Il vero conflitto, al giorno d’oggi, non si gioca solo sul piano politico: lo scontro è tra una concezione della società che sia aperta e pluralista e una pratica neoautoritaria, destinata a ridurre sempre di più gli spazi di autonomia, di emancipazione, di liberazione delle persone. La riduzione delle democrazie a pura finzione può benissimo coesistere con un mercato in ampia espansione, che non conosce nessun limite e alcun confine. L’autoritarismo non necessita, al giorno d’oggi, di governi “forti” bensì di società fragili
di Italo Di Sabato – Osservatorio Repressione
Serve ancora l’antifascismo? E soprattutto: è ancora vivo? Attraversa i nostri giorni e i nostri pensieri apportando senso e indicazioni di rotta? O è davvero un’ideologia perduta, come dicono i suoi avversari; una retorica in disarmo, come osservano molti critici? Potremmo dire, citando un famoso detto cinese, che l’antifascismo sta vivendo tempi interessanti, nel pieno di una tempesta che ne minaccia la sopravvivenza, per alcuni già avvenuta; tempi che possono però consentire di rimettere a fuoco non tanto l’antifascismo che abbiamo finora conosciuto, quanto la possibilità di trarre dai cruciali anni della resistenza e della guerra civile nuove fonti di ispirazione etica e politica. È la scommessa dei nostri giorni, la via d’uscita possibile da un’eclissi fin toppo annunciata.
Innanzitutto perché l’antifascismo non è un’opinione, è il fondamento della Repubblica nata dalla Resistenza, ne esprime l’essenza, ne costituisce i pilastri portanti, attraversa tutta la Costituzione come legge suprema e progetto di società. La Resistenza, l’antifascismo e la Costituzione esprimono l’idea di una democrazia fondata sul conflitto, sul dissenso, sull’emancipazione personale e sociale, sui diritti, sulla pace, ed è questo modello che oggi è sotto attacco. E lo è da molti anni, da quando il neoliberismo ha iniziato a vincere la sua lotta di classe dall’alto e autoritarismo e neoliberismo hanno sperimentato il loro connubio nel Cile di Pinochet, con il beneplacito di Milton Friedman e dei Chicago Boys, ricordandoci che aveva ragione Polanyi ad associare fascismo e capitalismo.
78 anni dopo la Liberazione gli eredi del fascismo sono al governo. Giorgia Meloni e il suo partito sono gli eredi diretti del fascismo di ieri. Lo sono per esplicite rivendicazioni, per i simboli a cui fanno riferimento, per la cultura che esprimono, per il linguaggio che usano, per le immagini del passato che portano con sé, ma soprattutto per il blocco sociale ed economico di cui sono espressione e per le politiche che praticano: il respingimento dei migranti, l’accanimento contro i poveri, una scuola del merito che giudica ed esclude, lo smantellamento della sanità pubblica, le mani libere di chi vuole fare i propri affari, un fisco profondamente iniquo, il prevalere del privato sul pubblico, lo stravolgimento della Costituzione in senso presidenzialista, la secessione dei ricchi con l’autonomia differenziata, l’ulteriore precarizzazione del lavoro, il nazionalismo e l’aumento delle spese militari, la contrazione dei diritti delle donne e dei “diversi”.
Ma come siamo giunti a tutto questo?
