Il teorema. La tesi dei pm: nel centro sociale c’è un nucleo che ha il solo fine della violenza. La risposta delle difese: cancellate le ragioni politiche, sotto accusa è il conflitto. Alla sbarra un’intera stagione di movimenti: per Torino si inizia dal G8 dell’Onda del 2009, per la Val Susa dal 2011. La storia scritta a colpi di indagini
di Giansandro Merli da il manifesto
Due anni di indagini, ventotto rinvii a giudizio, settantadue capi di imputazione, migliaia di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali, una sola tesi: dentro il centro sociale Askatasuna è stata costituita un’associazione a delinquere. «Un’associazione a delinquere, con organizzazione verticistica, capillare distribuzione dei ruoli e dei compiti tra i vari partecipanti, basi logistiche ed operative, avente come programma il compimento di azioni violente in occasioni di iniziative di protesta», scrive la procura di Torino nella memoria depositata a conclusione del processo di primo grado di cui è attesa la sentenza lunedì prossimo. Complessivamente sono stati chiesti ottantotto anni di carcere.
Secondo i pm i vertici dell’organizzazione, composta da sedici degli imputati, sono Giorgio Rossetto, il leader indiscusso, e Guido Borio, l’ideologo. Si tratta di due figure storiche dell’antagonismo torinese. Insieme agli altri associati poggerebbero su diverse «basi»: i centri sociali Askatasuna e Murazzi, lo Spazio Popolare Neruda, l’info shop Senza Pazienza a Torino; il presidio dei Mulini e quello di San Didero in Val Susa, nei pressi del cantiere Tav.
LE INDAGINI VERE E PROPRIE si sono svolte tra il 2019 e il 2021 ma la ricostruzione parte da molto prima. Durante la sua lunga deposizione il testimone chiave dell’accusa, un funzionario della sezione terrorismo della digos torinese, ha spiegato che nell’autunno di sei anni fa gli uffici della questura hanno notato come tra i vari scontri di piazza del biennio precedente si potessero registrare protagonisti e metodologie comuni. Usando quegli elementi come un setaccio gli inquirenti sono andati a ritroso fino a stabilire due eventi a monte dell’associazione a delinquere: per Torino il G8 dell’università di maggio 2009, con le proteste del movimento studentesco dell’Onda; per la Val Susa le mobilitazioni scoppiate nel 2011. Secondo la procura «l’elaborazione e l’attuazione del programma criminoso» si deve far risalire addirittura agli inizi del 2000, periodo in cui comincia «la diffusione del piano da parte degli ideologi» e cresce «il livello dello scontro con le forze dell’ordine».
A sostegno di questo impianto è finita nel processo un’intera stagione di movimenti dentro e fuori il capoluogo torinese. Gli eventi in cui si sono verificati disordini sono stati divisi in quattro gruppi: manifestazioni in città, di varia natura; cortei del primo maggio, con le rituali tensioni intorno allo «spezzone sociale»; scontri all’università con le fazioni di estrema destra; soprattutto: marce e attacchi al cantiere Tav. Sono queste, per l’accusa, le «azioni di esecuzione del programma». Un programma che consiste nel «portare avanti la lotta violenta, mantenendo alta la tensione con le Forze dell’Ordine, che sono viste come la “prima linea” dello Stato da combattere».
I MILITANTI DEL CENTRO SOCIALE non hanno mai fatto segreto, nemmeno in sede processuale, della loro concezione del conflitto che prevede anche l’uso della forza in determinate dinamiche di massa. Del resto, piaccia o meno, i disordini esplodevano secondo forme e modalità simili a quelle incriminate anche prima dell’occupazione del numero 47 di corso Regina Margherita e così continuano a ripetersi ben oltre il suo raggio d’azione geografico. I pm, però, sostengono che a Torino e in Val Susa dipendano tutti dal nucleo interno ad Askatasuna e non siano un mezzo di azione politica ma il fine stesso di attività di natura esclusivamente criminale. «La riqualificazione dell’iniziale ipotesi di associazione sovversiva in associazione a delinquere aggravata mostra il tentativo di cancellare le finalità ideali e politiche dei militanti del centro sociale, rappresentati come meri delinquenti mossi da una specie di istinto alla violenza», afferma l’avvocato Claudio Novaro, membro del collegio difensivo. Per il legale le indagini si sono basate su categorie interpretative ignare «dei codici, dei linguaggi e della sintassi politica di movimenti sociali e aree antagoniste».
Così le interviste rilasciate dai «capi», le riflessioni intercettate e trascritte, i contenuti pubblicati su Facebook o sui canali indipendenti diventano formulazioni di uno specifico programma di reato. Salvo poi dover ammettere, ad esempio, che uno dei vettori di diffusione di tale piano sarebbe una trasmissione su Radio Blackout condotta da una persona nemmeno imputata. Secondo una logica analoga, quelli che normalmente si definiscono quadri di una struttura politica diventano «collaboratori in posizione dominante» dell’associazione e i militanti del centro sociale «esecutori materiali» dei crimini.
