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Autonomia e repressione nella Colombia del post-conflitto: intervista a Manuel Rozental

Manuel Rozental, leader di Pueblos en Camino racconta il suo punto di vista sulla violenza del governo di Ivan Duque, il fallimento degli Accordi di Pace con le Farc, la resistenza delle comunità indigene e il ruolo delle Ong e della Missione dell’Onu per cui lavorava Mario Paciolla

Come definiresti l’attuale fase politica in cui si sta intensificando la violenza contro la popolazione colombiana?

Quello che stiamo vivendo adesso è l’esperimento di una nuova fase del capitalismo o addirittura di una fase che supera il capitalismo e che va verso qualcosa di potenzialmente peggiore. Si tratta di una minaccia, di un’aggressione, che proviene dal capitalismo globale e locale, si muove tra il liberismo e il neoliberismo, e pretende trasformare tutto in interessi commerciali lasciando spazio ai profitti delle imprese transnazionali del settore finanziario e dell’estrattivismo. Il polo più estremo di questa minaccia è rappresentato dal modello capitalista di matrice fascista e mafiosa che pretende eliminare – con la forza e la guerra – tutto ciò che ostacola i suoi piani e appropriarsi dei territori, della forza lavoro e della natura per accumulare ricchezza.

Le élites vincolate alle imprese transnazionali, al Pentagono e ai grandi capitali nazionali e globali sono l’espressione, all’interno dello Stato colombiano, di questa grande minaccia. La controparte di questa equazione – nonostante si sia indebolita dalla firma degli Accordi di Pace ad oggi – è rappresentata dalle autonomie che si sono convertite in un vero e proprio pericolo per la struttura statale e per il capitale, mettendo concretamente in dubbio la loro stessa esistenza.

I popoli hanno riconosciuto che il problema è il modello economico e che la guerra è uno strumento di questo modello economico, che le leggi vanno contro i popoli e che lo Stato non rispetta gli accordi presi. Hanno compreso attraverso le lotte che bisogna alimentare il tessuto sociale e costruire un programma senza il sostegno dello Stato. Contro questa consapevolezza si è scatenata una duplice offensiva: da una parte attraverso una pace “liberale” firmata con l’insorgenza armata e dall’altra attraverso gli strumenti del narcostato paramilitare di Alvaro Uribe Velez che aspira alla guerra totale e accumula enormi ricchezze depredando i territori e commettendo massacri.

In che modo questa nuova ondata di violenza si vincola con gli scandali giudiziari che stanno travolgendo l’establishment politico colombiano?

L’ex-presidente Uribe Vélez è la personificazione di un sistema di potere che si sostiene grazie all’appropriazione dei terreni per produrre cocaina e che con la scusa della guerra alle Farc ha creato organizzazioni paramilitari che sono diventate gigantesche strutture del traffico di droga.

Grazie al controllo sui partiti politici e sulle elezioni questo modello può assicurarsi sia il potere legale che quello illegale per generare ingenti profitti e transazioni economiche verso il Nord. Tutto questo viene messo a rischio ora, nel momento in cui Uribe Vélez potrebbe essere finalmente processato e l’intera struttura che lo sostiene inizia a sentirsi minacciata. Come conseguenza ricominciano ancora una volta gli omicidi selettivi e i massacri. Se si cerca di comprendere le stragi che stanno avvenendo in diverse parti del territorio provando a identificarne gli artefici si rischia di cadere nella trappola dell’establishment che spinge a focalizzarsi sugli esecutori materiali.

Quando invece ci si domanda chi sono coloro che beneficiano di quest’ondata di violenza diventa perfettamente chiaro che uccidere giovani e commettere massacri ogni giorno sia un meccanismo per generare terrore nella popolazione e legittimare l’uso della forza pubblica. Nessuno ha le informazioni e la capacità di agire in questa maniera se non le autorità statali legate ai militari, ai paramilitari e ai narcotrafficanti che vogliono controllare i territori. Siamo di fronte a una strategia mafiosa e fascista volta a soggiogare l’intero territorio nazionale con la forza del terrore, in particolare nelle regioni dove ci sono maggiori risorse naturali e dove sta crescendo la resistenza dei processi di autonomia territoriale.

Quale ruolo giocano le Farc in questa nuova fase del conflitto?