L’Italia è un Paese che non si è mai disintossicato veramente dall’infezione nera che si chiama fascismo. Nel nostro Paese il fascismo ha continuato a tramare nell’Italia repubblicana, rendendosi protagonista della strategia della tensione nei decenni sessanta-settanta. Episodi stragisti e tentativi golpisti avvengono grazie allo sforzo congiunto di neofascisti e apparati dello Stato e dell’esercito. Ma soprattutto la disgregazione di un progetto di democrazia avanzata con tutto ciò che questo ha significato per la nostra società sempre più eterodiretta. La presenza di fascisti, fascistoidi e ultrareazionari nelle strutture più delicate della nazione (servizi segreti, esercito, forze dell’ordine e relative burocrazie) ha avvelenato il contesto democratico. Molti fatti di cui siamo stati testimoni, fra cui il G8 di Genova 2001, non si spiegherebbero altrimenti. Inoltre in Italia la rivalutazione del fascismo, la minimizzazione dei suoi crimini, la condanna della Resistenza e addirittura l’apologia di regime, pur vietata dalla legge, non sono affatto, come qualcuno sostiene, confinati in ambienti marginali e neofascisti, ma sono ormai predominanti nel discorso pubblico. Affermazioni tipo “eravamo tutti fascisti”, “i partigiani hanno scatenato la guerra civile”, “Mussolini ha fatto anche cose buone” e “mandava gli oppositori in vacanza” sono ormai luoghi comuni condivisi e ripetuti costantemente anche ad altissimo livello mediatico e istituzionale. Uno dei filoni caratterizzanti consiste nel negare le possibilità di un’analogia tra il fascismo storico ed elementi caratterizzanti il momento attuale definiti tramite il termine “fascismo”. Filone interessato, soprattutto, alla banalizzazione di tali fenomeni. E la banalizzazione è un modo particolarmente efficace per immetterci in una “notte in cui tutte le vacche sono nere”, dove le parole perdono il senso profondo del loro significato, nella storia e soprattutto nella memoria.
“Chi controlla il presente, controlla il passato”, era uno degli slogan del Partito immaginato da George Orwell nel noto romanzo distopico 1984. Ecco, di fronte a quello che sta accadendo negli ultimi anni dovremmo legittimamente domandarci: chi controlla oggi la memoria pubblica della Seconda guerra mondiale in Italia? La risposta sembra chiara: gli eredi politici degli sconfitti in quella guerra, di coloro che l’hanno voluta e condotta con metodi spietati, e che infatti ora ne trasmettono consapevolmente un’idea distorta e a tratti capovolta. Continuare a diffondere narrazioni storiche false e revisioniste, spacciandole come volontà di pacificazione nazionale, significa permettere che si compia un processo pericolosamente antidemocratico. Vuol dire, in pratica, esserne complici.
Nel corso degli ultimi anni si è assistito in Italia a un crescendo di aggressioni violente di marca neofascista soprattutto ai danni di giovani di sinistra, omosessuali, migranti, poveri e marginali. Le cifre parlano chiaro: il sito ecn.org ha provato a mappare le aggressioni di matrice fascista avvenute dal 2014 a oggi e se ne contano 225. Il pericolo rappresentato dai gruppi della destra radicale non è tanto la loro crescita quanto lo sdoganamento di una cultura, di un linguaggio, di atteggiamenti fatti propri da forze politiche, nazionaliste e sovraniste, in grado di governare. Per questo parlare di fascismo oggi non è un esercizio di modernariato ma un problema del presente e della società nella sua interezza.
L’apporto più significativo che l’estremismo va offrendo all’intera area della destra parlamentare è lo sdoganamento di una serie di temi e questioni. Sdoganare, in questo caso, implica il rendere appetibili e politicamente premianti parole d’ordine che riguardano le politiche dell’immigrazione, il rifiuto delle unioni di fatto, l’ossessivo rimando ai discorsi sulla sovranità e sull’identità nazionale, l’etnicismo come modalità di costruzione, contrattazione e rigenerazione dei rapporti sociali.
Gli anelli di congiunzione tra discorso politico e temi di ordine sociale sono ottenuti attraverso i costanti richiami alla necessità di evitare l’incrocio tra culture diverse, alla visione dell’Europa come una sorta di entità comunitaria tra popoli distinti ma accomunati dalla cristianità, al rifiuto totale dell’immigrazione in quanto minaccia identitaria. Omofobia, euroscetticismo, come, più in generale, diniego della democrazia e del pluralismo, sono parti di un più generale discorso sulla necessità di rimoralizzare l’Occidente, altrimenti sottoposto alla decadenza inflittagli dall’innaturalità degli organismi elettivi e rappresentativi. In tale veste, la tematizzazione peculiare alla destra estrema è quella che identifica la necessità di selezionare un’“aristocrazia dello spirito”, composta da coscienze militanti, che dovrebbe guidare i popoli “etnicamente superiori” a una sorta di radicale trasformazione del proprio spazio politico e sociale, eliminando tutto quanto viene rappresentato come parte di un “complotto”, voluto da “poteri forti», il cui obiettivo sarebbe l’assoggettamento delle collettività ai propri voleri.
