Se c’è un modo oggi di rifondare una prospettiva seriamente garantista, sta nel riaprire la questione del protagonismo delle lotte di classe, razza e genere nella costruzione delle scelte di politica criminale, criticando la centralità del carcere, le pene infinite e “intrattabili”
di Giso Amendola
1. Il doppio binario del diritto penale.
Lo sciopero della fame di Alfredo Cospito irrompe drammaticamente sul palcoscenico italiano della “questione giustizia”, facendo esplodere nodi centrali poco frequentati nel dibattito quotidiano inscenato abitualmente dalla contesa “garantisti versus giustizialisti”. Non a caso, il Palazzo, mentre Cospito comincia il suo sciopero, è impegnato nell’interpretazione dei contraddittori interventi del ministro Nordio in tema di limiti alle intercettazioni e alla loro pubblicazione. Con la drammaticità di questa irruzione, acquista finalmente rilievo pubblico il rimosso abituale del dibattito sullo stato della giustizia: ciò che è in discussione è il senso complessivo della pena, il funzionamento del sistema penitenziario a partire dalle scelte fondamentali sulle sue finalità, il ruolo stesso della sanzione e del carcere. Il dibattito politico consuetamente inscenato tra “giustizialisti” e “garantisti” sulle riforme processuali, sulla prescrizione, sugli strumenti di indagine mette tra parentesi il sistema penitenziario. Questa apparente guerra ha lasciato tranquillamente crescere, nel frattempo, un diritto penale sempre più diviso in due, ben oltre l’usuale dibattito sul “doppio binario” che sarebbe riservato ai reati di criminalità organizzata : la grande divisione è ormai tra un sistema per i reati dei colletti bianchi, sui quali l’attenzione politica resta calda e attorno ai quali si gioca il grosso del dibattito sulla questione giustizia, e un “resto” composto di tutto un mondo di reati a vario titolo giudicati di allarme sociale, per i quali si accetta che l’unica risposta possibile sia in termini puramente e semplicemente repressivi. Lo sciopero della fame di Cospito rompe questo voluto silenzio: rivela, ponendosi come caso forse limite ma espressione di una situazione che riguarda tutto il carcere, come il sistema penale si sia andato via via costruendo, negli anni, attorno a risposte emergenziali, che però ne hanno infine strutturato il funzionamento ordinario. In questo modo, si è prodotto negli anni un diritto speciale, giustificandolo come risposta a situazioni di particolare allarme, a partire dal terrorismo prima e dalla criminalità organizzata poi: un sottosistema speciale ma completo, che copre dalla formulazione dei reati, alla determinazione delle pene fino all’esecuzione penale e al regime carcerario. Ma questo ramo “speciale”, costruito attorno alla lotta alle organizzazioni criminali, non ha infine più nulla di eccezionale, segna ormai l’ordinarietà della vita del sistema penale e sancisce oggi la sacralizzazione della funzione meramente repressiva del carcere, contro le ormai consolatorie invocazioni del disegno costituzionale. Istituti esplicitamente repressivi come il “carcere duro” del 41 bis dell’ordinamento penitenziario, o come l’ergastolo “ostativo”, senza possibilità di accedere ai benefici, che sono giustamente indicati da più parti come i primi obiettivi contro cui mobilitarsi, presentano oggi questo elemento realmente problematico: più che costituire buchi neri eccezionali, momenti di nuda violenza contro la complessiva logica garantista del diritto, indicano linee di tendenza generali, il cui superamento richiederebbe una inversione di marcia politica e culturale che investa l’intera politica criminale. Oggi, per lottare contro le aberrazioni evidenti e particolari di cui è vittima Cospito, dobbiamo insieme sollevare la questione politica generale del doppio diritto penale, della divisione del diritto penale in due: delle dimensioni di diseguaglianza radicale che attraversano l’intero apparato repressivo, sia nei suoi istituti più evidentemente “eccezionali”, sia nel suo funzionamento quotidiano e ordinario. Guardata un po’ più da vicino, la storia giudiziaria di Alfredo Cospito ci racconta delle vicende drammaticamente ordinarie cui dà luogo il doppio binario che si è costruito in questi anni a colpi di interventi.
