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Arnaldo Cestaro. Storia di un uomo buono, un rivoluzionario

È mancato il militante cui si deve la prima condanna inflitta al nostro Paese per aver permesso e non punito in modo adeguato la pratica della tortura. È il caso della scuola Diaz di Genova, nel 2001, dove Arnaldo fu tra le vittime della “macelleria” commessa dalla polizia. Il ricordo di Lorenzo Guadagnucci, con lui quella notte di luglio e poi in tante altre battaglie

di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia

Ho conosciuto Arnaldo Cestaro il 22 luglio 2001 a Genova. Eravamo insieme, ma in stanze diverse, all’ospedale Galliera. Io da solo in una camera a due letti, lui nella stanza attigua con altri pazienti. Entrambi feriti, entrambi in arresto.

Ci avevano portati lì, da detenuti, dopo la notte della Diaz. Dal mio letto lo sentivo concionare rivolto ai degenti, e anche agli agenti che lo piantonavano. Parlava della grande manifestazione del giorno prima, del movimento che si era messo in marcia in tutto il mondo e che aveva colmato di vita e di spirito rivoluzionario le vie di Genova nei giorni del G8. Ero stupito. Io me ne stavo rattrappito, dolorante, impaurito e confuso nel mio letto, sorvegliato da due agenti, arrestato chissà perché, e lui era pieno di ardore e di coraggio. Chi sarà mai questo tipo, mi chiedevo.

Poi lo portarono nella mia stanza, nel letto vuoto, e mi trovai davanti a quest’uomo, allora sessantenne, con un braccio e una gamba ingessati, messo peggio di me. Eppure arringava gli agenti che ci sorvegliavano, a quel punto quattro, due a testa, ed era travolgente. Mischiava italiano e dialetto veneto. Riusciva anche a scherzare. “Ma non vedete che avete fatto?”, disse a un certo punto agli agenti. “Lui lavora al Resto del Carlino, un giornale di destra, e l’avete riempito di botte”. E ghignava sotto i baffi, mentre io facevo fatica a ridere per il dolore procurato dalle botte al ventre. 

Arnaldo se n’è andato l’altra notte, facendoci piangere, ma lasciandoci anche il ricordo di una persona speciale. Era un militante politico, orgogliosamente comunista, pieno di umanità e di gentilezza. Era arrivato a Genova per il G8 da Vicenza, con un pullman organizzato da Rifondazione comunista, il suo partito, ma non era rientrato col resto del gruppo. Si era fermato a Genova con l’intenzione di portare un mazzo di fiori al cimitero di Staglieno, sulla tomba della figlia di una compaesana, una ragazza morta in un incidente stradale. Arnaldo era così, un uomo gentile, fedele alle amicizie, attento alle persone che aveva vicino. 

Quel sabato 21 luglio aveva chiesto consiglio per un luogo in cui passare la notte, e una signora genovese gli aveva indicato la scuola Diaz di via Battisti. Arnaldo si era sistemato con le sue borse proprio vicino al portone d’ingresso della scuola. Fu uno dei primi a essere travolto. “Pensavo che fossero quelli del black block –avrebbe poi raccontato- e invece era la nostra polizia”. 

Nei mesi successivi, con altre persone, fummo fra i fondatori del Comitato Verità e Giustizia per Genova. Arnaldo ne era un simbolo. Si portava dietro una lunghissima esperienza di militanza politica nella sinistra rivoluzionaria, nel pacifismo, nei nuovi movimenti sociali. Per dirla con le sue parole: “Ho fatto le scuole alte. La quinta elementare al mio paese era al terzo piano…”. Non era uomo di studi, ma era sempre preparato e informatissimo. Leggeva ogni giorno almeno il manifesto e, finché possibile, Liberazione; al tempo del G8 si abbonò anche ad Altreconomia. Era pieno di curiosità, aperto a nuove idee e nuove prospettive. Aveva sposato il movimento dei movimenti senza rinnegare la sua fiducia nel “socialismo scientifico”, che non mancava mai di evocare.

Si spostava di continuo, coi suoi borsoni, su e giù per l’Italia, dormendo nelle stazioni e altri luoghi di fortuna. Dal No Tav al No Dal Molin, dalla Sicilia in lotta contro il Muos alla Perugia Assisi, lui c’era sempre. La sua casa, ad Agugliaro, era un presidio militante, pieno di bandiere e manifesti esposti sulla strada. Faceva il rottamaio, girava le province di Padova e Vicenza e anche oltre col suo furgoncino, raccogliendo ferraglie che poi rivendeva a peso. Nei tempi buoni si faceva aiutare e “assumeva” qualcuno di “quei mori”, come chiamava gli immigrati africani che abitavano in una vecchia casa del paese. Nel basso Veneto lo conoscevano tutti. 

Arnaldo a suo modo ha fatto storia. La sentenza “Cestaro vs Italia” della Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz (aprile 2015) ha creato un precedente giuridico e politico: è stata la prima condanna inflitta al nostro Paese per aver permesso e non punito in modo adeguato la pratica della tortura. Qualche tempo dopo la sentenza, Roberto Castello, coreografo fra i più noti in Italia, fondatore della compagnia Aldes, dedicò ad Arnaldo una sala nella sede in provincia di Lucca. Aveva colto il rilievo del fatto: un attivista, una persona comune, aveva chiesto e ottenuto giustizia contro lo Stato e a nome di tutti. Arnaldo fu giustamente orgoglioso di quella intitolazione. 

Arnaldo è stato e resta un esempio di militanza. Sempre aperto, mai fazioso, una persona gentilissima. Una volta in tribunale a Genova, durante un’udienza davanti al Gip, si avvicinò a Francesco Gratteri, l’indagato più alto nel caso Diaz, poi condannato in via definitiva, e con garbo si presentò, gli strinse la mano e gli mostrò una fotografia: “Dottor Gratteri, volevo mostrarle come ci avete ridotto”. Nella foto, scattata poco dopo il luglio 2001, Arnaldo era in carrozzina, con braccio e gamba ingessati, l’immancabile fazzoletto rosso al collo. Gratteri, colto di sorpresa, borbottò qualcosa, Arnaldo gli strinse ancora la mano e salutò. È stato l’unico faccia a faccia tra uno dei responsabili della “macelleria messicana” e uno dei “macellati”.

Resta d’esempio anche la sua apertura mentale. Veniva spesso a Firenze, ospite a casa mia, per portare fiori sulla tomba dell’avvocato Angiolo Gracci, il partigiano Gracco, suo amico e compagno di lotte. Gli feci conoscere Nunzio e Carlotta, due maiali “da compagnia” di un vicino di casa: grazie a loro, capì meglio il mio animalismo e diventò vegetariano.

Arnaldo ha lottato sempre, senza risparmio, col sorriso sulle labbra. L’ultima volta che l’ho visto, pochi giorni fa in ospedale, era ormai stremato. Non riusciva più a parlare. Alla visita precedente, il primo maggio, non aveva riconosciuto né me né Paolo Fornaciari, che era con me. L’altro giorno invece mi ha almeno riconosciuto, mi ha sorriso, e posso ricordarlo così, come un uomo che lotta e non perde mai la sua umanità, la sua attitudine all’empatia, alla solidarietà. 

Lo dobbiamo ricordare per quel che era. Un uomo buono, un rivoluzionario. Ciao, Arnaldo. 

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