L’ingrediente complottista, che negli Stati Uniti ha dato corpo a un fenomeno come Qanon, molto diffuso sul web, al pari dell’assalto a Capitol Hill, insieme alla teorizzazione sulla “grande sostituzione” (ovvero della presunta volontà da parte delle élite tecnocratiche di sostituire all’uomo bianco le popolazioni africane e asiatiche), sono due cornici fondamentali nell’identificare le modalità attraverso le quali l’intera area del radicalismo di destra sta ridefinendo non solo il proprio perimetro ideologico ma anche le sue stesse ragioni d’esistenza. Posto che in Italia il piccolo e rissoso universo di partitini ipernazionalisti e anticostituzionali che erano nati dopo la trasformazione del Movimento sociale italiano in Alleanza nazionale (tra di essi il Movimento sociale fiamma tricolore, il Movimento idea sociale, il Movimento Italia sociale e lo stesso redivivo Movimento sociale italiano-Destra nazionale), è pressoché scomparso: la vecchia radice missina è stata recuperata da Fratelli d’Italia.
La grande frattura che attraversa le nostre società, tra quella parte della popolazione che gode delle garanzie offerte dal lavoro regolare, e quindi da un sistema di tutele collettive, e, chi, invece, ne è effettivamente escluso o se ne sente comunque tale, vivendo gli effetti di una retrocessione sociale e di status, porta l’azione dei neofascisti a cercare di raccogliere questi ultimi, come già era accaduto dopo la fine della Prima guerra mondiale, assumendo le false vesti di rappresentante del disagio dei tanti. In un tale quadro, sovranismo, populismo, identitarismo e altri fenomeni politici, tra di loro anche molto diversi, quindi non sempre riconducibili a un’unica radice, condividono tuttavia una comune matrice tendenzialmente anticostituzionale, che cerca di avvantaggiarsi della situazione corrente.
Questa matrice è legata essenzialmente a pochi aspetti, ma fondamentali: la teorizzazione dell’idea di nazione come di un’identità etnica rigida e immodificabile; l’accusa, rivolta a chiunque non sia riconosciuto come parte di questa “identità” comune, di costituire una minaccia per il fatto stesso di esistere; la visione dei rapporti di potere come del risultato non delle diseguaglianze sociali ed economiche, contro le quali lottare, bensì del prodotto di un complotto da parte di oscure élite che, dietro le quinte, si adopererebbero contro il “popolo”; un stile di comunicazione demagogico che, fingendo di volere fare gli interessi collettivi, in realtà tutela solo piccoli gruppi di interesse; l’avversione per ogni forma di pluralismo – non solo politico ma anche sociale, culturale, civile, di genere – e la diffidenza, che si fa quindi rifiuto, contro la democrazia rappresentativa, alla quale viene contrapposta una falsa “democrazia militante”, quella alla quale dà corpo l’unica falange legittimata all’azione, quella degli apostoli dell’“Idea” fascista. Più in generale, la sintesi di tutti questi motivi si trova nella rivendicazione della necessità esistenziale di essere ferocemente intolleranti, contro coloro che, di volta in volta, sono additati come un pericolo per la sopravvivenza del proprio gruppo.
Rimane il fatto che la funzione principale dei gruppi neofascisti, oltre a motivare i propri militanti ed aderenti, sia essenzialmente quella di introdurre, nel linguaggio di senso comune, così come nella condotta dei molti, atteggiamenti, pensieri, parole e gesti che altrimenti rimarrebbero censurati o comunque consegnati a piccoli e ininfluenti gruppi di nicchia. Il ricorso al razzismo spicciolo, al pari di un antisemitismo mai sopito, convalida questa funzione: attaccare le minoranze, additandole come una minaccia integrale verso la collettività, per rendere quest’ultima più disponibile e malleabile nell’accettare le imposizioni che, di volta in volta, potrebbero esserle dettate. Parlare di “sicurezza”, così come avviene nella destra populista e sovranista, ha quindi come posta la secca limitazione delle libertà collettive, imponendo la paura come strumento di governo delle società.