A DIMOSTRARE IL SODALIZIO ci sarebbe anche l’esistenza di legal team e casse di resistenza. Ma l’analogia con organizzazioni di ben altra caratura, come quelle che garantiscono il reddito ai familiari dei membri arrestati, hanno difficoltà a reggere. Le risorse «derivanti da attività lecite» – tra queste: agnolottate, polentate, aperitivi, serate musicali, il festival Alta Felicità – sono infatti generate grazie alla partecipazione volontaria di decine e decine di persone e restano a disposizione di militanti che non sono inclusi nell’ipotesi associativa. Un funzionamento quanto meno singolare per un’associazione a delinquere. Anche perché gli inquirenti hanno potuto solo ipotizzare che quei soldi siano stati usati per l’acquisto delle strumentazioni utili a creare disordini – fuochi d’artificio, materiale esplodente, bastoni – visto che non hanno trovato prove.
Tutto il progetto criminoso, dicono ancora i pm, si baserebbe sulla «sofisticata strategia» di nascondersi dietro iniziative sociali, tra le quali: contrasto alla precarietà abitativa, promozione dello sport popolare, distribuzione di cibo e tamponi durante il lockdown, corsi di italiano per stranieri, aiuto agli sfrattati. Unico scopo di queste variegate attività, cui ancora una volta partecipano molti più soggetti di quelli rinviati a giudizio, sarebbe «procurare [all’associazione, ndr] il sostegno di una parte dell’opinione pubblica» per proteggere le azioni violente.
QUESTI ELEMENTI hanno spinto le difese a contestare alla base la tesi della procura: il processo non è contro uno specifico nucleo criminale ma a tutto il centro sociale Askatasuna e al movimento No Tav. A dimostrarlo anche le enormi richieste di risarcimenti avanzate dalle parti civili: una provvisionale di un milione di euro dalla Telt, società italo-francese che sta costruendo l’alta velocità, e 6,7 milioni dall’avvocatura dello Stato, a nome dei ministeri di Interno e Difesa, per la gestione dell’ordine pubblico relativa al 2020-2021. In pratica agli imputati viene chiesto il conto di tutto ciò che è avvenuto nelle piazze torinesi e sulle montagne valsusine. Nella cifra monstre rientra anche l’attività info-investigativa. «Un’assoluta novità, dato che lo stesso danno patrimoniale dovrebbe ravvisarsi in qualunque reato», ha scritto sulle pagine di questo giornale il giurista Luigi Ferrajoli.
Le richieste di risarcimento sono state invece elogiate lo scorso 25 gennaio dal consigliere laico del Csm Enrico Aimi, in quota Forza Italia, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, poco prima che la procuratrice generale Lucia Musti affermasse che gli imputati di Askatasuna hanno «assunto la regia della mobilitazione violenta in Val di Susa» e «realizzato una struttura organizzativa complessa» per cui «è necessaria e opportuna una risposta dello Stato contro chiare finalità eversive, quantomeno di piazza». Due interventi che hanno sollevato la protesta del collegio di difesa: «Parole in contrasto con il valore del dubbio e la prudenza del giudizio, che entrano nel merito di una concreta vicenda giudiziaria e quasi ne anticipano l’esito», hanno scritto i legali in una lettera.
MUSTI HA POI fatto riferimento a Torino come «capitale dell’eversione». Nella stessa città per fatti di un periodo analogo, il 2015 e 2016, era stata ipotizzata l’esistenza di un’altra associazione, qualificata come «sovversiva» anche in sede processuale. Alla sbarra erano finiti 18 militanti anarchici, molti legati all’occupazione Asilo, per invii di pacchi bomba e proteste contro il Cpr di corso Brunelleschi. La sentenza di primo e quella di secondo grado, ormai passata in giudicato, hanno escluso il teorema associativo e assolto anche per i reati specifici tutti gli accusati tranne uno.
Vedremo come andrà a finire questo secondo filone processuale. Dal canto loro gli imputati di Askatasuna, con una dichiarazione spontanea resa in aula, hanno affermato di non riconoscersi «minimamente nel quadro caricaturale» dipinto dagli inquirenti e rispedito al mittente «l’equiparazione a disegni delinquenziali delle esperienze politiche e dei percorsi di lotta sociale che ha il fine di alimentare la costruzione giudiziaria, sociale e mediatica di un nemico pubblico». Nella sua memoria conclusiva, invece, l’avvocato Novaro ha avvisato: «Adottando criteri interpretativi quali quello posto a fondamento del presente procedimento si finirebbe per considerare alla stregua di associazioni per delinquere tutti i centri sociali della penisola».
