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Se il CARA è meglio della chiusura del CARA: la spirale degenerativa della politica del meno peggio

Lo sgombero a sorpresa del CARA di Castelnuovo di Porto ha prodotto sconcerto per la totale assenza di preavviso e concertazione, per le modalità autoritarie e naziste con cui si è svolto prescindendo da ogni diritto di restare. Il prelevamento e la “ricollocazione forzata” sorda alle volontà e alle esigenze di chi la subisce, sono senza dubbio sufficienti a poter parlare di “deportazione”, dunque concordo anch’io con l’attribuzione di questa specifica denominazione, ma…

Si, c’è un “ma”, anche se dopo aver reso un tormentone mediatico lo scherno al “non sono razzista ma”, ad oggi pare si debba temere a pronunciarlo, come fosse indizio di cittadinanza pavida o intransigenza fluida, prova provata di contraddizione interna o tradimento.

Siamo a questo perchè con quella ed altre analoghe mosse social ad alto share e basso costo intellettuale, oltre che mancare clamorosamente se pur prevedibilmente -come in altri casi- lo scopo di zittire con uno slogan quelli che parlando per luoghi comuni di crisi o emergenza migratoria, finivano col venir soggiogati dalla propaganda salviniana (che ha costruito consenso proprio insistendo su un’autonarrazione in cui tutto era mosso dall’esasperazione del “quando è troppo è troppo” e non certo da razzismo), ci si è ridotti a spingere anche da sinistra verso l’imbuto dispotico e omologate della scelta doppia con conto alla rovescia, pro o contro senza possibilità di argomentare, vale a dire verso una dialettica politica di “regime”, e in quello attuale, Salvini è il leader buono e giusto!

Le argomentazioni del mio “ma” si sviluppano innanzitutto ricordando che le “deportazioni”, laddove la parola è utilizzata in maniera esplicita come analogia o citazione, si intendono per o da “campi di concentramento”, e che dunque, l’utilizzo stesso di questo termine esatto e non altri, dovrebbe sottendere l’assunzione della prospettiva che in qualche luogo, in maniera silente, esista già un campo di concentramento.

Il termine “deportazione” è stato “rievocato” e utilizzato dagli attivisti per i diritti delle persone migranti già a partire da diversi anni fa, in particolar modo in relazione ai cosiddetti “dublinati”, cioè i “deportati” dai paesi europei in Italia, primo paese d’ingresso e identificazione. Dunque intanto, in questa prospettiva, il “campo di concentramento” era l’Italia intera rispetto all’Europa, e Lampedusa rispetto all’Italia, tanto che l’antagonismo ai Trattati di Dublino non é certo un “ritrovato” salviniano della propaganda antieuropeista, ma è stato l’impegno urgente e costante nel tempo di chi, europeista o no, si è battuto per la libertà di movimento globale e per un abbattimento delle frontiere interne europee che vigesse anche per le persone “migranti”, di fatto invece discriminate ed escluse dai beneficiari del diritto di libera circolazione che comunque, al di là dell’ordinamento comunitario, vale la pena ricordare, è sancito da fonti superiori come universale.

“Deportazione” era poi il termine utilizzato per dare un nome congruo ai rastrellamenti che periodicamente prelevavano i migranti dai territori per “tradurli” -come si suol dire per il trasporto dei detenuti- nei CIE, CARA, CPT, Hot Spot; luoghi ambigui di “contenimento” e “concentramento” di persone “migranti”, luoghi che spesso hanno assunto una funzione “detentiva” pur non figurando nell’ordinamento penitenziario, e che proprio per il loro “non figurare” non prevedevano neanche la garanzia di quei diritti essenziali di cui “godono” anche, giustamente, i carcerati. Ma soprattutto, luoghi con funzioni detentive per individui che non avevano commesso reato, ad eccezione di quello “inventato” da taluni legislatori, di “immigrazione clandestina”, grazie al quale la “clandestinità” è diventata nell’immaginario inconsapevole e sommario dei più, una forma di aggressione diretta al diritto di terzi, come lo stupro, o il furto!

Veri e propri “limbo”, privi di qualsivoglia trasparenza operativa e normativa, penitenziari ma senza condanne né “fine pena”, senza celle singole o rispettabilità minima delle condizioni igeniche. Senza diritto di effettuare telefonate o ricevere visite, deprivati della possibilità di sapere come e quando venirne fuori, se domani o tra quindici mesi, accompagnato al cancello, trasferito, o rimpatriato. Luoghi di attesa ansiogena di esiti sconosciuti, carnai ricolmi di disperazione e annullamento, indignitosi e sporchi, vergognosi e criminali.

