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Anche in Italia non si riesce a respirare

La città è cambiata, lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria

I can’t breathe (Non riesco a respirare) c’è qualcosa di vicino, di familiare nella frase pronunciata da George Floyd nei suoi ultimi istanti di vita e diventata il simbolo delle proteste scoppiate a Minneapolis e ora diffuse in tutti gli Stati Uniti.

Non riesco a respirare, dal Covid-19 alle magliette indossate nel 2014 dai campioni dell’Nba e dell’NFL, in ricordo di Eric Garner (anch’esso morto soffocato, schiacciato dal peso dell’agente che lo stava arrestando per la vendita di sigarette contraffatte) fino all’‘Italia dei decreti d’emergenza pre-pandemia, targati Minniti e Salvini, vi è un che di ricorrente in questa frase che travalica i confini in un filo rosso che parla di disuguaglianza crescente, di arroganza sempre più sfacciata del potere e del progressivo svuotamento dei diritti e della democrazia, tutte robe che determinano la condizione negata del più semplice e comune dei gesti: il respirare.

Potrà sembrare bizzarro paragonare la condizione di violenza sistemica alla quale sono sottoposte le minoranze negli Stati Uniti alle vite che galleggiano nel capoluogo di una ricca provincia dell’Emilia, tuttavia, anche da queste parti, se non hai la pelle chiara o un cognome spiccatamente italiano qualche difficoltà in più la trovi.

Basterebbe farsi un giro in un qualsiasi parco pubblico della città ed osservare quali siano le uniche persone ad essere sistematicamente fermate e controllate dai militari dell’operazione “Strade Sicure” per comprenderlo. Un piccolo spaccato di quest’opera di decoro-militare-urbano ce la offre quest’episodio riportato dal Resto del Carlino nel quale tre militari dell’operazione “Strade Sicure”, in pieno lockdown, sottraggono lo zaino, per ripicca, a un ragazzo nigeriano certi della correttezza della loro azione e della loro impunità: “…un’altra telecamera inquadra la camionetta dell’esercito che si ferma vicino a un cassonetto e l’autista che scende a buttare via lo zaino. Interrogati i militari avrebbero ammesso dimostrandosi anche sorpresi dalla perquisizione: «Per così poco?» Si sono giustificati dicendo che l’immigrato avrebbe avuto nei loro confronti un atteggiamento scorretto. La sottrazione dello zaino sarebbe stata quindi una ripicca…”

Un episodio che riassume bene i contorni dell’operazione “Strade Sicure”, la punta emersa di un iceberg ancora del tutto sommerso che va dalle gomme dei blindati che schiacciano l’erba dei parchi cittadini e che ci parla di racial profiling sistemico e di piccoli e odiosi abusi quotidiani; perché, a ben guardare, il razzismo, prima ancora che un atteggiamento delle singole persone è un processo strutturale che riguarda le istituzioni, dai poteri statuali fino ai gangli del sistema economico.

Non solo. Negli ultimi anni, forse senza farci troppo caso, la progressiva “americanizzazione” della società italiana è proseguita, più che sul consumo, sui binari della cosiddetta “sicurezza”. Un concetto di sicurezza tuttavia che aveva abbandonato definitivamente ogni accezione positiva nei suoi tratti (riconoscimento delle identità e partecipazione sociale), passando infine alla sua variante negativa, sviluppata da paure di incolumità individuale e repressione di ogni tipo di devianza, come se il disinvestimento sociale supponesse e provocasse contemporaneamente il sovrainvestimento carcerario.

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In ogni modo, se il paragone con States dovesse apparire ancora troppo azzardato vorremmo giusto rammentare quando successo a Modena negli ultimi tre mesi, tanto per dare una dimensione ad uno dei problemi che affliggono la città: il carattere e il modus operandi del suo apparato repressivo.

