Approfondimento a cura di Minuto Settantotto su il tema calcistico nelle politiche propagandistiche di Erdoğan
Il corso degli eventi nell’epoca moderna e contemporanea offre innumerevoli di esempi di come lo sport sia stato utilizzato come mezzo di propaganda per acquisire consenso e legittimazione da moltissimi sistemi autoritaristici – siano essi regimi totalitari di stampo tradizionale novecentesco o sistemi democratici, il cui funzionamento è distorto da perversi meccanismi di mercato.
Anche in Italia questo rapporto disfunzionale tra regime e sport è stato uno dei punti cardine della spasmodica ricerca del consenso messa in atto dal regime fascista, al pari delle imprese aeree di Italo Balbo o delle opere di D’Annunzio. Persino il Palazzo della Civiltà Italiana, a Roma sembra annoverare tra poeti, artisti, eroi, santi e navigatori, anche gli atleti.
Nel 2019, le immagini dell’esultanza della nazionale di calcio turca al Şükrü Saracoğlu di Istanbul subito dopo il gol allo scadere con l’Albania, infatti, hanno immediatamente riportato alla mente numerose scene avvenute in altre epoche e in altri luoghi, dove il calcio è stato utilizzato esattamente nella stessa modalità adottata dal governo turco. Appare naturale, ad esempio, il collegamento con quanto accaduto all’interno dello stadio Giovanni Berta di Firenze un pomeriggio del 1931. In quella famosa fotografia, Bruno Neri era l’unico in campo a rimanere immobile prima del calcio d’inizio, mentre i suoi compagni e avversari erano pronti a tendere il braccio verso i gerarchi fascisti sugli spalti. Neri sarebbe poi morto sugli Appennini combattendo tra le fila della resistenza, mentre la stessa scena avvenuta su quel campo da gioco si sarebbe ripetuta numerose volte, riproponendo i sorrisi e la complicità dei suoi compagni di squadra nei confronti di altri gerarchi sugli spalti.
Calcio e propaganda
Torniamo al 2019 e alla Turchia: siamo al 90simo di una partita di qualificazione agli Europei che si sarebbero dovuti svolgere nell’estate del 2020; il risultato è ancora fermo sullo 0 a 0 tra i padroni di casa della Turchia, e Albania.
Il difensore ospite, Ismajli, è messo male con il corpo su una palla spiovente che rimbalza alta al limite dell’area piccola; in un attimo il centrale albanese viene colto in controtempo dal rimbalzo della palla: è posizionato troppo in avanti rispetto alla traiettoria e colpisce in maniera goffa; quella che doveva essere una spazzata da oratorio diventa un pallone che si impenna verticalmente sulla perpendicolare della sua testa. Al che, il portiere delle aquile, Strakosha, decide di intervenire – leggendo male l’azione – travolgendo il suo difensore; per l’attaccante della squadra di casa, Tosun, è più facile mettere la palla in porta che sbagliarla. La Turchia va in vantaggio nei minuti di recupero.
Fino a qui nulla di eclatante, in fondo sarebbe semplicemente un finale rocambolesco di una partita di qualificazione come tante, se non fosse che i giocatori turchi – titolari e panchinaro – decidono di correre verso la telecamera più vicina e sfruttare quel momento di gioia e unione per dimostrare complicità e approvazione a “Sorgente di Pace” – l’operazione militare intrapresa qualche giorno prima dal Presidente Recep Tayyip Erdoğan, che ha per oggetto l’invasione della Siria del Nord. Le attività belliche sono state iniziate formalmente per eliminare dal territorio curdo gruppi come il PKK, considerati da Ankara terroristi. Di fatto si tratta di un’operazione di pulizia etnica nei confronti della comunità curda che popola quel territorio e negli anni è riuscita a creare un modello di società alternativo e sostenibile basato sui valori di uguaglianza tra sessi, etnie e religioni. In quella comunità autorganizzata si cerca anche di sostituire il modello produttivo capitalista con uno più equo e sostenibile.