La società civile se n’è accorta solo quando di tanto in tanto il combattimento pedissequo degli attivisti ha portato alla luce parentesi ignobili: il suicidio di un essere umano esasperato, la fotografia di una latrina senza acqua né porta, il video di uomini nudi al centro di un cortile soggetti allo spruzzo degli idranti. Sostennero che non fosse nulla più di una bella doccia, e la società civile dimenticò in fretta. La Corte Europea ci ha condannato per violazione dei diritti umani, ma la società civile italiana è un po’ distratta e di memoria corta, la “storia” ormai ha i parametri di quella facebook, ventiquattro ore e ricomincia.

L’utilizzo del termine “deportazione” ci è stato sempre contestato, come fosse soltanto il solito stucchevole lirismo dei classici intellettualodi di sinistra in vena di scrivere poesie e fare dell’ordinario l’ennesimo caso letterario, predilezione oziosa di chi non ha preoccupazioni vere, e s’intrattiene.

Poi oggi, a distanza di cinque, dieci, quindici anni, quando tra l’indifferenza generale di chi era impegnato a mettere insieme il pranzo con la cena, quella di chi zappava solo il suo orticello, e quella di chi di urgenze ne assumeva altre -come pure è giusto- si è tornati al dilagare di vere e proprie forme di odio razziale già sfociate in aggressioni e omicidi, oggi che l’intimidazione è la più consueta modalità oratoria della propaganda dei più alti vertici dello Stato, oggi che dei migranti si vuol negare l’iscrizione anagrafica così da depennarli dalla lista dei beneficiari di qualsivoglia servizio nazionale -che sia scolastico o sanitario-, oggi che l’olocausto nel mediterraneo è già ventennale, e che in Libia con mandato italiano si è potuto riallestire il mercato degli schiavi con tutto il tragico backstage di aste, catene al collo, rapimenti, estorsioni e torture inimmaginabili, oggi, nonostante i cadaveri non riemergano più a Lampedusa ma a Zarzis, finalmente la società civile italiana si sveglia e si indigna, avalla il termine “deportazione” e lo twitta, sollevandosi contro la chiusura del CARA di Castelnuovo, o di Mineo (!).

Ora per cercare di fare chiarezza è bene ritornare al fatto che nella prospettiva degli attivisti per i diritti delle persone migranti, e anche -mi permetto di dire- dei migranti stessi, questi luogi, i CARA, fino all’epoca pre-salviniana, erano quei luoghi di concentramento forzato di individui la cui presenza è stata illegalizzata, confinata, denigrata, violata nei diritti essenziali, gravemente condizionata nel quotidiano, e pericolosamente vincolata rispetto al futuro. I luoghi descritti qualche paragrafo sopra, non certo il Baobab, il cui sgombero è stato tra i primi a far clamore, con i migranti buttati in mezzo la strada ad inverare e incrementare la propaganda di come siano maleodoranti e sporchi, una lesione del decoro urbano e una continuata esibizione di degrado umano.

Ma il Baobab non era certo un luogo di concentramento forzato bensì di aggregazione spontanea, dunque profondamente differente nella sostanza anche se forse, agli occhi di qualche osservatore saltuario, distratto e sufficientemente indottrinato, non sembra poi così dissimile nella forma laddove ciò che ha visto, o gli si è fatto vedere, è stato in entrambi i casi l’assembramento di immigrati di colore accampati alla meno peggio.

Se dunque tutta la sinistra ha difeso il Baobab, e se tutta la sinistra ha il disperato bisogno di riaffermare un qualche peso politico -sicuramente anche in vista della prossima tornata elettorale-, se l’azione del Governo pseudo Conte è sempre più meritevole di opposizione e disgusto, come Salvini ha usato i migranti per affermarsi (anche se ora rischierebbe a causa di questi stessi perfino il processo e la galera se non fosse scontata l’immunità parlamentare), la sinistra li usa a sua volta per sottrarre all’avversario politico quel consenso che è bisognosa di riacquistare, e come Minniti ha di fatto esternalizzato la frontiera in Libia, la sinistra antisalviniana non trova niente di meglio per cui scendere in campo, che difendere i CARA! Ben dimostrando che i migranti li hanno a cuore ben poco un po’ tutti quanti, e che oggi la partita in cui si gioca la loro sorte, può essere anche quella del lancio di nuovi talenti e futuri campioni, del resto morto un “capitano” se ne fa un altro.