Il vero conflitto, al giorno d’oggi, tuttavia non si gioca solo sul piano politico: lo scontro è semmai tra una concezione della società che sia aperta e pluralista e una pratica neoautoritaria, destinata a ridurre sempre di più gli spazi di autonomia, di emancipazione, di liberazione delle persone. La riduzione delle democrazie a pura finzione può benissimo coesistere con un mercato in ampia espansione, che non conosce nessun limite e alcun confine. L’autoritarismo non necessita, al giorno d’oggi, di governi “forti” bensì di società fragili. Queste ultime, sfiancate dagli effetti delle crisi in atto, cercano allora una tutela, anche a rischio di perdere la loro libertà. Il fascismo storico, e i neofascismi, d’altro canto condividono con ogni forma di autoritarismo la cancellazione della politica come luogo e sfera di conflitto mediato, di dibattito articolato, di confronto legittimo, sostituendo a tutto ciò l’imposizione, per via di fatto (ossia per mero rapporto di forza), della propria volontà.
Storicamente, i fascismi del passato, al pari di quelli del presente, si sono manifestati come espressione di una non meglio identificata “volontà popolare”, contrapposta alla legittimità costituzionale; hanno parlato di “rivoluzione”, richiamando improbabili o impossibili cambiamenti; hanno stuzzicato il bisogno di protezione dinanzi a quelle stesse paure che sono andati alimentando. I fascismi di sempre non sono mai un “di più di politica” bensì la sua cancellazione davanti alla potente violenza dell’imposizione di alcuni interessi di gruppo, mascherati come bisogni collettivi.
Il risentimento e l’intolleranza verso l’“altro”, hanno rappresentato una specie di sponda giovanile dello stesso blocco guidato dalla Meloni. Dalla denuncia dell’”invasione” dei migranti, fino all’idea che per questa via si attui una “sostituzione di popolo”, fino all’evocazione del “prima gli italiani” per la gestione di ciò che resta del welfare, il lessico del rigetto che mescola allegramente razzismo, paranoia e teorie del complotto, che si è imposto nel nostro paese indica evidenti assonanze tra le parole d’ordine adottate da formazioni quali Forza Nuova, Casa Pound, Lealtà e Azione e Veneto Fronte Skinheads, solo per citare le più note, e la “destra ufficiale”. A ciò si devono aggiungere alleanze e collaborazioni, locali o nazionali, politiche o elettorali, di cui l’apertura della Lega di Salvini all’estrema destra non rappresenta che l’ultimo episodio, nella prospettiva della costruzione di una sorta di destra plurale. La conseguenza più drammatica di questa situazione è stata la sistematica rimozione del tema della violenza dell’estrema destra, tornata invece in auge proprio grazie a questo clima.
Eppure, dagli omicidi di Davide Cesare, “Dax”, Renato Biagetti, Nicola Tommasoli, uccisi tra il 2003 e il 2008, fino alle decine di aggressioni subite da antifascisti, studenti e migranti, la recente storia italiana testimonia di come militanti e simpatizzanti neofascisti o giovani cresciuti in quella sottocultura razzista sempre più diffusa nel paese, abbiano tradotto tragicamente in pratica le parole d’ordine dell’odio e della sopraffazione cui è stato consentito di affermarsi. Parlare al giorno d’oggi di destra estrema, e di neofascismo, quindi, implica il ripartire da questo quadro complesso e frastagliato. Se il fascismo sta “tornando”, qualcuno gli avrà pure aperto, e da tempo, la porta.