Quando le Farc hanno firmato gli Accordi di Pace pensavano di poter diventare immediatamente un partito politico con una forza elettorale di massa, ma il popolo non gli ha mostrato sostegno e anche in termini elettorali non hanno ottenuto un risultato significativo. In altre parole, il sostegno politico di cui godono le Farc è molto debole e, in questa situazione di tremenda vulnerabilitá, sono state attaccate violentemente.

Da un lato vi è il mancato rispetto degli Accordi di Pace e dall’altro gli ex-combattenti vengono chiamati banditi e assassini nonostante abbiano avuto il coraggio di riconoscere i crimini di guerra commessi durante il conflitto. Lo Stato invece, e chi detiene il potere economico in Colombia, non ha riconosciuto nessuno dei suoi crimini. Si è quindi alimentata una strategia di persecuzione e isolamento ai danni delle Farc che si è sommata al problema delle lotte interne all’organizzazione. Di conseguenza il partito delle Farc ha subito un processo di indebolimento e isolamento impressionante che ha portato coloro che hanno guidato il processo di pace, come per esempio Iván Márquez, a riprendere le armi ingrossando le fila delle dissidenze armate.

Esistono inoltre un certo numero di fazioni che nel nome delle Farc hanno intessuto legami con il narcotraffico e cercano di sottomettere con l’uso della forza e delle armi la popolazione civile, i movimenti sociali e le autonomie pur non avendo nessuna legittimità politica. A ciò si aggiungono diverse azioni terroristiche e di guerra che vengono attribuite ai dissidenti delle Farc ma esiste il sospetto che in realtà siano compiute dai paramilitari o dall’esercito dato che sono loro coloro che ne beneficiano. Ci troviamo quindi in una situazione di guerra tra diversi attori e le Farc, che in questo momento non possono contare con una forza politica importante soprattutto perché gli Accordi di Pace non sono stati rispettati e continuano a essere violati.

Personalmente credo che non siano stati rispettati proprio per alimentare questo scenario di guerra permanente tra i gruppi insurrezionali, tra le altre fazioni armate e tra i narcotrafficanti, e di conseguenza per legittimare il modello mafioso e fascista di occupazione del territorio e di guerra totale.

Come hanno influito gli Accordi di Pace sulle lotte di resistenza?

Gli Accordi di pace hanno avuto un proposito diretto che credo che oggi nessuno possa smentire, ovvero smobilitare le Farc per attaccare apertamente e direttamente i movimenti sociali e poter controllare i territori, le ricchezze e le risorse che non era stato possibile depredare anteriormente, a causa della presenza e del controllo delle Farc.

Il governo Santos ha rappresentato il lato neoliberista di questi Accordi, la sua funzione è stata quella di smantellare l’insurrezione armata e comprare con promesse legali di ogni tipo, come ad esempio decreti per una maggiore autonomia dei popoli indigeni, i movimenti sociali. Ma l’autonomia che lo Stato consente è in realtà il contrario dell’autonomia, perché autonomia e Stato sono incompatibili. Ricevere educazione e salute dallo Stato in nome dell’autonomia significa subordinare i progetti agli apparati statali, inserendoli nell’ordine neoliberista in cambio di denaro.

L’altra conseguenza del processo di pace è stata quella di promuovere il narcotraffico, la militarizzazione, la guerra e la depredazione dei territori. Le zone più militarizzate della Colombia sono i territori dove c’è più narcotraffico, dove ci sono più massacri. Narcotraffico e massacri si alimentano l’uno con l’altro. È la stessa cosa che si osserva in Messico, il narcotraffico è una politica dello Stato, transnazionale, e funziona promuovendo il traffico di droga e allo stesso tempo promuovendo la guerra alla  droga per “liberare” i territori, per interessi transnazionali e per promuovere una guerra che si converte in un un business economico con alte rendite.

È uno scenario molto pessimista e molto negativo quello che descrivo ma allo stesso tempo penso che questo contesto, ancor di più con la pandemia, ci stia facendo vedere tutte queste criticità e ce le sta mostrando chiaramente, più di prima, più di sempre. Ci sta mostrando in primo luogo che la normalità in questo paese è fatta di catastrofi, suicidi e distruzione. Di conseguenza lo Stato non serve, le imprese transnazionali ci distruggeranno, la politica elettorale è una catastrofe. La normalità non funziona e questo è ormai chiaro. Siamo di fronte a un processo di assestamento strutturale tra potenti settori nazionali e transnazionali, tra settori finanziari e bancari, legali e illegali. Il capitale si sta riassestando escludendo la gente povera. Ci stanno obbligando a comprendere chi sono e cosa vogliono fare con i nostri territori, con il nostro paese, e come vogliono farlo. Stiamo capendo l’essenziale, ovvero che attraverso lo Stato, per la via della normalità, per la via della politica elettorale, non c’è via d’uscita e ci stanno facendo riflettere sul fatto che: o otteniamo la sovranità alimentare, o proteggiamo i territori, o tessiamo dal basso oppure ci schiacceranno.