Da marzo ad oggi, a Modena, sono morte 9 persone nella rivolta del carcere di Sant’Anna, dell’8 mazo, una vera e propria strage accompagnata, fra l’altro, da un silenzio inquietante interrotto solo dopo tre giorni da parte istituzioni della città, pochi giorni dopo, il 13 marzo, in pieno lockdown, vengono stati arrestati e condotti in Questura 8 lavoratori più il coordinatore del S.i.Cobas “colpevoli” di scioperare, stavano protestavano a seguito dell’infortunio mortale sul lavoro di un loro collega delegato sindacale avvenuto appena due giorni prima. Ancora, il 6 aprile, sempre nel bel mezzo del lockdown, avviene il fermo di polizia in piazzale Redecocca ripreso da più video poi finiti in rete ma mai pubblicati dall’informazione cittadina. Si tratta di un arresto estremamente muscolare che per modalità e per quantità di personale impiegato ricorda un po’ quello di George Floyd, tant’è che, secondo le testimonianze raccolte, ad un certo punto sarebbe intervenuto pure l’esercito a disperdere coi manganelli la numerose persone che si erano radunate in strada indignate per quanto stava succedendo. La persona che ha ripreso il fermo, oltretutto, è stata minacciata e denunciata mentre il SULPL  (Sindacato Unitario dei lavoratori della polizia locale) annunciava di denunciare tutti gli utenti che avevano postato il video sui social con commenti ingiuriosi e minacciosi. Anche la pagina di ACAD Associazione Contro gli Abusi in Divisa si era occupata di quel fermo :

https://www.facebook.com/AcadOnlus/videos/206156347484326/

«Si deve chiamare tirannide qualunque governo in cui chi è preposto all’esecuzione delle leggi può farle o infrangerle con sicurezza e impunità. Ogni popolo che lo sopporta è schiavo.»
Vittorio Alfieri.

Infine, l’ultimo in ordine di tempo ma non per questo meno inquietante, l’arresto di un sindacalista e l’irruzione della polizia dentro una sede sindacale il 28 maggio.

In pratica, come denunciato immediatamente dal S.i.Cobas, Marcello (Pini) è stato arrestato presso la sede sindacale perché stava filmando quella che sembrava una colluttazione tra spacciatori nei pressi dell’ufficio. In realtà la Polizia in borghese stava facendo un fermo o qualcosa del genere e hanno deciso di arrestare lui, facendo irruzione nell’ufficio, prendendo i documenti a tutti i presenti con atteggiamento minaccioso nei confronti delle compagne presenti in ufficio.

Un fatto estremamente grave che ha cominciato ad essere riportato dai giornali locali (Gazzetta di Modena e Modenatoday) solo due giorni dopo, a seguito cioè della conferenza stampa indetta dal sindacato di via Santi. La faccenda poi ha portato pure al procedere, da parte dell’avvocato Marina Prosperi, per 613bis (reato di tortura) nei confronti degli agenti come scritto sulla Gazzetta: «Nella denuncia ripercorriamo il caso, partendo dall’ingresso non autorizzato nella sede sindacale da parte degli agenti (il sostituto commissario più altri tre) che hanno proceduto con modalità aggressiva, rivolgendosi anche agli utenti che erano lì per i controlli delle buste paga. Dunque una modalità aggressiva identificando le persone all’interno di un ufficio privato, per poi portarsi Pini, non si sa per quale ragione, in questura. Per altro la persona che procedeva, a un certo punto ha detto: “Porto via Pini, poi vedo io il da farsi”. All’interno della questura il mio assistito viene fatto denudare e viene sottoposto a ispezione rettale: quei piegamenti che ha dovuto fare altro non erano che una ispezione in questo senso. Noi contestiamo questi atti che per noi sono atti di crudeltà – prosegue Marina Prosperi – inoltre nell’arco della giornata, io, avvocato difensore, non solo non sono stata avvisata per essere nominata da Pini, ma quando io ho chiamato parlando proprio con il commissario, l’ispettore che aveva proceduto questi mi ha detto: “Stiamo denunciando Pini per uno di quei reati che fa Pini”, questa è stata la sua comunicazione ad un difensore, da parte di un ufficiale di polizia giudiziaria… Insomma, siamo all’interno di un processo di privazione di libertà, c’è un difensore che esercita un diritto previsto dalla costituzione che chiede un’informazione che ha il diritto di sapere e lui ha il dovere di riferire. Senza inoltre riferire che stava procedendo al sequestro del telefono. Nella denuncia dunque c’è la parte in cui spieghiamo che si è trattato di un’invasione illegittima di un ufficio privato, un atto arbitrario all’interno, parificato all’arresto illegittimo, l’altra parte riguarda l’attività in questura, dove sono stati praticati atti contrari al rispetto della persona. Chiediamo il sequestro di tutti i filmati della questura dove è documentato, l’arrivo, l’ingresso e il trattenimento di Pini.»