Per un nuovo antifascismo
La Resistenza ha valore soltanto se riusciamo a riconoscere quel conflitto nelle forme odierne. Il contrario della memoria condivisa. Per iniziare a ricostruire un argine antifascista solido, dobbiamo prendere posizione contro l’uso politico della storia, e specialmente contro gli attacchi all’antifascismo, che non di rado provengono direttamente dalle istituzioni. Prendere posizione significa anzitutto reagire a questi attacchi senza metterci sulla difensiva, ma contrattaccando a nostra volta La costruzione di una democrazia conflittuale, pluralista e sociale, rappresenta un antidoto contro il fascismo; è l’antifascismo che attraversa la Costituzione strutturalmente antifascista. Antifascismo è riconoscere la legittimità del conflitto sociale; è fondare la Repubblica sul lavoro, nella consapevolezza che lavoratore e imprenditore non hanno gli stessi interessi. Antifascismo è rendere effettiva la libertà di manifestazione del pensiero, contro una narrazione omologante, rifiutare la logica dicotomica e artificialmente semplificatrice amico/nemico, considerare il dissenso una ricchezza per la democrazia e non criminalizzarlo e reprimerlo. Antifascismo è creare le condizioni perché possa svilupparsi una partecipazione effettiva e consapevole, muovendo da una scuola e un’università che stimolino la riflessione critica, l’immaginazione, la ricerca libera. Antifascismo, dunque, è opporsi all’aziendalizzazione che funzionalizza il sapere alle esigenze delle imprese, degradandolo all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro. Antifascismo è liberare la persona umana, promuovendo il suo pieno sviluppo, nel nome di una effettiva uguale diversità, al netto dei bisogni e dei condizionamenti sociali ed economici. Antifascismo è garantire e favorire l’espressione del pluralismo, è limitare il potere, equilibrandolo e dividendolo, invertendo la rotta prepotentemente accelerata con la “legittimazione” dell’emergenza (terrorismo, migranti, pandemia e guerra). Antifascismo è ripudiare la guerra e adoperarsi per una comunità internazionale che persegua la pace e la giustizia. Antifascismo è combattere il fascismo della “società dei consumi”, ovvero il fascismo che risiede nella competitività sfrenata del modello neoliberista che dilaga in tutti gli ambiti della società e della vita. Antifascisti è essere antirazzisti. Occorre prestare particolare attenzione a un fenomeno che vede le destre raccogliere consenso tra le vittime di un capitalismo di stampo neoliberale che, negli ultimi trent’anni, ha distrutto lo Stato sociale, ha eroso la capacità di acquisto degli individui, ha precarizzato le esistenze, ha prodotto incertezza individuale e collettiva, ha fomentato la più aspra concorrenza facendo introiettare alle persone un senso di colpa per non essere riuscite ad emergere o a restare a galla.
Alla luce di tutto questo, è necessario che la sinistra, oltre a chiedere improbabili prese di distanza dal fascismo da parte dei partiti postfascisti, si preoccupasse di rioccupare quegli spazi di rappresentanza di cui sono rimaste orfane le frange più vulnerabili ed esposte della popolazione. Vulnus sociale di cui detiene chiare responsabilità per essersi fatta affascinare dalle sirene liberiste. La lotta a un certo modello di turbocapitalismo non è cosa diversa da quella al fascismo.
È indispensabile, dunque, saper coniugare in una battaglia comune i contenuti in favore della tolleranza, dell’integrazione e della solidarietà, con la promozione di politiche sociali attente agli interessi delle classi più popolari. Su questo piano, ed entro questo orizzonte, vi è il rilancio dell’antifascismo e dei valori di libertà ed eguaglianza che animarono la Resistenza in Italia. Indispensabile per contrastare i nuovi fenomeni razzisti e di recrudescenza neofascista.
pubblicato anche sulla rivista Lavoro&Salute n.4 aprile 2023
Note:
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Contro il fascismo, Torino reagisce – Alessandra Algostino da Volere la Luna
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La deriva fascista e l’antifascismo necessario – Alessandra Algostino da Volere La luna
- L’antifascismo non serve più a niente – Carlo Greppi – Edizioni Laterza
- Anche i partigiani però – Chiara Colombini – Edizioni Laterza
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