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Erano soltanto boia e assassini, ma continuavano a chiamarli “Carità”

Tra residui di memorie locali e qualche sfumato ricordo personale, un tardivo tentativo di recupero di eventi e personaggi legati alla lotta di liberazione nel Vicentino e fatalmente destinati all’oblio. Per non dimenticare, se possibile.

di Gianni Sartori

E dopo non lo ghemo più visto…

Così concludeva mio padre il suo racconto sull’azione diretta a cui aveva assistito in quei giorni convulsi tra la provvisoria defenestrazione di Mussolini il 25luglio e l’8 settembre.

Si trovava con altri lavoratori in una stanza del Giornale di Vicenza* da cui una finestra dava direttamente su un lato della Questura. Cerchio era entrato con passo affrettato ripetendo due tre volte “permesso, permesso…” e dalla finestra aveva lanciato quella che per mio padre (all’epoca 18 anni appena compiuti) definiva una “bomba” (ma poteva anche trattarsi di una molotov) che esplose sulla facciata della questura. A questo punto Cerchio si era precipitato fuori dalla stanza (e stavolta senza nemmeno dover chiedere “permesso”, dato che tutti si scansarono prontamente) per scomparire.

Ma chi era Luigi (“Gino”) Cerchio? Di origini torinesi, capo-macchina al Giornale di Vicenza,mio padre lo ricordava come “tipografo al giornale e comunista convinto” senza però sapermi dire molto di più. Solo in anni successivi scoprivo che – insieme a Dal Prà (e secondo altre fonti anche a Gianni Marostegan – “Gimmi“ – in seguito commissario politico della Brigata Pasubiana)** aveva costituito i GAP a Vicenza. Più recentemente ho ritrovato anche il suo nome tra quelli dei prigionieri di“Villa Triste” a Padova (Palazzo Giusti). Nelle mani insanguinate degli aguzzìni della Banda Carità .

Della squadra della morte chiamata “Banda Carità” (dal nome del suo principale esponente, un delinquente comune toscano, già informatore della polizia e poi arruolato nella RSI) mi aveva parlato Febe Cavazzutti. Nata a Vicenza, da ragazza durante la guerra viveva a Firenze dove il padre, pastore valdese, protesse e nascose molti ebrei e altri perseguitati. Tra le sue amiche di allora le sorelle Luce e Annamaria Einstein, figlie di Robert Einstein, violentate e massacrate dai soldati del 104º reggimento Panzergrenadier della Wehrmacht a Rignano sull’Arno (3 agosto 1944).

Non essendo riusciti catturare il padre delle ragazze (ebreo, legato alla Resistenza e cugino di Einstein, un personaggio particolarmente inviso a Hitler) i nazisti si erano scatenati contro la moglie Cesarina Mazzetti (figlia di un altro pastore protestante, amico del padre di Febe) e le due figlie. A un anno di distanza dall’eccidio il superstite si sarebbe poi suicidato. La vicenda – anche se in maniera leggermente edulcorata – viene raccontata nel film “Il cielo cade” dei fratelli Frazzi. (tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Lorenza Mazzetti, una cugina sopravvissuta alla strage).

E Febe mi aveva appunto raccontato sia della brutalità dei sodati nazisti che di questa banda di criminali collaborazionisti.

Torniamo a Cerchio.

Il suo nome risulta tra i fondatori del del “Comitato interpartitico antifascista”, formatosi nel Vicentino già prima del 25 luglio. Con esponenti del Partito d’Azione (Dal Prà, Magagnato, Perin, Pranovi), del Partito Comunista Italiano (oltre a Cerchio, Lievore, Rossi, Giordano e Bruno Campagnolo) e del Partito socialista (Faccio, Segala, De Maria). Il Comitato aveva immediato richiesto al prefetto Pio Gloria la liberazione dei detenuti politici e la fine del coprifuoco.

Con l’occupazione di Vicenza da parte dei tedeschi (9-10-11 settembre 1943) e le prime uccisioni (due donne che aiutavano i soldati catturati dai tedeschi a fuggire) venne creato il Comitato (talvolta detto “Comando”) Militare Provinciale, diretto appunto da Gino Cerchio e Mario Dal Prà, affidato al comando del Col. D’Aiello, poi del Magg. Malfatti.

Quasi contemporaneamente si formava il Comitato Militare Provinciale Dalla Pozza (dal nome del responsabile Romeo Dalla Pozza, esponente comunista in rapporto, oltre che con Cerchio, con Domenico Marchioro, i fratelli Campagnolo, Leonida Zanchetta e Vittorio Dorio).