Anche in questo caso, come ormai regola in una città sempre più compromessa, vile e in avanzato stato di putrefazione civile, sono stati pochi quelli che hanno alzato la mano per far presente l’anomalia nonché l’ulteriore compressione dell’agibilità democratica della città. I can’t breathe, e lo stivale della repressione sempre pronto a soffocare ogni voce fuori dal coro.

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Ma ormai a Modena anche le reazioni dei sindacati confederali ad un’azione di questo tipo che, come sostenuto dal coordinatore del S.i.Cobas  sulla Gazzetta “è inaudita: mai è accaduto, se non nel Ventennio, che venissero fatte irruzioni all’interno di una sede sindacale”, non stupiscono per niente. Quando, nel febbraio di tre anni fa, la Questura di Modena vietò una manifestazione sindacale nazionale a seguito dell’arresto di Aldo Milani, la Cgil non disse nulla. Andava bene così. Oggi, dopo l’irruzione della polizia in una sede sindacale della città e l’arresto di un sindacalista che stava filmando un arresto con un telefonino la Cgil sceglie nuovamente di tacere. In fin dei conti anche nella vergogna può esserci della coerenza peccato solo che al più grande sindacato italiano non manchi di certo solo la prima.

Ma c’è dell’altro in questa vicenda che può spiegare meglio il marcio che c’è a Modena. Facciamo un passo indietro e torniamo al 26 gennaio di tre anni fa, quando venne arrestato a Modena un altro sindacalista del S.i.Cobas, Aldo Milani:

«Ma che scheggia impazzita. Abbiamo devastato i Cobas a livello nazionale, Lorenzo. Abbiamo fatto una cosa pazzesca.» E ancora: «Abbiamo fatto un bingo che non ne hai idea. Per noi è una cosa pazzesca, Lorenzo. Perché adesso i Cobas… Come arrestare Luciano Lama ai tempi della Cgil d’oro.»

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A pronunciare queste parole era stato il vicecommissario di polizia Marco Barbieri (il primo a sinistra a fianco dell’ex Ministro degli Iterni Domenico Minniti, al segretario provinciale del Pd Davide Fava e al sindaco Muzzarelli) noto dirigente della Digos di Modena in una telefonata del 26 gennaio 2017 intercettata poco dopo l’arresto di Aldo Milani e pubblicata sulla Gazzetta il 1 novembre 2018. Aldo Milani verrà poi assolto, nel 2019, dal Tribunale di Modena dall’accusa di estorsione ai danni dei Levoni (proprietari di Alcar Uno) per non aver commesso il fatto”.

Bene. Solo quattro mesi fa, al contrario, la Guardia di Finanza sequestrava, proprio ai Levoni di Alcar Uno, beni per oltre 16 milioni di euro per una maxievasione da 80 milioni di euro: «per oltre 78 milioni di euro», più «un’Iva evasa pari a 8 milioni di euro», più «ritenute non operate per 67.000 euro», più un’ «omessa dichiarazione di redditi di capitale per un importo di oltre 2 milioni di euro da parte del socio, con residenza a Montecarlo»

Marco Barbieri, invece, la persona intercettata nel gennaio del 2017 al telefono coi Levoni era presente e partecipe delle operazioni davanti alla Questura anche il 28 maggio, il giorno dell’arresto di Marcello Pini.

Ma non è finita qua, perché per aver un quadro più complessivo della situazione repressiva del territorio e di apparati pubblici che in queste lande dell’Emilia si comportano come una novella Agenzia Pinkerton pagata da tutti i contribuenti ma al servizio esclusivo dei padroni, bisogna osservare l’oscillazione delle principali vertenze sindacali che si sono svolte negli ultimi anni da queste parti.

In questo senso, se ad Alcar Uno l’ondata di scioperi 2015-2016 fu capace di scoperchiare il marciume e il fitto sistema di collusioni affaristiche nella filiera della lavorazione carni, nonostante l’arresto di Aldo Milani, altrettanto non accadde se non in parte a  Castelfrigo (vertenza gestita dalla Cgil) azienda dichiarata fallita in Tribunale e acquisita solo qualche mese fa, tramite Inalca, dal gruppo Cremonini.