A questo punto, per schivare illazioni infamanti, come di consueto ci si appella alla più tradizionale e radicata delle strategie politiche italiane, naturale conseguenza di quel meccanismo di regime che chiamiamo “bipolarismo” e che è invece il Giano bifronte per cui la libertà di scelta, di pensiero e di azione è circoscritta alla scelta doppia con conto alla rovescia di cui sopra, con un tempo sempre più breve, e una coppia di opzioni sempre peggiori.

La scelta obbligata di una delle due opzioni concesse è ciò che giustifica l’adesione ad un “meno peggio” cui si vorrebbe conferire una sorta di spessore intellettuale di stampo nicodemitico che invece non possiede affatto, e che rivela la totale apparenza e inconzistenza di una libertà di scelta che dissimula invece la più spegevole”sudditanza” a disegni politici calati dall’alto come nei peggiori sviluppi delle derive autoritarie. Un irenismo funzionale solo all’imperituro perpetuarsi dello status quo ante.

Oggi la scelta è tra il mantenimento dei CARA e la chiusura dei CARA, non c’è spazio o diritto di prospettare una terza via, ma modo di argomentare che i CARA sono meno peggio della chiusura dei CARA, e che quindi vanno difesi.

Ieri la scelta era tra i campi in Libia e gli annegamenti nel Mediterraneo, anche allora una terza via era interdetta, e i campi di concentramento in Libia erano meno peggio degli annegamenti nel Mediterraneo, ragion per cui sono stati difesi.

L’altro ieri la scelta era tra integrazione spontanea e “accoglienza”, così chiamata da quel Giano bifronte che sono gli Stati e i Governi che hanno anche sostituito l’espressione genuina e veritiera di “integrazione spontanea” con quella menzoniera e funzionale di “abbandono a se stessi e anarchia”, così la scelta diventava tra accoglienza e abbandono, e si è difesa l’accoglienza che era invece un sistema degenere di appropriazione indebita di esistenze altrui e speculazione.

E se dopo chiusure e sgomberi la scelta a cui ci obbligheranno domani fosse tra farli morire di stenti e linciaggi per strada o dargli una morte dignitosa e indolore? Si sceglierebbe la seconda convinti di aver fatto il proprio meglio?

Dovremmo rinnegare con forza la politica del meno peggio, senza illuderci che scegliere oggi i CARA possa essere una mossa difensiva e di autotutela utile a scongiurare la scelta di domani. Il mantenimento dei CARA o la loro chiusura in prospettiva salviniana sono scelte che si equivalgono, e non ce n’è una “migliore”. Sono identiche essendo figlie di quella stessa genia plurima e poliforme di orrori generati dal “sistema dei visti”, forma contemporanea dell’apartheid non ancora messa a fuoco da quella stessa società civile di cui sopra, e di cui sempre si lamentano superficialità e approssimatezza.

Dovremmo respingere con forza la costrizione all’accettazione della soluzione proposta o ben che vada la scelta tra due, e sottrarci alla scelta. Anche perchè la politica del meno peggio, in uno scenario in cui il peggio è pane quotidiano, diventa la modalità effettiva del derubricare, e man mano che accade qualcosa di nuovo che è peggiore del preesistente, questo, che pure era grave, diviene di gravità e urgenza minore, subisce un progressivo ridimensionamento dell’attenzione e della trattazione, diviene minore, pur restando identico a se stesso. Ed è così che anche noi stessi produciamo il peggio pur non confezionandone gli esiti di nostro proprio pugno, ma banalmente derubricando. Oggi il CARA va bene anche se è identico a ieri, solo gli individui che ha “ospitato” sono cambiati, qualcuno in meglio qualcuno in peggio, ma tanto per quasi tutti erano perfetti sconosciuti sia gli uni che gli altri, ed oggi per moltissimi sono tutti, in massa, “nemici” da combattere, quelli che facevano la “pacchia”, e che da oggi sanno che la “mangiatoia” è finita.

Questo discorso collettivo e demenziale sull’immigrazione intorno a cui si sono polarizzati i più biechi residui di nazifascismo e intorno a cui, orbitando, hanno preso ad ingigantire l’onda di regresso che ci sommerge e quasi affoga, può concludersi solo riprendendolo correttamente dal suo principio, dalla libertà di movimento e iniziativa individuale e dalla loro deprivazione di cui sono vittime alcuni. Né dalla solidarietà laica o cristiana, né dai buonismi, pietismi e cattivismi di sorta, né dai CARA né dal Decreto Sicurezza, il problema è a monte, e continua a non venir preso minimamente in considerazione.

La verità è altrove, e le soluzioni anche.

Monica Scafati