La resistenza nel territorio del Rojava ha fin dai primi istanti mobilitato attivisti da tutto il mondo, mossi da spirito di solidarietà internazionalista verso la rivoluzione curda cercando di ribaltare la sproporzione di forze in campo. Le milizie del Kurdistan – YPG e YPJ – infatti, sono principalmente battaglioni di terra, non hanno alcun elemento per portare un attacco aereo e sono sprovviste delle contromisure necessarie per difendersi dai bombardamenti nemici. La strenua difesa del territorio portata avanti per buona parte della guerra è, infatti, capitolata quando Trump ha annunciato il disimpegno statunitense nella zona abbandonando, di fatto, i curdi al proprio destino e lasciandoli alla mercé del meglio equipaggiato esercito di aggressione turco.
Quella esultanza con il saluto militare – ripetuta qualche giorno dopo anche allo Stade de France per la sfida contro la nazionale francese – potrebbe semplicemente essere la chiosa finale di uno spettacolo tristemente noto a tutte le latitudini. Stiamo parlando di una manifestazione di “esasperato agonismo, ottuso maschilismo, rigida gerarchizzazione delle relazioni e razzismo sfrontatamente ostentato” (come scriveva Emilio Carnevali in una lettera aperta a Christian Abbiati su MicroMega nel 2008) intrisa della retorica comunicativa trasmessa a tutta la popolazione di un paese storicamente conservatore e legato ai suoi apparati militari come è la Turchia.
Tuttavia, sarebbe un’analisi piuttosto approssimativa ridurre il comportamento dei calciatori turchi ad un qualunquistico “il mondo del calcio è strutturalmente reazionario, figurati in Turchia”. Il sorriso della dozzina di ragazzi a mano tesa e palmo in giù sulla fronte è certamente il prodotto finale di una serie di fattori sociali e culturali che si intrecciano continuamente, ma è anche il risultato di una precisa strategia politica e comunicativa scientificamente messa in moto dal governo turco.
Quella tra Erdoğan e il calcio è una storia d’amore (e convenienze) che dura dall’inizio della sua carriera politica, in modo radicato tanto quanto lo è il rapporto tra la popolazione turca e la palla da gioco. Per capire meglio quanto scriveremo a breve, bisogna tenere a mente che i cosiddetti Almanya Türkleri – i quasi 3 milioni di tedeschi con origini o cittadinanza turca – hanno grande importanza politica nel regime di Erdoğan. Il modo migliore per rendere l’idea di come il sistema propagandistico turco si sia servito e si stia servendo del calcio è analizzare la carriera del calciatore tedesco di origini turche Mesut Özil e quella dell’ex Barcellona e Atletico Madrid Arda Turan, ora di nuovo al Galatasaray, club in cui si è formato ed è arrivato al grande calcio, dopo gli ultimi due anni passati al Başakşehir – squadra centrale nelle strategie di Erdoğan.
Il presidente della Turchia infatti è stato il testimone di nozze di entrambi i calciatori, e se da un lato Turan, nato e cresciuto ad Istanbul, è sempre stato il volto “pop” del regime turco potendosi permettere anche di minacciare giornalisti a lui sgraditi sull’aereo della Federazione, la storia tra Özil e Erdoğan appare più complessa. Il trequartista dal doppio passaporto, infatti, ha dovuto anche rinunciare alla nazionale tedesca dopo il polverone che avevano alzato le foto datate 2018 ritraenti lui e il suo collega turco-tedesco Ilkay Gündogan scattate insieme a Erdoğan durante un evento a Londra con tanto di magliette dei due firmate con dedica (quella del centrocampista del Manchester City recita addirittura “per il mio onorato Presidente, con tutto il rispetto”). Dopo l’incontro, al quale era presente anche il turco-tedesco già autore del gol all’Albania, Cenk Tosun, la foto andò in prima pagina sul periodico Bild e venne fortemente contestata dalla Federazione tedesca (“Si sono fatti sfruttare dalla propaganda di Stato”, commenterà il presidente della DFB Grindel), da Angela Merkel (“Una situazione che solleva interrogativi e invita a malintesi”) e dagli stessi tifosi tedeschi, mossi senza dubbio più da sentimenti razzisti anti turchi che da una critica politica all’appoggio a Erdoğan, che in poche ore raccolsero più di 30mila firme per chiedere l’allontanamento dei due dalla nazionale. Gündogan non fece nulla se non attendere passivamente che la vicenda cadesse nel dimenticatoio, mentre Özil decise di abbandonare la nazionale tedesca dopo essere diventato il capro espiatorio dell’eliminazione ai gironi in Russia 2018.
