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Assolti nell’appello bis i medici del Pertini implicati nella morte di Stefano Cucchi

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Amarissimo lo sfogo di Ilaria Cucchi in un post dedicato al fratello: «Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno»

Era stato disposto a dicembre, pochi giorni dopo la svolta dell’inchiesta bis della Procura di Roma che vede cinque carabinieri iscritti a vario titolo nel registro degli indagati per il violentissimo pestaggio che seguì all’arresto e la strategia di insabbiamento delle prove.

La sorella Ilaria parlò di «nuovo inizio». «I medici sono responsabili della morte di mio fratello, se lo avessero curato non ci sarebbe alcun motivo di parlare di lui e della sua vicenda». Invece, sette mesi dopo, è piombata la notizia dell’assoluzione confermata in appello per i 5 medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che hanno avuto in cura Stefano Cucchi. A deciderlo la terza Corte di Assise d’appello, che ha dunque confermato l’assoluzione di Aldo Fierro, primario del reparto detenuti, e dei medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. I cinque medici, condannati in primo grado per omicidio colposo, erano stati già assolti in appello: la Corte di Cassazione aveva poi annullato quelle assoluzioni, disponendo l’appello-bis che si è concluso oggi.

«Ciao Stefano, tu eri già così – si legge in un post su fb della sorella Ilaria – Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto».

«Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno», prosegue Ilaria Cucchi, che allega al post la fotografia del fratello sul tavolo dell’obitorio: «Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto. Non se ne sono accorti solo i periti Cattaneo, Iachipino e Grandi. Questa notte ho avuto un incubo. Ho sognato che mi tagliavano gambe e braccia. Ma questo è successo il 22 ottobre del 2009. Mi sono rimasti però occhi per vedere, testa per capire e cuore per amare. Mio fratello è un classico caso di malagiustizia ma non perché è stato pestato violentemente dopo il suo arresto, non perché dopo non è stato curato all’ospedale Pertini ma perché non si deve mai arrestare un morto. Mai. Stefano ti voglio tanto bene. Chiedo scusa ai miei genitori per quello che stanno passando».

È durata oltre tre ore la camera di consiglio che ha portato alla sconcertante sentenza. Per tutti il pg, Eugenio Rubolino aveva sollecitato condanne comprese tra i 4 anni e i 3 anni e sei mesi.

Per il pg Nello Rossi, a dicembre, dovevano essere annullate le assoluzioni accordate ai cinque medici del Pertini. I referti dell’ingresso di Stefano Cucchi «devono essere considerati come un capitolo clamoroso della sciatteria e trascuratezza della assistenza riservata a Cucchi al Pertini».  «A fronte della estrema e vistosa magrezza del Cucchi al suo arrivo al Pertini (tale da costringere a praticargli le iniezioni di antidolorifico sul deltoide e con aghi più piccoli del normale) e delle sue condizioni di paziente fratturato e cateterizzato, all’esame obiettivo eseguito, dalla dottoressa Caponnetti poi assolta anche dal reato di falso ideologico perchè ritenuta solo superficiale, il Cucchi risultava così descritto: condizioni generali buone, stato di nutrizione discreto, apparato muscolare tonico, apparato urogenitale con nulla da rilevare!». Rossi ha fatto presente che Cucchi pesava solo 34 chili. Il pg ha inoltre aggiunto che «dati come questi non possono semplicemente ‘sparire’ o essere relegati in secondo piano nel ragionamento del giudice di appello che nella sua motivazione deve farsi carico, se vuole ribaltare le conclusioni dei giudice di primo grado, di spiegare come possa essere ritenuta adeguata ed attenta l’accoglienza al ‘Pertini’ del paziente Cucchi che nonostante il suo stato complessivo e nonostante avesse il catetere inserito dal medico dell’ospedale ‘Fatebenefratelli’ viene qualificato all’ingresso come un soggetto in buono stato sul quale non c’è nulla da rilevare neppure in ordine all’apparato urogenitale».

Quei medici dell’ospedale Pertini – si legge nelle motivazioni della Cassazione – avevano una «posizione di garanzia» a tutela della salute di Stefano Cucchi e il loro primo dovere era diagnosticare «con precisione» la sua patologia anche in presenza di una «situazione complessa che non può giustificare l’inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico», scrive la Cassazione nelle motivazioni in base alle quali sono state annullate le assoluzioni dei cinque camici bianchi che avrebbero dovuto curare Cucchi morto nel 2009 dopo una settimana di ricovero.

Nel processo bis ai cinque medici rinviati a giudizio dalla Cassazione con l’accusa di omicidio colposo nei confronti di Cucchi ricoverato nel reparto per detenuti, oltre alle cause della morte, doveva essere accertata – «la concreata organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza e ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella vicenda». «Senza dimenticare – prosegue la sentenza 9831 – che il medico che, all’interno di una struttura di tal genere, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle diagnosi effettuate e delle terapie praticate ai pazienti».

Dopo essere stato arrestato per spaccio, alle porte del parco degli Acquedotti, il 16 ottobre del 2009, Cucchi sarebbe stato torchiato con così tanta energia da finire già malconcio alla stranissima udienza di convalida, poche ore dopo, ma la giudice non se ne sarebbe accorta. Così, da Piazzale Clodio, Cucchi transitò a Regina Coeli dove iniziò un calvario tra il pronto soccorso del vicino Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, di nuovo il carcere e, infine, il “repartino”, il reparto dedicato ai detenuti del Pertini. Qui sarebbe restato negli ultimi cinque giorni della sua vita, nascosto ad ogni sguardo, dietro un muro di gomma impossibile da valicare per i parenti che, ognuno di quei giorni, erano tornati al cancellone blindato per tentare di vederlo o, almeno, di fargli avere della biancheria pulita. Chi lo vedrà, in obitorio, si troverà di fronte lo spettacolo terrificante di un ragazzo torturato. Le foto diffuse dalla famiglia fanno ancora il giro del mondo sul web.

Da quasi sette anni, Ilaria, la sorella, Rita e Giovanni, i genitori, tentano di ottenere verità e giustizia, e sono un pezzo importante della battaglia più generale per una vera legge contro la tortura.

Checchino Antonini da Popoff