Che forme di resistenza si stanno opponendo al riprodursi di questo modello violento?

Il processo di pace e la guerra permanente hanno avuto un effetto molto dannoso sui popoli e sui processi di autonomia. Dagli anni ’80-’90 e fino al 2018 più o meno, la lotta sociale in Colombia – storicamente Stato-centrica – ha iniziato a svincolarsi dai partiti politici, dai sindacati e ha smesso di girare intorno allo Stato.  Quello che succede negli anni ’80 e ’90, soprattutto con il movimento indigeno, con particolare forza nella regione del Cauca, è che si inizia a dire allo Stato che non rappresenta più la soluzione ai problemi ma al contrario rappresenta il problema. Non importa chi sta al potere o al governo, anche se fosse uno di noi la struttura statale rimane patriarcale, capitalista ed estrattivista. È un processo che diventa evidente con i governi progressisti della Bolivia, del Nicaragua e del Venezuela dove si produce un discorso liberatore e di sinistra ma si mantengono pratiche assolutamente neoliberali.

In quegli anni inizia a farsi avanti un’agenda di idee che viene direttamente dai popoli, succede in Bolivia e in Ecuador dal basso, ed è quella forza che le popolazioni indigene del Cauca chiamano comunità e resistenza sociale. Dal Cauca si comincia a dire al resto della Colombia che bisogna lasciar perdere l’istituzionalità dello Stato e che bisogna costruire un’agenda propria, dei popoli, ed è qui per esempio che nel 2018 si sviluppa la proposta del Congresso dei Popoli. Una proposta che nasce da una comunità che sostiene che 1. il modello è il problema, 2. che le leggi le devono fare i popoli e che non può continuare a farle lo Stato, 3. che il terrore è uno strumento di depredazione al servizio del modello economico, 4. che allo Stato bisogna esigere ciò che si è conquistato e 5. che bisogna tessere alleanze tra i popoli per costruire un Paese diverso.

Durante il governo di Uribe il Congresso marcia e lo sfida sollevando questi cinque punti del programma e lo costringe con tutti i suoi ministri a un incontro in territorio indigeno, con la guardia indigena vigilandoli e trasmettendo l’incontro per televisione a tutto il Paese. La gente si rende conto che Uribe, lo Stato e il governo non sono in grado di rispondere a questo programma. Saranno quindi i popoli a dover rispondere. Si produce quindi una reazione di fronte a questo processo: è la seconda fase del Plan Colombia, progettato dal Pentagono e dagli Stati Uniti alleati con il potere economico nazionale, che consiste nel concentrarsi contro i movimenti autonomisti e in particolare contro il movimento indigeno.

Si assiste dunque a una serie di azioni, come per esempio riempire i territori indigeni di marijuana e coca, inserirli nelle rotte del narcotraffico ma senza attaccarli, senza toccarli ma incentivandoli a riempirsi di denaro. Il denaro corrompe e divide profondamente il movimento indigeno, raggiungendo il punto che stiamo vivendo oggi in cui lo stesso territorio dove nasce tutta questa forza è diviso tra chi si dedica al narcotraffico in collusione con le autorità e chi per preservare la lotta per l’autonomia se ne tiene fuori. Gli uni e gli altri si stanno facendo la guerra a vicenda per conto  dei gruppi armati. La militarizzazione di questi territori è una scusa e un pretesto per favorire l’entrata di narcotrafficanti e paramilitari, a cui si aggiungono le cosiddette dissidenze delle Farc.

I movimenti indigeni da una parte finiscono negoziando con lo Stato i finanziamenti per  i progetti economici e vengono così burocratizzati dall’alto e dall’altra parte si rivolgono al narcotraffico e entrano in un conflitto militare e paramilitare nel quale contribuiscono all’arricchimento dei narcotrafficanti e perdono autonomia. Questo è ciò che osserviamo oggi, ovvero le conseguenze della seconda fase del Plan Colombia che ha indebolito o distrutto il tessuto dell’autonomia tra i popoli. Tuttavia, in questo contesto, diversi processi mantengono viva la loro lotta per l’autonomia nonostante le aggressioni, i massacri e gli omicidi selettivi.