Quelli di Özil e Arda Turan sono i casi semplicemente più conosciuti e dibattuti per la lora importanza. Özil è campione del mondo 2014 e Turan in patria è una vera e propria superstar. Notevoli anche per i risvolti kitsch dal punto di vista filosofico – Kundera avrebbe sostenuto che la negazione della figura dispotica di Erdoğan si concretizza nella sua presenza a due eventi associati alla felicità e alla pace come i matrimoni – che meramente mediatico – oltre che da quello estetico: qualcuno potrebbe trovare eccessivo l’aver il presidente come testimone di nozze. I più conosciuti, dicevamo, ma assolutamente non gli unici. Özil e Turan (e Gündogan e Tosun, anche lui presente all’incontro con Erdogan a Londra) sono solamente parte degli ingranaggi del meccanismo propagandistico turco relativo al calcio, come i festeggiamenti della nazionale contro Albania e Francia sono stati semplicemente i suoi momenti topici, proprio quando il sedicente novello Ataturk aveva più bisogno di consenso e legittimazione.
Numerosi altri calciatori hanno dimostrato il loro appoggio all’operazione in Siria del Nord attraverso i loro canali social (in particolare Twitter), come Merih Demiral in forza alla Juventus e Hakan Çalhanoğlu del Milan, usando delle foto di bambini rassicurati da militari turchi. Mentre quello che all’epoca era un giovane talento in forze all’AS Roma, Cengiz Ünder, l’11 febbraio 2018 aveva già celebrato la sua prima doppietta in Serie A contro il Benevento con il saluto militare in favore di telecamera. Non contento, il giorno dopo su Twitter aveva accompagnato la foto di quella esultanza con un’emoji raffigurante due mani giunte in preghiera e tre bandiere turche, da molti intese come un riferimento ai tre militare turchi uccisi giorni prima ad Afrin durante un rastrellamento anti-curdo. La stessa foto accompagnata dalla medesima didascalia era stata apprezzata pubblicamente da Erdoğan e condivisa dal Ministro dello Sport turco, Osman Askin Bak. La stessa accoppiata era stata ripubblicata dal profilo Twitter del calciatore anche l’11 ottobre 2019, tre giorni dopo l’inizio dell’offensiva turca in Siria del Nord. Da segnalare che la reazione della Roma all’esultanza contro il Benevento si è concretizzata in una multa di lieve entità a Ünder che si è poi dimostrata evidentemente inefficace, data la recidività. La Juventus, invece, attraverso le parole del suo vicepresidente Pavel Nedved ha ritenuto che l’atteggiamento di Demiral non rappresentasse “nessuna violazione del codice etico” del club bianconero. Reazioni di tutt’altra natura rispetto a quella della squadra tedesca del St. Pauli, arrivata a rescindere il contratto con Cenk Şahin, a causa del suo appoggio alle politiche di Erdoğan, gesto ritenuto incompatibile con i valori rappresentati dal club di Amburgo.
Se Erdoğan può servirsi di un esercito di utili idioti (difficile aspettarsi una formazione storico-politica di buon livello da poco più che ventenni milionari e privilegiati) che con la loro visibilità e la loro influenza sono incredibilmente funzionali al suo governo, non è certamente da meno la sfera di influenza che il presidente turco ha sulla Federazione turca e sulle varie squadre della Süper Lig. Le interferenze di Erdoğan sulla massima istituzione calcistica turca hanno conosciuto il loro apice nel 2013, anno fondamentale per la storia recente della Turchia. Durante l’estate di quell’anno, infatti, Istanbul è stata teatro di violentissimi scontri di piazza, iniziati al Parco di Gezi e confluiti in Piazza Taksim, per protestare contro la distruzione di un parco cittadino e contro la successiva brutale repressione della polizia (otto morti, migliaia di feriti e più di duemila arresti). Nelle settimane seguenti, però, i manifestanti hanno abbracciato istanze politiche più generali, come la corruzione del governo e la repressione della polizia. In questo scenario a gestire le piazze erano le tifoserie organizzate delle tifoserie di Istanbul, con gruppi organizzati di Ultras di Fenerbahçe, Galatasaray e Beşiktaş che combattevano la polizia e l’esercito turco fianco a fianco (per chi vuole saperne di più consigliamo il documentario Istanbul United di Farid Eslam ed Olli Waldhauer). Una volta placatesi le proteste e con la situazione tornata alla normalità, Erdoğan è ripartito proprio dal calcio per assicurarsi la sottomissione e l’impossibilità di ribellione del popolo turco. Infatti, oltre all’introduzione della Passolig Kard (una sorta di Tessera del Tifoso ideata in un contesto più repressivo e distopico di quello italiano – per approfondimenti consigliamo la visione di AYAKTAKIMI di Naz Gündogdu) e all’incarcerazione di massa di tutti i leader che hanno guidato le proteste di Gezi Park (tanti, tantissimi erano anche ultras), sono seguite una serie di misure ancora più repressive nel 2016, quando Erdoğan si trovò alle prese un altro scossone: il (presunto) colpo di stato della notte del 15 luglio.