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Infine Italpizza, una vertenza durissima (riassunta a grandi linee qua) finita anche in Parlamento con le interrogazioni dell’onorevole Stefania Ascari, e terminata (?) con un accordo siglato dalla Cgil (la vertenza era stata gestita in gran parte dal S.i.Cobas) quest’estate.  Ecco, proprio per questa vertenza giungono ora le prime notizie circa la scure della repressione che cala su chi ha denunciava con chiarezza quello che succedeva nei propri territori ed ora viene colpito a colpi di querele per “diffamazione”.

Marcello Pini, non a caso, era stato uno dei sindacalisti che più si era speso per quella vertenza e quanto capitato e denunciato ora dai compagni di Casa Spartaco di Correggio non è altro che l’ennesimo segnale, l’avvisaglia, di nuovi colpi di coda da parte di un sistema produttivo del territorio che non è più in grado di scendere a compromessi.

L’illusione che l’emergenza coronavirus avesse potuto ridefinire un po’ i contorni delle priorità del territorio era giusto una favola che ci raccontavamo “per respirare”. In realtà l’emergenza ha funzionato e continuerà a funzionare come acceleratore di processi e di concentrazione di poteri che erano già in corso.

Se dai distretti produttivi si sposta rapidamente lo sguardo sulla città il fatto diventa evidente. Da una parte abbiamo il maketing dell’industria securitaria promossa dal Comune sempre impostata su on, con“azioni di socialità e telecamere”, ma anche tanti investimenti, dall’altro abbiamo invece la progressiva dismissione nonché privatizzazione dei servizi al cittadino che già sembra accelerare enormemente nella fase post-emergenziale.

Prendiamo da qua: “Nel secondo dopoguerra, i Comuni ebbero un ruolo centrale nella ricostruzione, ma in seguito furono anche il fulcro di celebri sacchi, corruttele e speculazioni. Gli anni Novanta hanno registrato una trasformazione profonda dell’assetto politico municipale, a partire soprattutto dalle modalità di elezione degli amministratori stessi. L’elezione diretta del sindaco (con un secondo turno nelle città superiori ai quindicimila abitanti) è stata il fulcro di questo cambiamento: se in precedenza sindaco e giunta erano espressione diretta del consiglio comunale e, spesso, di accordi fra forze politiche di cui era prevista una rappresentanza proporzionale, l’elezione diretta ha consegnato a un’unica figura un potere significativo, come per esempio quello di nominare e revocare i membri della propria giunta. È venuto così un tempo nuovo, fatto di liste civiche, di progetti trasversali privi di una connotazione politica e di un «bene comune» difficile da situare politicamente e che ha relegato i partiti ai margini. Sono stati, al contrario, promossi partiti «dei sindaci» che hanno rivendicato il proprio approccio concreto e anti-ideologico e figure fumose come quella del «sindaco d’Italia», evocata a più riprese da tanti leader di destra e di centrosinistra per ribadire la stringente necessità di uscire dalla palude del parlamentarismo.

La maggioranza bloccata e assoluta di cui dispone il sindaco (spesso sostenuto da liste personali composte da suoi stretti collaboratori), in un sistema super-maggioritario a garanzia della governabilità, ha ridotto la discussione assembleare e il potere contrattuale delle opposizioni, svuotato di sovranità gli organi elettivi e, di riflesso, consegnato un potere più ampio al sindaco e alle figure tecniche apicali del Comune, come il segretario comunale e i dirigenti. Il municipio non è più luogo di discussione o di conflitto, ma semplicemente il luogo in cui un sindaco eletto direttamente esercita il proprio potere attraverso ordinanze e delibere di giunta (organo che è presieduto sempre dal sindaco), senza compromessi e intermediazioni politiche.

