più ampi) non è indicato il numero di medici e infermieri schierati per reggere l’onda d’urto dei carcerati (e del personale del penitenziario con problemi da salute) da visitare e curare.

Si legge che è stato attivato il protocollo delle maxi emergenze 118 (senza riferimenti a piani specifici per emergenze in ambito carcerario) e che vengono allestiti due posti medici avanzati., due tendoni attrezzati per il triage, per i primi accertamenti, per la stabilizzazione e per l’osservazione dei pazienti. Si attesta la presenza di volontari della Croce rossa e della Protezione civile, sempre senza indicare il numero (che potrebbe essere riportato negli atti integrali, quelli che la procura deve depositare e mettere a disposizione delle parti). La situazione è paragonata a quella della “medicina da campo di guerra”.

Dal carcere devastato e incendiato vengono portati fuori detenuti sballati, in stato comatoso, cianotici, con le pupille ristrette e altri sintomi da intossicazione da oppiacei e psicofarmaci. Sotto i tendoni e nei letti disponibili tutti non ci stanno. Vengono adagiati e assistiti sull’aiuole e sull’asfalto. La priorità è scongiurare tragedie. La ventilazione manuale o in maschera supportano la respirazione. La somministrazione di antidoti contrasta gli effetti del metadone. Ma non ci sono abbastanza dosi per tutti. Occorre farsi mandare altri farmaci antagonisti da un pronto soccorso. E per le persone più gravi viene disposto l’accompagnamento in ospedale.

Non c’è nemmeno il tempo – afferma la procura, facendo proprie le spiegazioni dei sanitari – di chiedere il nome e di identificare i reclusi presi in carico (senza documenti addosso e con i fascicoli dell’ufficio matricola distrutti), di registrare le visite, redigere via libera ai trasferimenti. “È evidente come in tale contesto di criticità – si rimarca – non è stata prodotta alcuna documentazione scritta che potesse avere valore di nulla osta al trasferimento”, perché compilarlo avrebbe sottratto energie e minuti “preziosissimi per assistere quante più persone possibili”.

La situazione d’emergenza non consente nemmeno, non nelle prime ore, di procedere alla registrazione degli interventi sanitari effettuati. La procura ritiene lo stesso che ci sia la prova (anche se dovrebbe chiamarsi prova quella che si acquisisce in giudizio e non nelle indagini preliminari) che tutti i detenuti siano stati visitati, come d’obbligo.

Alcuni sono stati visitati due volte, si dà atto. Ghazi Hadidi, ad esempio. Si era ripreso, dopo un doppio giro di controlli. Si è allontanato da un tendone dei soccorritori fumando una sigaretta. A Verona è arrivato morto, nell’ultima cella di un furgone della Polizia penitenziaria.

L’autista e i sei agenti di scorta hanno detto di non aver percepito nulla di anomalo, in quanto i carcerati a bordo – moribondo compreso – “erano in silenzio, poiché stavano presumibilmente dormendo”. I compagni di viaggio non sono stati interrogati (o perlomeno non è annotato nella richiesta di archiviazione). C’è invece un detenuto che ha deposto di averlo visto durante la sommossa con le tasche piene di farmaci e una bottiglia di metadone in uno zaino.

Ma quanto sono durate le visite mediche pre trasferimenti? E quanto sono state approfondite, compatibilmente con la situazione e la necessità di salvare vite? Una dottoressa, parlando dei detenuti portati in barella nel posto medico avanzato riservato alle urgenze, dice: “In un paio d’ore ne avrò visitato circa una quarantina”. Tre minuti a controllo, più o meno. Nessuno, tra loro e tra gli altri passati dal tendone nelle ore successive, “presentava lesioni da aggressioni fisiche”. Alla fine, tra i carcerati rimasti a Modena e tra i 417 portati altrove, si conteranno nove cadaveri.

A Parma la storia lascia l’amaro in bocca. Sedici detenuti “modenesi” arrivano alle 22.30.

Tutti vengono perquisiti, per verificare che non abbiano addosso metadone o altro. I quattro che presentano sintomi “evidenti da abuso di sostanze (occhi semichiusi, rallentati nelle reazioni, alcuni con eloquio incerto) sono collocati in celle diverse, assieme a compagni che stanno bene. Poi uno peggiora, soccorso dal personale e fatto portare in ospedale.

Un’ora dopo il cessato allarme, alle 2 di notte, la dottoressa di turno si ricorda che si sono i nuovi giunti da visitare, come previsto dall’ordinamento penitenziario. Ma si tratta di persone pericolose e in più dormono già e i protocolli per il Covid complicano tutto. La dottoressa, è scritto nei atti, effettua le visite dall’esterno delle celle. Guarda dentro le stanze dal corridoio, dopo aver fatto accendere le luci. Si vede perfettamente, annota la procura, perché le porte blindate sono aperte e ci sono solo i cancelli a sbarre tra controllante e controllati.

Lei deduce che siano tutti vivi e che non abbiano bisogno di cure urgenti, perché si muovono, disturbati dalle lampade e dalle voci. Uno alza la testa, per riappisolarsi subito. La dottoressa, finito il giro, in una mail garantisce al suo referente: “Ho sinceramente fatto del mio meglio”. Sono le 2.39. Quattro ore più tardi il compagno di cella esce dal bagno e si accorge che Artur Iuzu non respira o respira male. “I sanitari giungevano sul posto immediatamente”. Troppo tardi, anche per lui.

Lorenza Pleuteri

da giustiziami.it