Durante la campagna per il referendum post-tentativo di golpe per ampliare i poteri di Erdoğan, Yıldırım Demirören, magnate e al tempo presidente della Federazione calcistica turca, si è esposto in prima persona per favorire la campagna referendaria di Erdoğan, arrivando ad allontanare dalla federazione Ilker Sahin, arbitro della sezione di Sinop, per essersi espresso pubblicamente in favore del voto al “no” al referendum, un voto evidentemente contro Erdoğan. Inutile sottolineare come Erdoğan abbia ricevuto pubblico endorsement al referendum anche da Arda Turan e da Burak Yılmaz, famoso attaccante turco ora al Lille.
Club Turchi
Durante i giorni dell’invasione del Rojava anche le più importanti società (di proprietà privata e che sulla carta niente dovrebbero avere a che fare con l’influenza governativa) di calcio del paese (Fenerbahçe, Galatasaray e Beşiktaş in primis) hanno condiviso sui propri social messaggi di supporto all’esercito turco. Ancora più palese è stato il supporto ricevuto dal Başakşehir, la squadra di Istanbul dove militava Arda Turan durante la fase cruciale dell’offensiva nel Nord della Siria e che ha cresciuto calcisticamente Cengiz Ünder (non è un caso che abbiamo già incontrato questi due personaggi).
La squadra, che prende il nome dal quartiere abitato dall’alta borghesia conservatrice di Istanbul, non ha né una tradizione, né tifosi. Il Başakşehir, infatti, esiste dal 1990 e ha partecipato per la prima volta al massimo campionato turco nel 2007; prima del 2014 aveva addirittura un’altra denominazione: Istanbul Büyükşehir Belediyespor. Inoltre, la media spettatori annuale non ha mai superato i 3500 tifosi a partita dal 2007 ad oggi (tra i quali il gruppo – apertamente nazionalista e islamista – ultras 1453, data della presa di Costantinopoli da parte del sultano Maometto II). Ciò nonostante è riuscita a competere per le prime posizioni del campionato turco più volte, arrivando seconda nelle stagioni 2016/17 e 2018/19, ottenendo l’accesso alle competizioni europee più prestigiose e vantando in squadra giocatori del calibro (o stipendi del calibro, dato che tutti ci sono arrivati da giocatori finiti) di Emmanuel Adebayor, Demba Ba, Arda Turan, Robinho, Gokhan Inler e Gael Clichy tra i tanti.
Numerose inchieste in Turchia e nel mondo – tra cui quella del Financial Times – hanno ricostruito come gli investimenti nella società, inclusa la realizzazione del nuovissimo stadio di casa da più di 17mila posti che rimangono inoccupati nella grande maggioranza dei casi, siano da giustificarsi più per l’importanza del Başakşehir a livello politico che sportivo. Il ruolo di presidente, nonostante il club sia di proprietà del Ministero dello Sport, spetta a Göksel Gümüşdağ, funzionario di alto rango dell’AKP, i cui colori ufficiali sono stati adottati anche dalla società di calcio; inoltre, il nuovissimo stadio si trova a pochi metri dalla sede di partito, e non stupisce che a segnare una tripletta nella partita inaugurale sia stato proprio un centravanti improvvisato dal nome di Recep Tayyip Erdoğan.