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«Torino capitale dell’eversione». La storia scritta a colpi di indagini
di Mario di Vito da il manifesto
Torino è la capitale dell’eversione di piazza». Lo ha detto, il 25 gennaio scorso, durante la cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario, la procuratrice generale Lucia Musti. Ce l’aveva con «i professionisti della violenza», cioè i militanti del centro sociale Askatasuna, punta di diamante del famigerato «movimento antagonista» che porta alle proteste «soggetti di minore età» ed «entra in condivisione con gruppi sani di cittadini che intendono manifestare pacificamente il proprio pensiero». La scena, a modo suo, ricorda il famoso discorso del «dottore» interpretato da Volonté e tratteggiato da Ugo Pirro per il famoso film di Elio Petri («Il popolo è minorenne, la città è malata…»), ma il presente è diverso dal passato e là dove una volta c’erano cittadini al di sopra di ogni sospetto oggi ci sono mucchi di carte anonime. Sono le inchieste che hanno toccato, con esiti non sempre trionfali, i movimenti sociali. O, per usare le parole di Musso, «l’eversione di piazza».
È IN PIAZZA, in effetti, che comincia la storia di Torino capitale italiana delle inchieste sull’eversione. È il 4 aprile del 1998, in città almeno diecimila persone manifestano «contro la repressione» e le grandi vetrate del nuovo Palagiustizia in costruzione lungo corso Vittorio Emanuele vengono prese di mira dal corteo. Volano pietre a margine di una giornata di feroci tafferugli per i quali in otto saranno denunciati e poi processati per «devastazione e saccheggio», reato riesumato dai meandri più oscuri del Codice Rocco e che, nel 2001, tornerà di moda – sempre nelle aule di giustizia – per descrivere gli scontri durante il G8 di Genova. Ma perché quel 4 aprile a Torino si manifestava «contro la repressione»? La risposta riguarda uno degli eventi più tragici della storia torinese recente: il 28 marzo del 1998, l’anarchico Edoardo Massari, Baleno, si era impiccato con le lenzuola della branda della sua cella nel carcere delle Vallette. Si trovava lì in quanto elemento centrale dell’inchiesta del pm Maurizio Laudi su una serie di attentati a sfondo «ecoterroristico». L’11 luglio si suiciderà anche un’altra indagata: Maria Soledad Rosas, Sole. Il terzo, Silvano Pellissero, affronterà il processo e ne uscirà con una lieve condanna per reati minori. Un copione che da qui in avanti verrà messo in scena tante volte nel tribunale di Torino.
FANNO FEDE, in questo senso, le numerose iniziative giudiziarie contro i No Tav: da quando, nell’agosto del 2011, una cinquantina di persone blocca un treno alla stazione di Avigliana e si prende una denuncia per interruzione di pubblico servizio fino all’ultimo processo contro Askatasuna, passando per manifestazioni non autorizzate, danneggiamenti vari ai cantieri dell’alta velocità, scontri con le forze dell’ordine. I denunciati si contano nell’ordine delle centinaia, ma poi facilmente dei processi si finisce con il perdere le tracce. Da un rivolo di questa storia prenderà le sue mosse Scripta manent, la madre di tutte le indagini contro la Federazione Anarchica Informale, sigla nata nel 2003 e che per gli investigatori italiani costituisce il nucleo più significativo dell’arcipelago insurrezionalista del terzo millennio.
Il procuratore Roberto Sparagna impiega cinque anni per mettere insieme il suo castello accusatorio di 230 faldoni da centinaia di pagine ciascuno. Gli «oneri per le attività info-investigative» dell’impresa, dice il ministero della Giustizia, ammontano a 1.191.000 euro spesi dalla sola digos più altri 712.000 euro per la Direzione centrale della polizia di prevenzione. Il totale fa 1.912.000 euro. Il primo blitz, a inchiesta aperta, è del 6 settembre 2016, con sette arresti e otto indagati a piede libero. I fatti contestati riguardano un certo numero di pacchi bomba recapitati tra il 2003 e il 2007 e altri episodi come il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi del maggio 2012, per il quale già sono detenuti Alfredo Cospito e Nicola Gai. All’apertura del processo gli imputati saranno ventitré in totale. Quando nel 2022 la Cassazione si occupa della vicenda, tra assoluzioni e condanne leggere, l’associazione a delinquere resisterà solo per tre persone, il numero minimo per cui si può configurare questo reato: Anna Beniamino, Cospito e Gai. I primi due, ancora oggi, sono ristretti in regime di 41 bis.
GLI OCCHI degli inquirenti, ad ogni modo, guardano anche al passato remoto. Un anno fa, infatti, è stato riaperto il caso della Cascina Spiotta, la sparatoria del 1975 in cui persero la vita la fondatrice delle Brigate Rosse Margherita Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Le nuove indagini si sono concentrate soprattutto sulle impronte digitali di Lauro Azzolini su un documento rinvenuto durante una perquisizione del 1976. Tra antiche testimonianze e saggi sugli anni della lotta armata, alla fine si è arrivati al rinvio a giudizio di Azzolini, Mario Moretti, Renato Curcio e Pierluigi Zuffada (morto nel febbraio scorso). Alla seconda udienza del processo, che va in scena ad Alessandria, Azzolini però ha spiazzato tutti dichiarando che alla Cascina Spiotta era lui il secondo uomo rimasto ignoto per mezzo secolo, scagionando Curcio e Moretti. La sentenza non arriverà prima del prossimo autunno. Sul banco degli imputati siede la storia. Perché l’importante non è appurare i fatti, ma costruire un mito: quello della capitale dell’eversione.
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