Qual è il ruolo delle Organizzazioni non governative e delle Nazioni unite in questo contesto?
C’è una grande varietà di organizzazioni non governative in Colombia e anche se gran parte delle Ong hanno buone intenzioni, si tratta di un settore istituzionale parastatale che finisce per smantellare i processi di resistenza e autonomia in cambio di risorse e progetti in aree specifiche. In alcuni casi denunciano violazioni dei diritti umani in determinati territori ma in generale non sono in grado di fare un’analisi e promuovere una strategia che consenta e incoraggi l’organizzazione e l’autonomia delle popolazioni.

Ci sono eccezioni a questa regola, ma questa è in linea di massima la norma. Le Ong ti assumono per il tuo impegno nelle lotte sociali ma quando sei dentro ti scontri con i limiti legati alle risorse economiche e l’orientamento politico di chi le finanzia e ti dirà che lavorerai solo in questo settore, solo con queste persone e solo con questo preciso obiettivo. Queste limitazioni si scontrano con le logiche territoriali regionali delle popolazioni e dei loro processi e finiscono per creare divisioni.

Le Nazioni Unite sono entrate come organizzazione multilaterale dopo la firma degli Accordi di Pace e hanno una presenza gigantesca per quanto riguarda l’osservazione del processo di pace e la smobilitazione e il reintegro degli ex-combattenti. Come dimostrato dall’inchiesta sul caso Mario Paciolla però, all’interno delle Nazioni Unite e di tutto il processo di osservazione, ci sono una serie di questioni che limitano l’autonomia dell’Onu nell’adempiere alla sua missione di difendere il processo di pace.

Ad esempio Claudia Juieta Duque ha rivelato che una persona che ricopriva un’alta carica dell’intelligence militare stava ricevendo tutti i rapporti interni secretati che le Nazioni Unite producono sul processo di smobilitazione. Ci sono quindi una serie di cose che non sono note e che frustrano molte brave persone che lavorano all’interno delle Nazioni Unite e che non possono essere rese pubbliche perché se le Nazioni Unite abbandonassero questo processo gli ex-combattenti smobilitati rimarrebbero senza nessun tipo di protezione.

Come si inserisce il caso di Mario Paciolla in questo contesto?

Molte persone credono che il caso di Mario Paciolla sia importante solo perché Mario era uno straniero, mentre non viene prestata altrettanta attenzione ai colombiani che vengono uccisi quotidianamente. Ma questo è ingiusto oltre che sbagliato. Mario Paciolla rappresenta come pochi tutte quelle persone meravigliose con cui sentiamo un certo tipo di connessione che viene dal cuore e dalla vita stessa, quel tipo di persone che non credono nella nazionalità italiana, colombiana, francese, ecuadoriana o qualunque essa sia, ma credono che la vita debba essere costruita prendendoci cura gli uni degli altri , riconoscendoci, essendo critici e autocritici e costruendo alternative concrete di fronte a ciò che sta accadendo.

Attraverso il suo sentire e il suo cuore Mario, il poeta, non ha mai voluto apparire o sostituirsi alle persone con cui lavorava, anzi, Mario voleva imparare, ascoltare e partecipare, e lo ha fatto.

L’omicidio di Mario ci dimostra cosa si nasconde dietro la perversità degli omicidi di leader sociali e nelle stragi di giovani. Mario non era uno straniero che ci è venuto ad aiutare, Mario è stato un compagno che si è innamorato delle persone che lottano per l’autonomia, che credono in questo territorio e che sono state costrette ad abitare nell’oblio. Mario è un abitante dell’oblio, è andato a vivere in quell’oblio pieno di memorie ed è proprio per averlo vissuto e averci creduto fino in fondo che lo hanno perseguitato, lo hanno emarginato e lo hanno ucciso. Mario è la nostra poesia, Mario è la nostra parola e Mario non è qualcuno che viene da fuori.

Non è uno qualsiasi che è stato ucciso, Mario è uno di noi, uno che fa parte di quel mondo che verrà dove le barriere che ci allontanano scompariranno. Questa morte fa molto male e fa male perché lo Stato normalmente non osa toccare persone straniere, ma Mario aveva smesso di essere straniero, era diventato territorio, era diventato autonomia, era diventato pace. Per questo lo hanno ucciso, perché questo è quello che stanno uccidendo in Colombia.

Intervista a cura Gianpaolo Contestabile e Simone Scaffidi per lamericalatina.net