Susan John ed Azzurra Campari. Due donne unite da un comune destino: morte in un carcere italiano a poche ore l’una dall’altra. Lo stesso carcere.
di Nicoletta Dosio
In carcere si muore e non è solo una metafora per dire la non-vita di quel non-luogo: si muore concretamente, suicidati dal carcere.
Susan, quarantatre anni, deceduta nella notte di ieri, dopo un mese di digiuno durante il quale chiedeva invano di poter rivedere il piccolo figlio.
Azzurra, 28 anni, affetta da problemi psichiatrici, trovata impiccata in cella, ieri pomeriggio.
Entrambe erano recluse al Lorusso Cutugno di Torino, una da poco più di un mese, l’altra da alcuni giorni. Con loro il numero dei suicidi nelle carceri italiane nei primi otto mesi del 2023 sale a quarantatre, sedici tra giugno e agosto.
Occupavano due celle di quello che viene pomposamente definito “Reparto di articolazione tutela salute mentale” . In realtà si tratta di due squallide celle, le prime della sezione Nuove Giunte, che differiscono dalle altre solo perché più disadorne, illuminate giorno e notte, sotto l’occhio insonne della telecamera.
Di tutela della salute mentale non c’è neanche l’ombra… caso mai è vero il contrario: non solo non esiste personale specializzato, ma, rispetto al resto della sezione, aumenta l’isolamento, l’impossibilità di socializzare, il controllo poliziesco, il vuoto pesante di un tempo che non passa mai e l’angoscia che sale con la precarietà del futuro.
Il carcere non solo non cura la malattia mentale, ma la crea e la alimenta.
La notizia di queste morti rimbalza sui giornali e mette in moto il rimpallo delle responsabilità, insieme alle dichiarazioni di impotenza. I sindacati delle guardie carcerarie chiedono più agenti, la direzione si giustifica col sovraffollamento e la precarietà delle strutture.
Quanto ai garanti dei diritti dei detenuti, la garante comunale si lagna che “Nessuno ci aveva informati”. E il garante regionale è ancor più sintetico…
In realtà, nella maggior parte dei casi , a garantire il rispetto minimo dei diritti e ad ottenere qualche miglioramento della condizione carceraria sono, come sempre, le lotte dei detenuti, mentre i garanti, più che una presenza concreta, sono un ufficio del palazzo comunale e regionale…
Oggi, insieme al ministro della Giustizia Nordio, giunto in visita alle Vallette, c’erano tutti. Il succo dei colloqui è stato esposto in conferenza stampa. Promesse generiche di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario, con progetti fumosi, nel cui orizzonte non entrano indulti né amnistie, caso mai la separazione tra detenuti più e meno pericolosi con l’utilizzo di strutture quali le caserme dismesse: dunque non l’alternativa al carcere, ma il carcere diffuso…
Se c’era qualche timore di inchieste, il ministro ha contribuito a fugare le preoccupazioni dei responsabili. “La mia non è un’ispezione, ma una manifestazione di vicinanza del ministro e del suo staff in questo momento di dolore, ma anche di vicinanza alla direzione e alla polizia penitenziaria…”.
Loro, le vere vittime, i dannati della terra e le ragioni per cui qui “si vive o si muore per un sì o per un no” sono rinchiusi più in là, nei gironi interni della prigione.
Mentre negli uffici della direzione si scattano le fotografie di rito, ai blocchi di detenzione si alza la protesta: fischi, grida, battitura delle sbarre e dei blindi… L’umanità reclusa urla rabbia e dolore, l’invivibilità delle celle sovraffollate, la sete d’aria libera, il sopruso quotidiano di un mondo senza giustizia, il bisogno di dignità e l’angoscia del dopo, di un fuori che si preannuncia come ostile e inospitale.
Sono loro la voce di Susan, Azzurra, Graziana, Antonio, Denys…
Il carcere uccide anche la speranza.
Eppure la soluzione opposta al carcere esiste ed è la giustizia sociale, quella che renderebbe il mondo più bello, più vivibile per tutti.
Questo non è il sogno. E’ la meta.
da pressenza
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