Opposizione a Erdoğan
Sebbene sia indubbiamente vero che lo sport – e il calcio in particolare a causa della sua popolarità – siano stati largamente utilizzati da Erdoğan per accrescere il consenso intorno a sé, è altrettanto indiscutibile che il calcio sia stato utilizzato per mostrare supporto e sostegno alla popolazione curda, oggetto della persecuzione dello stato turco.
Tra tutte le società di calcio turche che hanno appoggiato l’operato del governo, si distacca l’Amed SK, squadra che attualmente milita nella terza divisione ed è considerata la squadra della minoranza curda in Turchia. Prima dell’invasione di Afrin nel gennaio 2018, era addirittura un polo di aggregazione della comunità curda a tal punto che è ben presto diventata un catalizzatore della repressione, fino a rendere illegale l’organizzazione dei tifosi attorno ai rosso-verdi. In un’escalation di repressione successiva al cambio di nome da Diyarbakır (nome turco) ad Amedspor (nome curdo), per i tifosi rossoverdi era diventato impossibile seguire la squadra in casa e trasferta a causa di multe, minacce ed incarcerazioni per propaganda filo-terrorista (anche quando gli striscioni o i cori chiedevano la fine dell’uccisione di bambini curdi o si limitavano a celebrare l’identità curda). Per restituirvi un’idea della situazione, spesso la squadra curda durante le trasferte era costretta ad alloggiare fuori città per il rifiuto degli albergatori locali ad ospitarli.
La repressione interna, tuttavia, non ha tolto all’Amed il suo ruolo per la comunità, un simbolo che viene sfruttato principalmente in Germania, dove le collaborazioni con società e tifoserie più sensibili alla questione sono avvenute molto di frequente negli ultimi anni. Società come il già citato St Pauli, ma anche le organizzazioni di tifosi del Werder Brema, hanno invitato membri dell’Amed nei loro stadi, mettendo in piedi campagne di sensibilizzazione e raccolte fondi in supporto al popolo curdo, utilizzando il denominatore comune dello sport per avvicinare persone che altrimenti sarebbe stato impossibile raggiungere.
Deniz Naki, ex centravanti di St Pauli e Amed SK, è ben presto diventato la voce dell’opposizione a Erdoğan nel mondo del calcio. Il centravanti di passaporto tedesco ma origine curda ha, infatti, denunciato a più riprese la brutalità del governo turco nei confronti della minoranza curda, a cui ha spesso prestato la propria voce attraverso i propri social media e con continue interviste e prese di posizione ben decise, che gli sono costate la carriera sportiva.
Nel 2016, Naki utilizzò i suoi canali di comunicazione per dedicare la vittoria contro il Bursaspor alle popolazioni del Kurdistan turco – tra le quali proprio Diyarbakir, la città dell’Ademspor – alla quali Erdoğan aveva imposto diverse misure repressive, tra i quali un coprifuoco particolarmente duro che nelle intenzioni avrebbe dovuto scoraggiare le presunte attività terroristiche nella regione. Le comunicazioni social di Deniz furono seguite da una squalifica di 12 giornate (comprensive di multa al calciatore) e da un blitz delle autorità nelle sede della squadra, ormai diventata nella paranoia collettiva del governo turco la cellula sportiva del PKK.
Nel 2018, mentre l’offensiva Turca diventava una vera e propria invasione militare con truppe di terra nella città di Afrin, Naki venne addirittura squalificato a vita per aver rilanciato, sempre sui suoi canali social, l’invito a partecipare ad una manifestazione in solidarietà al popolo curdo organizzata nella città di Colonia. Sempre nello stesso anno, a Gennaio, è stata addirittura la sua vita ad essere messa a rischio per ragioni politiche. Infatti, Naki è sopravvissuto incredibilmente ad un attentato mentre stava guidando di notte in un’autostrada in Germania e un’automobile si è affiancata alla sua sparando diversi colpi contro l’autovettura, che fortunatamente non hanno colpito il calciatore.
A Dicembre 2020, Naki è stato arrestato con l’accusa di essere a capo di una gang coinvolta nel traffico di droga ed estorsione attiva nella città tedesca di Aachen. Non risultano, al momento, prove di una connessione con organizzazioni coinvolte con l’attività politica in Kurdistan, come sostenuto dai suoi detrattori.