Nel maggio 1944, dalla collaborazione di Luigi Cerchio, Gaetano Bressan (“Nino”, capitano della Guardia di Frontiera) e Giacomo Prandina (cattolico di San Pietro in Gù), si costituì il “Battaglione Guastatori” della futura divisione “Vicenza” per colpire il sistema di comunicazioni e di trasporto nazifascista. Nelle “notti di fuoco” si colpivano contemporaneamente vari obiettivi in località lontane tra loro. Sia per disorientare i nazi-fascisti, sia per evitare, nei limiti del possibile, le rappresaglie. Inoltre i sabotaggi consentivano di lridurre, rendendoli parzialmente superflui, i bombardamenti alleati

Tra le “notti dei fuochi” più eclatanti, quella tra il 23 e il 24 luglio 1944 quando i guastatori causarono circa cinquanta interruzioni sulle linee ferroviarie, due sulla linea tranviaria Vicenza-Recoaro, la distruzione di due scambi a Cittadella e di un polverificio a Rossano Veneto. Circa un mese dopo, nella notte fra il 26 e 27 agosto, si contarono venti interruzioni su linee ferroviarie, l’attacco alla stazione di Altavilla rendendo inservibili scambi e binari, il sabotaggio di tre linee ad alta tensione e di due tratti della linea tranviaria, l’arresto per quattro giorni della linea Bassano-Trento.

Personalmente ho avuto modo di ascoltare dall’amico Giordano Montanaro, l’emozionante e dettagliato racconto di uno dei più determinanti sabotaggicompiuti dal partigiano “Lupo” (suo zio) sui binari della linea Vicenza-Treviso.

Nell’estate del 1944 Cerchio era diventato comandante dei GAP vicentini, ma alla fine dell’anno veniva arrestato insieme alla staffetta partigiana Alberta Caveggion (a cui dalla Commissione triveneta verrà conferito il grado di capitano). Rinchiuso a Palazzo Giusti, nelle grinfie del Carità e camerati, qui rimase fino alla Liberazione.

Venne poi nominato comandante di Brigata e capo di stato maggiore del Comando provinciale vicentino. Negli ultimi anni si era trasferito nella città natale e qui, a Torino, riprese il lavoro di tipografo con i figli.

Breve, essenziale, ma comunque significativa, toccante la sua testimonianza (“Esiste ancora la gioia”) sulla detenzione a Palazzo Giusti in “Ritorno a palazzo Giusti – Testimonianze dei prigionieri di Carità a Padova (1944-45)” a cura di Taina Dogo Baricolo, ed. La Nuova Italia, Quaderni del Ponte n. 18, Firenze 1972.

Non questo il luogo per una storia dettagliata dei misfatti infami, dei crimini contro l’umanità operati dal maggiore Mario Carità e dai suo complici (in buona parte avanzi di galera arruolati dai nazifascisti). A tal proposito torno a suggerire la lettura di “Ritorno a Palazzo Giusti”. Aggiungendo soltanto che il loro covo si trovava in contrada San Francesco al civico 55 (di fronte alla Chiesa dedicata al Santo di Assisi).

A conferma del loro ruolo di ascari collaborazionisti, si trovava nelle immediate vicinanze della sede della Gestapo, dove ora ha sede il CUAMM- Medici con l’Africa (una nemesi?).A Padova la squadraccia era giunta da Firenze. Dove, in quanto “Reparto dei Servizi Speciali” (poi ”Ufficio Polizia Investigativa”, di fatto alle dipendenze dei comandi Prdnungs-Polizei SS) si erano resi responsabili di esecuzioni extragiudiziali, torture, stupri, attentati.

Prima di abbandonare la Toscana, incalzati dall’avanzata alleata, si erano appropriati di circa 55 milioni di lire dalla sede della Banca d’Italia e avevano letteralmente saccheggiato il tesoro della Sinagoga (arredi religiosi – compresi i Libri Sacri della comunità israelita -quadri, mobili e preziosi delle famiglie ebree…) del valore di molti milioni. Per un breve periodo operarono anche nella provincia di Rovigo con una base a Bergantino. Me ne avevano parlato alcuni cittadini di Trecenta nel cui ospedale avevano portato un loro camerata rimasto ferito in circostanze non chiare. Pare anzi che venisse eliminato definitivamente durante il trasbordo, forse per occultare qualche appropriazione indebita da parte del Mario Carità. Nella città patavina assunse la denominazione di “Comando Supremo Pubblica Sicurezza e Servizio Segreto in Italia – Reparto Speciale Italiano” alle dirette dipendenze delle SS.