2. Il carcere duro.
Il regime carcerario previsto dal 41 bis dell’ordinamento penitenziario è una misura di sicurezza creata dopo le stragi di mafia del 1992 ed è originariamente giustificata dalla necessità di interrompere i contatti con le organizzazioni criminali di appartenenza. Da “emergenziale” e delimitato nel tempo che era (durata massima tre anni), si è trasformato in un regime carcerario ordinario e rinnovabile ripetutamente di quattro anni in quattro anni. Alla sua funzione ufficiale e manifesta, quella di interrompere i rapporti tra detenuti e organizzazione, si è sovrapposta sempre più la funzione effettiva di indicare un sovrappiù di afflittività, appunto il cosiddetto “carcere duro”, la sottolineatura della capacità e “volontà di punire”, che evidentemente fuoriesce dai confini di “scopi” e temporali che caratterizzavano la misura “emergenziale”. In pratica, “buttare le chiavi” come testimonianza della serietà effettiva dell’impegno sanzionatorio dello stato. Le preoccupazioni evidenti per la costituzionalità di questo modo di intendere il regime carcerario del 41 bis hanno dato luogo nel tempo a diversi interventi delle corti e a vari tentativi di armonizzarlo, per quanto possibile, con la finalità di reinserimento costituzionalmente disegnata per il carcere. Nel frattempo, però, la lista dei reati per cui non si può accedere ai benefici, e si può invece entrare nel circuito dell’Alta sicurezza e nel sempre meno “speciale” regime del 41 bis, si moltiplicano: chi legge l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, troverà una storia di allungamento progressivo dei reati considerati di particolare allarme sociale. E il 41 bis, come “apice” di questo sistema, testimonia sempre meno la necessità di assumere misure speciali e delimitate nel tempo per rompere le collaborazioni criminali, e sempre più invece una esigenza di proclamare e mantenere ferma una particolare “durezza” del regime carcerario, in assenza di collaborazione e pentimento. Ora, il caso Cospito mostra in tutta evidenza come tutti i tentativi di “normalizzare” e costituzionalizzare il 41 bis, hanno ceduto davanti alla tendenza fortissima ad affermare, attraverso questo dispositivo, una precisa visione del carcere, tutta affidata alla funzione repressiva e alla rigidità della sua disciplina, evitabile solo da chi si “emenda” moralmente e dà vita ad una fattiva collaborazione. Cospito finisce in regime di 41 bis perché diffonde messaggi ideologici, collabora a riviste, non dà segno di collaborazione, ma certo non è configurabile nel suo caso, neanche concettualmente, un legame con qualcosa che anche vagamente somigli come struttura alla criminalità organizzata. Il suo caso mostra così, drammaticamente, come la natura del 41 bis sia, anche dopo tutte le attenzioni “costituzionalizzanti”, tendenzialmente assorbita dalle sue funzioni ideologiche latenti.
Se solo si smettesse di agitare il 41 bis come una sorta di “totem “ intoccabile, garante ultimo di una lotta alle organizzazione criminali, misurata solo in chiave repressiva, il caso Cospito richiederebbe – e infatti richiede, e va reclamato con forza – un intervento immediato del ministro della giustizia di revoca o di sospensione della misura, proprio perché qui è evidente un uso del 41 bis incompatibile con qualsiasi tentativo di mantenerlo dentro i confini della funzione costituzionale della pena. Ma è evidente che la clamorosa mancanza di proporzionalità tra i fatti e la misura nel caso Cospito, se da un lato reclama un immediato intervento, dall’altro rileva esattamente il ruolo espansivo e generale che il 41 bis ha assunto nella costruzione del doppio binario carcerario, non a caso allargandosi almeno tendenzialmente a situazioni sempre più diverse da quelle per cui era stato immaginato. La funzione che svolge il 41 bis oggi è di certificare l’abbandono della centralità della lotta politico-sociale ai poteri criminali, e di sacralizzare il carcere non come mezzo di presunta risocializzazione, ma come simbolo di inflessibilità tutta securitaria, certificando così l’abbandono della centralità della lotta politico-sociale ai poteri criminali per eleggere la strada esclusivamente penalistica e carceraria come perno della “guerra alla criminalità”. È questo suo valore simbolico che finisce per attrarre nell’ambito del 41 bis anche storie e persone che con le esigenze originarie della misura non hanno niente a che fare, se non il fatto di rientrare nella lista sempre più lunga e indefinita di reati “allarmanti” e di mostrare una resistenza all’ “emenda” morale, al pentimento e alla collaborazione.
