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Carcere: Anche pensare è proibito al 41bis

In quasi trent’anni il “carcere duro” è diventato sempre più espressione di una esasperazione punitiva, che vuol silenziare la mente e le coscienze. Sono passati quasi trent’anni da quando la feroce uccisione dei Giudici Falcone e Borsellino portò una società stordita dalla violenza di quelle morti ad accettare una legislazione di emergenza che si annunciava già palesemente incostituzionale l’introduzione del regime “41bis”, una carcerazione sostanzialmente sottratta alla tensione rieducativa della pena per chi fosse accusato di essere al vertice di un sodalizio mafioso.

Con una riforma del 2002 l’emergenza si è tradotta in immanenza in un solco sempre più profondo di insicurezza sociale e di giustizialismo e quella norma che impedisce alla carcerazione di proiettare il ristretto alla restituzione in società è entrata definitivamente nel nostro ordinamento.

Dal 2009, poi, il 41bis ha subito una ulteriore stretta con una modifica che individua nel tribunale di sorveglianza di Roma il solo giudice deputato a decidere sui reclami avverso la detenzione di rigore. Una violazione vistosa del criterio di prossimità connaturato all’esistenza stessa della figura del magistrato di sorveglianza, vicino al detenuto, che ne conosce il percorso e le progressioni ma, soprattutto, la creazione di un monolite giurisprudenziale attestato sulla pressoché fideistica approvazione dei decreti ministeriali.

Così ci sono persone che dal 1992 si trovano diuturnamente in 41bis. Alcune ci sono morte. Quasi trent’anni, appunto, di “carcere duro” che si fa sempre più espressione di una spinta esasperatamente punitiva. Numerosi i segnali della giurisprudenza di merito e di legittimità di una carcerazione che vuole i ristretti non più uomini. Con una recentissima pronuncia la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la sanzione di 15 giorni di isolamento inflitta a un detenuto in 41bis per avere affermato, in una sua lettera, di essere stato deportato in un lager (il carcere in cui si trova) dove molti elementari diritti vengono negati.

La Cassazione rileva “l’atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell’istituto per ragioni del loro ufficio o per visita. Non può essere revocato in dubbio – secondo i giudici di legittimità – senza che possa invocarsi il diritto alla manifestazione del pensiero, che la definizione del carcere di Rebibbia come lager ove si sarebbe ristretti per “deportazione”, implica giocoforza una offesa alla professionalità di quanti in quella struttura operano, perché il loro lavoro e il loro impegno viene automaticamente oltraggiato con la riconduzione al ruolo di aguzzini e torturatori”.

Eppure la censura della corrispondenza dovrebbe essere ammessa soltanto per impedire la veicolazione di messaggi potenzialmente criminogeni. Non è lecito utilizzarla per menomare un recluso della possibilità di sfogare, in una comunicazione che resta privata (seppure letta dal censore) il proprio strazio, la propria sofferenza, anche con toni accesi, iperbolici, perfino rabbiosi. Ancora, dalla suprema Corte: il detenuto non può comunicare ad altro ristretto, con cui è in contatto epistolare, il suo trasferimento in altro istituto di pena. Viola le disposizioni di sicurezza del regime.

Non può condividere con altri reclusi un modello di reclamo avverso provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ciò lo porrebbe, secondo i giudici di legittimità, in un rapporto di supremazia e gli darebbe una indebita autorevolezza. Contro ogni logica, contro ogni umanità, lo si priva del conforto di una corrispondenza soggetta a censura e gli si impedisce di condividere la propria esperienza e di offrire aiuto arma persona che si trova nella sua stessa condizione.

Dalla magistratura di sorveglianza, invece, arrivano provvedimenti di divieto di acquistare libri, pur di alto contenuto fondativo, a firma della Presidente emerita della Corte Costituzionale, Marta Cartabia e del Prof Adolfo Ceretti, perché, dice il pm: “il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti e aumenterebbe il carisma criminale” e, conferma il giudice: “il possesso del libro determinerebbe una posizione di privilegio rispetto agli altri detenuti”. Conoscere, migliorarsi, dunque, determina supremazia Ancora.

Trattenuta dal magistrato di sorveglianza la lettera di un avvocato al proprio assistito perché contiene un’ordinanza relativa ad altro ristretto, il cui nome è omissato, utile alla sua difesa perché “attraverso eventuali interpolazioni del testo, potrebbe veicolare messaggi illeciti”.

Insomma si ipotizza che l’avvocato abbia manipolato il provvedimento per trasmettere al detenuto contenuti criminogeni. La suggestione esplicita, dunque, che il difensore sia correo o, quantomeno, favoreggiatore del clan e la palese violazione di legge perpetrata nel bloccare la corrispondenza, peraltro con il difensore, in virtù di una vaga, inconcludente e calunniosa ipotesi di sospetto. Divieto di pensare, di conoscere, di migliorarsi.

Per l’amministrazione penitenziaria anche di desiderare. Vietata la fantasia sessuale. No alle riviste pomo, un mero interesse del ristretto, secondo il Dap non un diritto per poter dare vita almeno nel sogno, nell’astrazione, nel totale isolamento di una condizione di totale privazione, all’istinto che appartiene a tutti, che è connaturato alla persona, che non può essere soppresso, pena la mutilazione della essenza di uomo. Ma sembra ormai tutto lecito per i dannati di quel mondo, il 41bis, di sterile agonia, di silenzio della mente, delle coscienze.

Maria Brucale

da Il Riformista