Capitalismo globale e mercificazione dei non-umani, pandemie e umani sacrificabili
- maggio 13, 2020
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Il salto di specie da cui nasce il Covid19 è facilitato dagli allevamenti intensivi di carne. Espressione di una mentalità che tende alla sopraffazione del più debole, che si esprime nello sfruttamento degli animali, della natura e dell’uomo
Sulla spiaggia di Camogli, un capriolo corre da solo in riva al mare, libero e felice, tuffandosi di tanto in tanto tra le onde. Queste immagini, ampiamente condivise in rete sotto forma di video, probabilmente hanno attratto, emozionato, forse perfino commosso chi ha potuto vederle: per la loro poeticità, per il senso di gioiosa libertà che evocavano, a noi, tristi prigioniere/i della pandemia.
Ammirazione, incanto, empatia del tutto effimeri poiché, poco dopo, qualche insensato esemplare di homo sapiens gli si è avvicinato troppo, spaventandolo a morte, in senso letterale. Il capriolo è fuggito e a giusta ragione: viveva abitualmente in un’area di boschi e radure ove la caccia ai suoi simili nonché ai daini è consentita ed è abituale. Perciò, terrorizzata, la povera creatura ha tentato di oltrepassare un cancello, come sembra: ne è stata infilzata sicché, dopo un’ora di atroce sofferenza, è stata pietosamente finita da un veterinario dell’Enpa.
Questa vicenda crudele, accaduta il 14 aprile scorso, potrebbe essere assunta quale metafora della pandemia attuale, se è vero che quest’ultima dipende anche dalla consueta attitudine degli umani a reificare i non–umani, a tal punto che essi non vengono affatto percepiti e concepiti quali sono, cioè esseri senzienti, sensibili, singolari, perlopiù dotati di elevate capacità di coscienza e relazione.
La loro reificazione è divenuta mercificazione massiva con gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati e seriali, propri delle società industriali–capitalistiche: strutture concentrazionarie che, favorendo quel che viene detto “salto di specie”, rappresentano una delle con–cause che hanno provocato la pandemia di Covid–19, al pari di non poche altre precedenti. Basta citare la Sars (“Sindrome respiratoria acuta grave”), che si diffuse tra il 2002 e il 2003. Anch’essa provocata da un coronavirus, si trasmise dai pipistrelli (per meglio dire, i chirotteri) − portatori sani, del tutto asintomatici− ad altri animali mammiferi, poi a quelli umani.
A sua volta, tutto ciò è dialetticamente connesso con i processi rapidi e sempre più dilaganti di deforestazione, urbanizzazione, industrializzazione, anche dell’agricoltura, che sottraggono progressive porzioni di habitat agli animali “selvatici”. I quali, se sopravvivono, non possono far altro che approssimarsi agli insediamenti umani e quindi anche agli animali detti “da allevamento”: tra i più vulnerabili poiché immunologicamente depressi, a causa delle condizioni e del trattamento estremi cui sono sottoposti (si consideri, fra l’altro, l’abituale somministrazione di dosi abnormi di antibiotici).
In un volume di vent’anni fa, ma tragicamente attuale (A. Rivera, a cura di, Homo sapiens e mucca pazza , saggi di L. Battaglia, M. Kilani, R. Marchesini, A. Rivera, ediz. Dedalo, 2000), scrivevo che chi acquista, per esempio, “carne di vitello ignora o vuole ignorare che la chiarezza di quella chair divenuta viande è ottenuta costringendo il cucciolo di bovino a vivere la sua breve vita nell’immobilità assoluta, imbottito di ogni genere di farmaci che ne invecchiano rapidamente gli organi, imprigionato in uno spazio angusto e buio, infine ucciso senza che mai abbia visto il giorno e la notte, il sole e la pioggia, i prati e i ruscelli”.
Certo, le ragioni della propensione a cibarsi di carne altrui vanno ricercate in primo luogo sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica e agro–alimentare. Ma non va trascurata l’importanza della ragione simbolica: nel 1992, Jacques Derrida in Points de suspension. Entretiens aveva delineato la figura di una soggettività “carneo–fallogocentrica”, propria del soggetto maschile, detentore del logos e, per l’appunto, carnivoro.
Tutto ciò per non dire della crudele manipolazione di viventi che si compie con gli esperimenti di transgenesi, di clonazione e, più in generale, con le biotecnologie animali. Con gli animali–laboratorio, il ciclo maledetto che ho tratteggiato raggiunge il culmine. A tal punto che non è troppo azzardata l’analogia con le pratiche naziste di riduzione di corpi umani, de–umanizzati, a manichini, strumenti, cavie per la realizzazione di atroci esperimenti “scientifici”.
E tuttavia, in piena crisi pandemica, allorché la consapevolezza della centralità del tema del nostro rapporto perverso con gli ecosistemi e con i non–umani avrebbe dovuto essere largamente condivisa, tanto più da specialisti e dotti, qualcuno di loro si lasciava andare ad affermazioni sconcertanti. Mi riferisco al virologo Roberto Burioni − lo stesso che il 2 febbraio precedente aveva sentenziato che l’Italia non correva alcun rischio, poiché “il virus non circola”− il quale, in una trasmissione televisiva del 5 aprile scorso, si augurava che anche “i nostri amici a quattro zampe” possano contrarre il Covid–19 perché questo “ci permetterà di avere un notevole vantaggio nella sperimentazione dei vaccini”. Eppure è ben noto che il modello degli esperimenti su non–umani, oltre che eticamente inaccettabile, è ormai così sorpassato, costoso, lento, da rendere assai improbabile la realizzazione di farmaci e vaccini davvero efficaci.
Non si creda che tutto ciò riguardi solo il destino dei non–umani. Un’ideologia e delle pratiche analoghe guidano la sacrificabilità selettiva degli umani: i più vulnerabili, indigenti, precari, stigmatizzati o alterizzati, come abbiamo potuto constatare anche nel corso dell’attuale pandemia. Si pensi ai decessi di massa, prevedibili, in non pochi casi colposi, che si sono registrati nelle residenze per anziani. E si consideri la condizione dei detenuti nelle carceri o nelle prigioni extra ordinem che sono i Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), nonché quella dei senzatetto, italiani e stranieri, fra questi ultimi perfino richiedenti–asilo, ma anche dei braccianti immigrati rimasti intrappolati nei ghetti, a rischio di morte per inedia… Per non dire delle stragi nel Mediterraneo, che neppure la pandemia ha arrestato; essa, anzi, è stata assunta a pretesto per la chiusura dei porti e i respingimenti verso l’inferno libico.
Per intaccarlo, almeno, quest’ordine perverso, ma anche per impedire che lo stato di eccezione si tramuti in forma ordinaria di governo, dovremmo radicalizzare, lucidamente e coerentemente, la critica del capitalismo globale, sempre più predatorio e mortifero; e contrastare politicamente il progetto neoliberale di espansione della logica del mercato e dello sfruttamento ad ogni forma di vita e ad ogni sfera dell’esistenza.
Annamaria Rivera
Versione modificata e ampliata dell’articolo comparso sul “manifesto” dell’8 maggio 2020, col titolo “In gioco il destino di umani e non-umani”.