Lo scorso 5 dicembre il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, ha redatto le linee programmatiche che dovranno ispirare la prossima azione del Dipartimento. In perfetta «simbiosi e sintonia con la strada segnata dal Ministro della Giustizia», è possibile leggere, a chiare lettere (anche se la prosa risulta davvero oscura, sin dalla prima pagina), quali saranno le idee ispiratrici della detenzione, ora che è stato sfondato il tetto delle 60.000 presenze, e i morti son già 63.
La premessa è che occorre «un nuovo approccio» (p. 2), tralasciando la necessità di «impiego di poderose risorse economiche». «Molti atti possono presentare elementi contenutistici di riservatezza o di modesta divulgabilità» (p. 5), e dunque si invita alla prudenza.
Si disquisisce sulla «capillarità diffusa su tutto il territorio nazionale delle strutture penitenziarie… alcune delle quali caratterizzate da una limitata capienza (al di sotto delle 50 unità operative), tanto da apparire assolutamente antieconomiche», di tal che la loro permanenza, qualora non venissero adottati interventi di ampliamento, dovrebbe essere seriamente rivista» (p. 6). Meglio carceri grandi, grandi scatole dove custodire corpi, con buona pace del riaffermato principio della territorialità della pena.
Meglio «modelli organizzativi a contenuto standardizzato», con «referenti interni per la comunicazione e selezione delle informazioni e notizie utili, soprattutto in tema di aggressioni ed eventi critici, da portare all’attenzione dell’Ufficio stampa del Ministero della Giustizia per la eventuale divulgazione all’esterno».
Cancellata la documentazione fotografica dall’art. 11, ridotta ad eventuale la divulgazione all’esterno, il carcere si chiude sempre più in se stesso, cercando «nuove metodologie di gestione degli eventi critici e delle aggressioni, anche con l’insegnamento di tecniche di autodifesa» (p.12). In attesa del taser.
Ancora. Per ovviare alle spese di traduzione, si propongono «videoconferenze e partecipazione a distanza nelle udienze di convalida anche per i detenuti arrestati» (p.15), destinando il risparmio di uomini e risorse economiche per «assumere più personale di polizia penitenziaria che assiste a distanza alle udienze». Dunque, tutto intra moenia; senza l’habeas corpus.
Anzi, già che ci siamo, occorre «unificare la carriera dei funzionari di Polizia Penitenziaria con quella del restante personale dirigenziale, inquadrando quest’ultimo nei ruoli della Polizia Penitenziaria» (p. 16).
I detenuti, questi sconosciuti, compaiono a p. 17, ove si afferma la necessità di adozione di «protocolli unici» (una vera ossessione) per la loro «gestione», trattandosi di «una risorsa dell’Amministrazione Penitenziaria». Carcere e fabbrica.
Ma non basta. Pur riconoscendo l’esclusiva competenza delle autonomie regionali, «per superare il torpore in cui versa l’intero sistema» si sollecita l’adozione di interventi anche per quanto riguarda le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (con buona pace dei principi ispiratori della legge n. 81/2014).
Quanto al sovraffollamento, la «soluzione ottimale potrebbe senza dubbio derivare dalla realizzazione di nuovi istituti»; nel mentre (qualche decennio), si propone la predisposizione di «brochure illustrative», giacché una delle cause del sovraffollamento starebbe nel «difetto, da parte dei detenuti, delle conoscenze giuridiche e processuali necessarie» per richiedere ed accedere alle misure alternative. Ci sarebbe da ridere, se non facesse piangere (così come il neologismo di “microsovraffollamento” – p. 20).
Per migliorare «la qualità di vita», sovente dipendente da «esigenze quotidiane piuttosto elementari», si propone l’oppio dei popoli, «la visione allargata dei canali televisivi» (p. 20). Tutti in cella, a guardar la tv, e niente Sorveglianza dinamica, che «può essere una delle cause scatenanti il fenomeno delle ripetute aggressioni» (p. 21), cui ovviare con la sorveglianza particolare, o con i trasferimenti.
Ma non finisce qui. Siccome occorre debellare «il fannullismo detentivo, uno dei mali essenziali che brulicano nelle sezioni aperte», veri e propri focolai di dannati oziosi e vagabondi, «soccorre l’istituto del lavoro di pubblica utilità» (p. 23), naturalmente gratis; il lavoro rende liberi, purché non sia «cannibalizzante», rivolgendosi ad esempio a «pulizia e manutenzione degli uffici pubblici dell’Amministrazione della Giustizia». Lavori domestici, dotati di «basso profilo tecnico».
Questo il cambiamento.
Attila in carcere, come alla prima della Scala a San Vittore, con uomini e donne che stanno a guardare. Uomini e no.
Tra qualche giorno comincerà il rituale delle feste, e qualche anima bella varcherà le porte, sempre più chiuse, recitando litanie. Buon Natale a tutti.
da Volerelaluna