Il tempo dell’emergenza ha dato molto spazio alle fulgide figure di sindaci-sceriffi o di sindaci-viceré che non ci interrogano soltanto sulla situazione dei Comuni dopo anni di tagli e di politiche securitarie, ma più globalmente sulle strutture portanti della politica municipale. Il tempo dei politicismi e dell’assemblearismo, almeno per i Comuni, è finito insieme alla prima Repubblica. Ora c’è un tempo nuovo, un tempo in cui i poteri economici e le strutture private sembrano influenzare profondamente le scelte strategiche delle amministrazioni locali sulle politiche economiche, sull’urbanistica e sul rapporto fra pubblico e privato. E così, mentre i sindaci multano i passanti, i gruppi immobiliari e industriali decidono come si deve investire e dove si deve costruire. L’urgenza sembra allora quella di ripoliticizzare lo spazio municipale, rivendicando l’esigenza di massicci investimenti pubblici e consegnando agli organi assembleari una funzione politica che hanno perduto da troppo tempo.”

E a Modena sembra stia accadendo esattamente questo. Lo si nota chiaramente nella recente vicenda dell’esternalizzazione di due nidi comunali (mentre si comincia a parlare anche dell’esternalizzazione di altri servizi alla persona come la casa di riposo per anziani Vignolese e il centro riabilitativo per disabili Pisano). Un esternalizzazione di fatto bipartisan, visto il plauso ricevuto da Muzzarelli da parte di Fratelli d’Italia (dopo gli sgomberi del maggio 2016 Muzzarelli si prese gli applausi di Forza Nuova) e “rettificata” in un consiglio comunale blindato, chiuso al pubblico (diritto sancito dalla legge) trasferito per l’occasione dalla sala consiliare del municipio alla ex chiesa San Carlo tra le proteste dei (pochi) cittadini e la ritirata dei sindacati confederali.

Prendiamo da qua: Un colpo di mano, quello del cambio della sede consiliare, che non è piaciuto a molti visto anche il trend di questi ultimi mesi nei quali il consiglio comunale si era riunito a singhiozzo o dello stesso sindacato che appare sempre più organico al partito e ai poteri che gli gravitano intorno piuttosto che all’interesse dei lavoratori, sintomi di una “perdita di democrazia” sempre più profonda ed evidente.

Allo stesso tempo, a voler leggere un minimo la situazione, il cuore della partita dell’eternalizzazione veniva messo nero su bianco in due interviste uscite sul Carlino ai dirigenti delle cooperative Gulliver (Ascari) e Domus (De Vico) che si auguravano entrambi l’ingresso delle cooperative nella Fondazione Cresci@mo, la stessa alla quale l’amministrazione comunale era intenzionata ad affidare la gestione dei due nidi estrenalizzati.

Pochi giorni dopo il consiglio comunale, nelle case dei modenesi, arrivava il giornalino del Comune dal titolo roseo e edulcorato “Costruire futuro” – “Nasce “Modena Zerosei” per riqualificare l’educazione: un progetto sostenibile e di qualità che punta su un sistema integrato rilanciando la centralità dell’educazione della fascia 0-6 anni.” Un giornale del Comune verosimilmente già confezionato e stampato ben prima della decisione del consiglio comunale sull’esternalizzazione.

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Insomma, anche la cosiddetta “ripartenza” sembra flettere completamente e con nuovo slancio verso un percorso già disegnato, con ulteriori e inutili colate d’asfalto e la privatizzazione manifesta di ciò che del welfare state resisteva ancora alla mano invisibile del mercato con sanità ed istruzione in pole position.

Non andrà tutto bene e se, come spiegano perfettamente i wuming, quest’emergenza ha posto il paese davanti allo specchio, allora l’immagine riflessa di Modena in questi tre mesi di lockdown dovrebbe cominciare a far riflettere tutte e tutti molto seriamente.

Crediamo che questa vicenda abbia messo davvero il paese allo specchio e gli abbia mostrato il suo vero volto. Ora, appunto, ci si affretterà a passare oltre, perché nessuno vuole pensare sempre all’orrore delle decine di migliaia di morti e all’infelicità e sofferenza dei tre mesi scorsi. Ma nella retina rimarrà comunque impressa quell’immagine di sé tanto ridicola quanto inquietante e orribile. Per quello che si è stati capaci di esprimere, perdendo la testa e il raziocinio e abbandonandosi al dolore, al panico, alle fobie.

Quell’immagine, spinta alla periferia del campo visivo, potrà essere colta con la coda dell’occhio in ogni momento, per quanto ignorata dalla coscienza, fino a diventare, nelle notti che verranno, una sorta di spettro dickensiano del «Natale passato».

articolo pubblicato con il titolo “Something is rotten in Modena…” sul blog Militantduquotidien