Gülen e l’opposizione da destra
Nelle ore successive all’attacco turco alla zona del Rojava, nelle sezioni sportive dei più importanti quotidiani italiani sono apparsi con grande frequenza i nomi di Hakan Şükür e Enes Kanter, rispettivamente uno dei più importanti calciatori della storia recente del calcio turco e uno dei più forti cestisti NBA in attività del suo paese.
In seguito all’aggressione turca, infatti, nessuno dei due si è fatto sfuggire l’occasione di commentare gli eventi, sottolineando l’aggressività della decisione presa da Erdoğan e come essa esponesse la popolazione curda residente nella regione a un vero e proprio rischio di pulizia etnica, data la sproporzione delle forze militari in azione.
Queste prese di posizione sono state interpretate come esternazioni in solidarietà alle popolazioni curde e celebrate con l’enfasi necessaria per sottolineare una circostanza praticamente unica nel panorama sportivo internazionale di primo livello. Tuttavia, nulla di tutto ciò rappresenta un momento di rottura, dato che è perfettamente in linea con la comunicazione politica di Kanter e Sukur a partire almeno dal tentativo di golpe del 2015, quando Erdoğan additò Fethullah Gülen come il responsabile del tentativo di sovvertire l’ordine politico e istituzionale del paese turco, di cui i due atleti sono accaniti sostenitori.
Fino a quel momento, infatti, Gülen era praticamente sconosciuto alla comunità internazionale, nonostante avesse alle spalle quasi 30 anni di attività politica tra Asia, Europa e Nord America e avesse creato un sistema di ‘deep state’ parallelo a quello nazionale. Nel periodo successivo alla caduta del muro di Berlino, infatti, Gülen aveva intuito che c’era un vuoto politico nella parte di mondo precedentemente influenzata dall’Unione Sovietica – che poteva facilmente essere riempita e che concetti come la Turkishness (l’identità turca) potevano affermarsi come principio guida in molte regioni che si erano improvvisamente trovate senza un punto di riferimento nella geopolitica internazionale. Non stupisce che in origine Gülen fosse un imam di formazione Sufi ma anche un imprenditore di ispirazione calvinista, ispirato dall’intellettuale Said Nursi e mosso da un fervente e costante anticomunismo. Su questi principi, ha basato le sue attività nei decenni successivi.
Già dai primissimi mesi del 1990 in Georgia e Uzbeskitan cominciarono a spuntare con incredibile frequenza business school di eccellenza, finanziate da questo sconosciuto imprenditore proveniente dall’Anatolia orientale. In seguito la diffusione di questi istituti si espanse in Europa occidentale (principalmente Francia, Germania e Belgio) e soprattutto negli Stati Uniti. I territori scelti per affermare la presenza Gulenista nella prima fase di espansione erano quei paesi – Kazakhstan, Kyrgyzstan, Azerbaijan, Tajikistan Georgia e Uzbekistan (prima che i rapporti con la Turchia precipitassero nel 2001) – con grandi possibilità commerciali derivanti dal vuoto lasciato dalle imprese sovietiche. In Europa il successo di Gülen è stato altrettanto rilevante, soprattutto nella parte centrale – Germania, Francia e Belgio – dove è riuscito a penentrare con degli istituti atti a promuovere lo sviluppo delle relazioni commerciali tra imprenditori turchi e quelli stabiliti nei paesi di destinazione.
Sebbene il successo ottenuto in queste due regioni sia considerevole, sono gli Stati Uniti – paese nel quale Gülen si autoesiliò nel 1999 – il paese dove i Gulenisti hanno ottenuto autorevolezza internazionale; al momento, infatti, esistono circa 140 istituti di vario livello, inclusi think tank e gruppi di pressione politica influenti a livello politico.
In questi istituti, lungi dall’essere luoghi di indottrinamento islamico, la didattica ruota attorno al progresso scientifico e tecnologico; gli insegnamenti in queste scuole sono permeati della dottrina islamica senza pur citarla apertamente. Per questa ragione nè Gülen nè le sue organizzazioni hanno preso parte ai dibattiti internazionali sulla dottrina islamica che ciclicamente sone emersi; anzi al contrario, queste organizzazioni cercano di collaborare con organizzazioni Ebraiche o Cristiane. Tuttavia, questi istituti hanno attirato in più di un’occasione l’attenzione della CIA, che spesso ha indagato sulle attività di questo apparato, insospettito dalla mancanza di trasparenza, senza tuttavia arrivare a nessuna incriminazione di alcun tipo.
