Stasera su Rai 1 la prima puntata di “Gli anni spezzati”, gli anni 70 riletti per nascondere e negare le istanze di liberazione degli oppressi
Questa sera la Rai trasmetterà la prima delle tre fiction sugli anni ’70 “Gli Anni Spezzati”. E’ un’idea tremenda che gli anni ’70 possano essere raccontati con gli occhi di un commissario di polizia balzato agli onori delle cronache per uno degli episodi più oscuri – il “volo” di Pinelli dal quarto piano della questura di Milano – oppure con quelli di un giudice dichiaratamente di estrema destra o, ancora, con gli occhi di un manager di una multinazionale che ha depredato il territorio, condizionato pesantemente il modello di sviluppo, sconvolto le relazioni sindacali (allora come oggi ai tempi di Marchionne), pedinato, spiato, mobbizato i lavoratori e i delegati più combattivi.
Quella sulla memoria di quel passato è una sfida cruciale per il futuro di tutte le generazioni segnate da questa crisi. Perché proprio negli anni in cui il capitalismo si rivela il problema e non la soluzione, è centrale la lotta per colonizzare un immaginario collettivo che, altrimenti, potrebbe tornare a coltivare idee di altri mondi possibili. Allora cosa c’è di più penetrante se non utilizzare i volti di attori bravissimi e amati dal grande pubblico per deformare il passato?
«Gli anni Settanta sono stati gli anni del “noi”, del progetto collettivo, ma anche gli anni in cui abbiamo lottato per la liberazione dell’io», ha spiegato poco prima di morire lo scrittore Stefano Tassinari, autore – tra l’altro di D’altri tempi, antologia di racconti incardinati su figure tipiche di quegli anni, e di “L’amore degli insorti”, romanzo che indaga proprio la scelta drammatica che migliaia di persone e settori di movimento si trovarono a discutere all’indomani della strage di Piazza Fontana nel disvelamento della natura violentissima dello Stato di fronte alle istanze di liberazione delle classi subalterne.
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Recensendolo, Pino Cacucci ebbe a scrivere su Liberazione: «Tra gli anni settanta e i primi anni ottanta oltre seimila persone finirono in carcere per attività “sovversive” legate a quella tragica stagione di lotte suicide che da una parte si chiamavano semplicemente “armate” e dall’altra, la parte dei fin troppo scontati vincitori, venivano bollate come “terrorismo”. Con un dilagante stupro del linguaggio, chi aveva commesso stragi o comunque coperto gli stragisti chiamava terroristi quanti spesso avevano imboccato la strada senza ritorno delle armi proprio per reazione alle bombe nelle piazze, sui treni, nelle stazioni, tra genti inermi usate come carne da macello per imporre a una generazione refrattaria ciò che oggi è norma ineluttabile: neoliberismo selvaggio e pensiero unico, tenaglia dalla quale si può sfuggire soltanto silenti o reietti. Eppure, la Storia non si è affatto fermata e da altre zone del mondo genti meno assuefatte della nostra hanno ripreso a dimostrare che il re è nudo e il Dio Mercato non solo ha fallito, ma è il più spietato e sanguinario dei demoni».
«Fino al decennio iniziato nel ’68 in questo Paese non esistevano diritti né civili né sindacali, ma in compenso il nostro codice prevedeva ancora il delitto d’onore e il reato di adulterio femminile, così come si votava a ventun anni e si andava in galera a diciotto, si veniva arrestati per obiezione di coscienza al servizio militare o per detenzione di un grammo d’hashish, c’erano le gabbie salariali tra nord e sud e tra uomini e donne, nei manicomi si “curava” la gente a colpi di elettrochoc, licenziare un lavoratore era un gioco da ragazzi», ecco, la scrittura di Stefano Tassinari può esserci utile a ricostruire le tracce cancellate da chi ha scritto la storia in nome dei vincitori.
«Tre storie dell’Italia che definiscono come la storia “degli anni di piombo” – dice Italo Di Sabato, dell’Osservatorio Repressione – racconteranno con la storiografia dei “vincitori” il commissario Calabresi, il giudice Mario Sossi e l’ingegnere della Fiat Giorgio ai tempi delle storiche contestazioni culminate con la marcia dei 40 mila nell’ottobre del 1980. Non voglio dar giudizi a priori, ma penso che non si faccia opera buona “rileggere” gli anni ’70 solo con la “verità” di chi ha vinto una “guerra civile” eludendo le cause di questa, non parlando o evitando volutamente di parlarne di Piazza Fontana, degli anarchici che volavano dal 4 piano della questura di Milano, delle bombe nelle piazze, nei treni e nelle stazioni, dell’arroganza padronale, della cecità e chiusura del Pci a qualsiasi istanza di cambiamento sociale evocata dal movimento, dalla legislazione speciale e della repressione di massa, delle torture delle squadrette speciali del Prof De Tormentis. Ma di che meravigliarsi i racconti cinematografici in questo paese ormai si fanno (sempre con la verità dei vincitori) solo su papi, vescovi, preti, giudici, poliziotti e carabinieri mai sulle 147 vittime o i 690 feriti per le bombe stragiste oppure sui 414 dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine dal dopoguerra al 1980. Non mi meraviglierebbe se tra qualche anno ad esempio la storia di Genova 2001 venisse riletta tramite una fiction dai racconti di Placanica o dei massacratori della Diaz e Bolzeto»
Checchiono Antonini da popoff.
una fiction penosa, inutile, fatta con un cast che h appena finito di girare la più stupida commedia natalizia, ma cosa vogliono dimostrare?