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Braccati, irregolari e invisibili: i migranti sfruttati nei ghetti

Il pianeta dei ghetti. Rifugio per i regolari senza accoglienza, sistema pensato per i caporali. Dal “gran Ghetto” di Rignano Garganico allo slum di San Ferdinando in Calabria dove sono morti cinque lavoratori, per ultimo Moussa Ba, senegalese di 29 anni. Questi non-luoghi sono diventati il paradigma del lavoro nell’agroindustria dei record

I ghetti non hanno un nome. Sorgono all’ombra delle città vicine – San Ferdinando a Reggio Calabria, Rignano Garganico, Borgo Mezzanone o Borgo Tressanti a Foggia – ma restano extraterritoriali. Spesso sono i sindaci a negargli quello delle proprie città. Alludono a un luogo, in realtà non si trovano sulle mappe. Si preferisce parlare di località «Pescia», quella dove sorgeva il ghetto dei bulgari dove nel 2017 ha perso la vita il bracciante Ivan Miecoganuchev. Voleva scaldarsi è morto in un incendio. Città invisibili che diventano rifugi dei banditi dalla legge, degli irregolari comunitari e extra-comunitari, degli stagionali agli ordini dei caporali, delle agro-mafie e dell’industria agroalimentare.

IN QUESTO MONDO è finito Moussa Ba, il ragazzo senegalese morto ieri divorato da un incendio. Aveva trovato un riparo nel ghetto di San Ferdinando, dopo un anno vissuto da braccato. Il suo permesso per motivi umanitari era scaduto nel marzo 2018, non era stato rinnovato perché non aveva presentato la documentazione a Pisa. Ciò lo ha portato a nascondersi, vivendo di espedienti, finte dichiarazioni di identità, poi un arresto e una condanna per spaccio hashish, infine il foglio di via dalla città toscana. In questa vita oltre i margini rischiano di finire anche gli immigrati regolari, ma senza accoglienza. Sono gli espulsi dai Cas che non possono entrare negli Sprar a causa del paradossale decreto Salvini sulla «sicurezza». Per questa ragione negli ultimi tempi sui 133 posti in progetti Sprar in Calabria solo otto immigrati hanno accettato la soluzione.

RIFUGIO E RACCOLTA delle vittime di leggi che producono clandestinità, il ghetto è il paradigma di un sistema la cui utilità è economica. Serve ad avvicinare manodopera a bassissimo prezzo ai latifondi e ad impedire il contatto con il produttore in una condizione di extra-legalità e subalternità. A svolgere il ruolo di mediatori ci pensano i caporali che possiedono i mezzi di trasporto per condurre i braccianti al lavoro nell’indifferenza delle comunità «civili», delle forze dell’ordine e della politica. Il reclutamento avviene anche attraverso WhatsApp, la piazza virtuale e portatile che sostituisce quelle dei paesi dove i braccianti un tempo si radunavano in attesa della chiamata del mattino.

LA LOGICA DEL GHETTO si mescola con quello dello slum e della favela. All’isolamento e alla segregazione razziale si aggiungono le caratteristiche della sovrappopolazione e dell’accesso inadeguato a luce, acqua, sanità. Possono essere grandi concentrazioni in non luoghi, fino a raggiungere migliaia di abitanti in costruzioni improvvisate in baraccopoli. In questo caso si forma un’economia autogestita informale dove si paga la corrente elettrica per ricaricare i cellulari, il pasto quotidiano, il trasporto, l’acqua o un panino, la spesa per le provviste, la riparazione delle biciclette, il sesso. Così funzionano i «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno, hanno scritto Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet in Ghetto Italia (Fandango), la prima inchiesta ad avere reso visibile il ghetto come paradigma del governo del lavoro agricolo migrante a Sud, e non solo. Ghetti più piccoli sorgono in casolari nelle campagne abbandonate, ovunque sia in corso la raccolta di olive e delle angurie, degli ortaggi e delle patate. E poi dell’oro rosso: il pomodoro. Possono anche allargarsi ai centri di accoglienza, più o meno chiusi. Gli smartphone arrivano ovunque. E continuano a reclutare.

IL SISTEMA È GRANDE e sfuggente. Lo racconta il recente sesto «Rapporto Agromafie» sui crimini agro-alimentari di Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agroalimentare. Si comprende allora che il paradigma del ghetto è il terminale territoriale di un business criminale da 24,5 miliardi di euro (una crescita di +12,4% nell’ultimo anno). Un’economia che non sembra conoscere stagnazione, né barriere nel commercio mondiale. Profitti incalcolabili al vertice, mentre alla base di questa piramide la paga media varia tra i 20 e i 30 euro al giorno. Il lavoro a cottimo è compensato con 3-4 euro per un cassone da 375 chili, ma si parla anche di un euro al giorno. Sono 30 mila le aziende che ricorrono all’intermediazione tramite caporale, il 25% del settore sostiene l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil, giunto nel 2018 alla quarta edizione. Un sistema fluido e incrollabile. Nonostante tutti gli annunci, anche quelli del governo in carica che aveva promesso con Salvini, l’otto agosto 2018, dopo la morte di 12 braccianti africani stipati in un pulmino schiacciato da un tir in provincia di Foggia, di «svuotare progressivamente i ghetti». Gli stessi che possono riformarsi altrove per il sistema vigente.

Roberto Ciccarelli

da il manifesto

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