Per evitare il conflitto aperto con le istituzioni in patria, queste scuole di eccellenza promuovono la loro immagine descrivendosi come un punto di riferimento culturale e linguistico per turchi all’estero. In questo modo Gülen e le sue scuole hanno mantenuto un alto profilo agli occhi dei diplomatici all’estero, che ne riportavano le attività in patria, contribuendo a formarne l’ottima reputazione di cui hanno goduto fino al tentativo di colpo di stato. La popolarità di queste scuole, oltre alla qualità degli insegnamenti – universalmente riconosciuta – ha contribuito ad accrescere la fama e la reputazione di Gülen all’estero, tanto da crescere e svilupparsi parallelamente alle istituzioni finanziate dallo stato turco, con le quali adesso competono apertamente.
Le business school di Gülen hanno formato la classe dirigenziale dei paesi in cui operano, facendo si che si formasse un “esercito” di lavoratori altamente qualificati (manager, funzionari dell’esercito, politici, chirurghi e via dicendo) e a lui fedeli, formando un vero e proprio esercito di colletti bianchi gulenisti inserito in tutti gli ambiti della vita politica ed economica del paese.
Questa attività ha pagato, accrescendo enormemente la posizione di Gülen all’interno dei confini nazionali. Questo bacino immenso di voti (si stima che abbia 3 milioni di seguaci in tutto il mondo) è stato in un primo momento funzionale all’AKP – vittorioso anche grazie all’influenza del chierico – per poi diventare troppo grande e influente per essere gestito. Secondo analisti e storici contemporanei, infatti, il tentativo di golpe del 2015 è stato il momento del regolamento dei conti tra i due apparati statali.
Kanter e Sukur, ben lungi dall’avere a cuore la causa curda, hanno costantemente mantenuto la stessa casacca, dimostrando fedeltà a Gülen, facendo arrivare il proprio supporto ogni volta che è stato necessario, subito dopo il golpe o quando Erdoğan poteva essere attaccato per il suo operato in politica internazionale in seguito all’invasione del Rojava.
Conclusioni
Limitare un fenomeno complesso come è il calcio meramente a questioni sportive è un errore che spesso compiono i media generalisti o gli osservatori superficiali. Innumerevoli sono gli intrecci che collegano questa disciplina al sovraordinato sistema di leggi, convenzioni e attività istituzionali che regolano il funzionamento della società moderne. Queste complessità non sono proprie dell’epoca in cui viviamo, ma hanno radici formate dagli albori del ventesimo secolo e sviluppate nel corso degli ultimi decenni.
Erdoğan non si è lasciato di certo sfuggire quest’arma per affermare il proprio consenso personale sul territorio turco, arrivando a mettere in piedi un vero e proprio sistema di propaganda finalizzato a controllare l’intero sistema calcistico in patria. L’apparato a disposizione è stato, in seguito, utilizzato in tutta la sua potenza per cercare consenso nel momento in cui la pressione internazionale era ai livelli massima durante le ripetute operazioni militari contro la comunità curda. Quest’operazione ha richiesto l’utilizzo di tutte le armi a disposizione: l’appoggio – diretto o indiretto – delle società di calcio e dei calciatori simbolo del paese, ma anche la repressione di voci fuori dal coro come quella di Naki o dei tifosi dissidenti, come quelli dell’Ademspor, utilizzando anche strumenti di controllo più classici del mondo del tifo organizzato come sistemi di schedatura e restrizioni all’accesso agli impianti sportivi.
Strumenti analoghi, sebbene di segno opposto, sono quelli messi in piedi da Gülen e dei suoi seguaci, che hanno approfittato della questione curda per attaccare mediaticamente il presidente turco. La voce – solo apparentemente – fuori dal coro di Hakan Sukur e Kanter è stata travisata da buona parte dell’opinione pubblica, che ha erroneamente individuato nelle loro forme di comunicazione sostegno al popolo curdo. I tweet dei due atleti, come visto, sono soltanto la parte più visibile di una strategia internazionale stabilita da oltre tre decadi e che non ha niente a che vedere con il Rojava.