Come è noto ai vicentini meno giovani e meno smemorati, alcuni membri della banda Carità (Usai, Squilloni, Bacoccoli…) aprirono una succursale anche a Vicenza in via Fratelli Albanese (dopo aver chiesto, invano, di poter alloggiare in una villa palladiana dalle parti di Bertesina). Qui vennero portati, prima di essere inviati a Mauthausen (dove sarebbero deceduti per gli stenti e i maltrattamenti) i partigiani Prandina e i due Fraccon.

Da questa seconda (anzi terza e magari quarta contando quelle di Firenze, primain via Varchi e poi in via Bolognese) “Villa Triste” tentò invano la fuga il partigiano Dino Carta (membro della Brigata “Argiuna”e giovane promessa del calcio vicentino, così come un altro partigiano caduto, Gaetano Galla). Carta si era infiltrato, in base a direttive del CLN, nella Polizia ausiliaria della RSI. Per circa un anno era riuscito a trafugare armi (passandole poi ai partigiani della Brigata Argiuna) e informazioni preziose su perquisizioni, posti di blocco e rastrellamenti dei nazifascisti.

Scoperto e arrestato, durante l’interrogatorio riusciva a fuggire dopo essersi impossessato di una pistola (che però, stando alla versione di Alessandro Miotti, potrebbe essere stata lasciata volutamente sul tavolo, scarica, per indurlo a scappare e poterlo ammazzare senza problemi). Nella fuga riusciva ad allontanarsi per qualche centinaio di metri, ma venuta raggiunto e abbattuto daOsvaldo Foggi e Pietro Zatti (12 gennaio 1945).

Di Carta ho conosciuto una cugina (operaia, per qualche tempo collega di lavoro) che mi aveva raccontato qualche episodio personale (tra cui la passione calcistica). Inoltre, quando portavo gli alunni di qualche classe in visita al centro storico (musei, criptoportico romano..), ritornando in quel di San Pio X o altri quartieri periferici dove insegnavo, non mancavo mai di prendere una “scorciatoria” (in realtà allungavo, ma nessuno se n’era mai accorto) per una visita alla piccola lapide in sua memoria dove venne assassinato (posta su un basso muretto, quasi a livello del suolo).

E – dopo averne raccontato la vita e il sacrificio – facevo notare la dedica:

“I TUOI CONPAGNI” (con la “N” invece della “M”).

Aggiungendo che “se lo fate voi, segno con la penna blu”, ma ai partigiani che si erano sacrificati per la Libertà di tutti (“anche per la vostra ragazzi”) e che spesso avevano solo la terza o la quinta elementare “lo possiamo e dobbiamo perdonare”.

Meno probabile la diretta partecipazione di esponenti della Banda Carità ad un altro crimine efferato (in cui comunque si riconosce il medesimo “stile” della provocazione e infiltrazione), quello della strage di Pederiva di Grancona (8 giugno 1944, quindi prima dell’arrivo a Padova degli squadristi toscani, anche se non si può escludere che alcuni fossero già “in zona”, nel rodigino). Ovviamente soltanto un’ipotesi.

A suo tempo ne avevo parlato con Giuseppe Sartori (che non la escludeva del tutto), fratello di uno dei sette martiri. Il bestiale massacro venne compiuto su sette giovani che credevano di andare ad un incontro con emissari della Resistenza alla chiesetta di S. Antonio alle Acque in Val Liona (Colli Berici).  (vedi: https://bresciaanticapitalista.com/2023/03/29/un-ricordo-di-giuseppe-sartori-partigiano-e-custode-della-memoria/).

Con la Liberazione gli sgherri della “Carità” si aggregarono alle truppe tedesche in ritirata.

Da Vicenza, dove era stato trasferito, prese la via del Nord anche il tesoro della Sinagoga di Firenze. Esiste in merito una versione ufficiale. Ossia che venne recuperato dai partigiani vicentini dellaBrigata “Giovane Italia” nei pressi di Longa (vicino a Marostica) tra il il 27 e il 28 aprile. Da un convoglio uscito dalla villa Cà Bianca (sede di un reparto repubblichino, altra “Villa Triste”) era stato abbandonato un rimorchio. L’autista, presumibilmente un membro della Carità, era fuggito con il camion.

Un’altra versione (orale, forse “apocrifa”, comunque da verificare) attribuiva invece agli uomini del TAR (Ferruccio Manea) un ruolo preciso nel recupero e nella totale restituzione del prezioso bottino. Sarebbe alquanto drammatico, paradossale sapendo che nei primi giorni del dopoguerra il comandante partigiano dovette assistere impotente (non avendo nemmeno i soldi per le medicine) alla morte di un figliolo (vedi in “Nome di battaglia Tar” di Patrizia Greco, Cierre edizioni-Istrevi, 2010).***

Alcuni membri della banda, catturati nei mesi immediatamente successivi, vennero sottoposti a processo e condannati (alcuni a morte), ma alla fine usufruirono largamente della poco opportuna amnistia del 1946. Compresi i torturatori conclamati Castaldelli, Tecca e Trentanove che nel 1945 erano stati condannati alla fucilazione per “collaborazionismo con sequestro di persona ai danni di membri della resistenza che, dopo sevizie, erano stati consegnati per la deportazione in Germania”.

Invece Mario Carità (stando alla versione ufficiale) sarebbe stato ucciso il 19 maggio 1945 nei pressi di Castelrotto (Alpe di Siusi) da alcuni soldati statunitensi.

*nota 1: ex “La Vedetta fascista”. Il nuovo direttore, il poetaAntonio Barolini, venne chiamato a sostituire Arturo Novello, provvisoriamente arrestato. Dall’ottobre 1943, per tutta la durata della RSI, divenne Il popolo Vicentinosotto la direzione di Angelo Berenzi. Tra i direttori del primo dopoguerra, Renato Ghiotto (in questo periodo con la dicitura: ”Organo del Comitato vicentino di liberazione nazionale”) e dal 1950 Osvaldo Parise seguito da Andrea Tadiello (nonostante entrambi fossero stati redattori de La Vedetta fascista, un segno dei tempi evidentemente).

* *Nota 2: Ho conosciuto Gimmi nei suoi ultimi anni, dopo che era rientrato dal Sud America. Posso definirlo senza timore “un grande”, ingiustamente diffamato da una ricercatrice presumibilmente male informata. Oltre al Tar, Alberto Sartori (“Carlo”) e Visentini Ferrer (membro delle Brigate Internazionali), nel secolo scorso ho avuto modo di conoscere altri esponenti della Resistenza vicentina comunista. Tra cui Leonida Zanchetta (qui già citato in quanto esponente del Comitato Militare Provinciale). Falegname, tra gli anni settanta e ottanta fornì una sede a vari gruppi di sinistra al primo piano della sua abitazione in Via Fontanelle (nell’ordine: anarchici, DP, Collettivo Spartakus, Rifondazione…per un periodo fu anche l’abitazione di Valerio, un compagno di Pistoia immigrato nel vicentino negli anni ottanta). Forse una lapide non stonerebbe.

***Nota 3: http://www.anpi-vicenza.it/ferruccio-manea-nome-di-battaglia-tar/

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Comments ( 1 )

  • Gianni Sartori

    una precisazione e un “errata corrige”.

    1) Dimenticavo che il primo a parlarmi di Dino Carta (e a indicarmi la lapide in memoria) era stato mio padre che, raccontava, lo aveva conosciuto al solito Giornale di Vicenza dove “passava ogni tanto per incontrare….” me l’avrà anche detto, ma sinceramente non ricordo chi. Chissà, forse si trattava proprio di Cerchio…
    Mea culpa, anche in questo caso avrei dovuto approfondire a suo tempo.

    2) proprio oggi incontrando Giordano (alla Festa del Primo Maggio) ho verificato che il partigiano suo zio (Lino Montanaro) era “Tigre” non “Lupo” (che, con qualche anno in più, era il comandante).
    Inoltre il fatto citato non si svolse sulla linea Vicenza -Treviso (dove effettivamente Lupo portò a compimento un sabotaggio di vaste proporzioni), ma sul tratto tra Olmo e Tavernelle (verso Verona).
    A questo punto racconto com’era andata. “Tigre” stava completando l’operazione quando, ancora disteso per terra, si vide comparire davanti agli occhi un paio di stivali militari. Alzò il viso e – oltre a un fucile puntato – scorse un milite in divisa che però era stato anche suo compagno di scuola alle elementari.

    Questo il dialogo come mi era stato riportato.

    “Lino, ma cossa feto lì?”

    Risposta, disarmante, di Lino:
    “Cossa vuto che fassa? So drio far saltare i binari”.
    “Bé, mi no te go visto” rispose l’ex compagno di scuola e fece per andarsene. Ma prima si era voltato per un ultimo consiglio: “Ma sta tento che che xe i tedeschi in giro”.

    Bella storia, umanamente parlando, mi pare.

    Buon Primo Maggio
    GS