3. Il sistema delle pene fisse.
La vicenda Cospito però non riguarda solo il regime del carcere duro. Com’è noto, attualmente rischia una condanna all’ergastolo per il reato di devastazione, saccheggio e strage “contro la sicurezza dello Stato” (285 c.p.). Così la Cassazione ha ridefinito il reato, richiedendo alla Corte d’Appello di Torino la riqualificazione della pena. In precedenza, infatti, per strage “semplice”, Alfredo Cospito e Anna Beniamino erano stati condannati rispettivamente a 20 anni e a 16 anni e sei mesi. Il fatto di cui sono accusati, com’è noto, non ha provocato vittime. Ora però la pena prevista per il “nuovo” reato è l’ergastolo, e, in questo caso, dato che la strage “politica” è nella lunga lista dei reati per cui i benefici sarebbero concessi solo ai collaboranti, si tratterebbe dell’ergastolo ostativo, quello per cui non sono previsti benefici nell’esecuzione, a meno appunto di collaborazione. Ma quello che qui è molto significativo è come si arriverebbe, almeno per Cospito, a questa condanna all’ergastolo che appare così sproporzionata di fronte a un reato senza vittime. Il punto cruciale – per cui è investita ora la Corte costituzionale – è che il giudice non può riconoscere l’attenuante per fatto di lieve entità, pur prevista specificamente per i reati contro la personalità dello Stato (311 c.p.), perché Cospito è recidivo. E secondo la legge “antirecidivi” 251/2005 (meglio nota come legge “ex Cirielli”, uno dei più rilevanti momenti di accelerazione verso la “tolleranza zero” all’italiana), in questo caso l’attenuante non può essere applicata a bilanciare la recidiva. Attenzione quindi alla significativa sequenza che abbiamo creato a colpi di interventi securitari: abbiamo in primo luogo una legge, la ex-Cirielli, pensata per fare la faccia feroce conto i recidivi, che impedisce al giudice di applicare l’attenuante della lieve entità nel calcolo della pena – quindi, nel caso della strage politica, si finisce automaticamente all’ergastolo, anche se il giudice sa che il fatto è di lieve entità. Una volta finiti all’ergastolo, la macchina automatica infernale continua, senza che nessuno possa farci niente: l’attuale disciplina sull’ergastolo ostativo (finita ora per essere accolta nel “decreto rave” del governo Meloni, come risposta urgente anche qui alle questioni di costituzionalità aperte dalla Corte) impedirà sostanzialmente al tribunale di sorveglianza di decidere se concedere o meno benefici, a meno di collaborazione o a meno di impossibili prove diaboliche sull’insussistenza della possibilità di legami con l’organizzazione. Non a caso, i giudici di Torino lamentano, rimettendo la questione alla Corte costituzionale, di essere privati della possibilità effettiva di commisurare la pena e di tenere conto della specificità del caso concreto: la macchina automatica delle pene fisse travolge prima loro nella decisione sulla pena, e poi bloccherà la sorveglianza nella concessione dei benefici. Tiriamo le somme di questa lunga catena: si è creata, sulla base della tipologia di reati che si giudicano di particolare “allarme”, una lista che si allarga sempre di più, e della tipologia di “autori” (il recidivo, il “delinquente abituale”) un sistema di pene fisse per quanto riguarda la determinazione delle condanne, e di assoluta rigidità nell’esecuzione della pena. Per questi reati (che ormai si allargano dalla criminalità organizzata al terrorismo, alle droghe e così via) per questi soggetti “criminali” già identificati dalla recidiva, la stessa discrezionalità giudiziale è ridotta al minimo, le pene salgono automaticamente verso i massimi e il magistrato di sorveglianza è, nell’esecuzione, relegato ad un mero certificatore di un carcere senza trattamento e senza alternative, il tutto finalizzato non a reinserire ma a neutralizzare. Appunto un intero autonomo sistema penale alternativo a quello garantistico (che è riservato ormai grosso modo alla criminalità finanziaria e dei colletti bianchi).
4. Contro la centralità della funzione punitiva.
La vicenda Cospito ci appare così drammaticamente fragorosa certo per la decisione coraggiosa dell’azione di disobbedienza, ma in definitiva anche perché espone in tutta la sua assurdità l’assoluta rigidità di questo doppio binario penale. Ci fa vedere non tanto la ferocia degli istituti esplicitamente emergenziali, gli ormai famigerati 41 bis e ergastolo ostativo, già del resto ripetutamente attenzionati dalla Corte costituzionale, quanto la violenza più insidiosa che struttura complessivamente il sistema penale, ne divide e gerarchizza il funzionamento ordinario e lo consegna a logiche sempre più autoritarie, tanto che una parte della stessa magistratura comincia a moltiplicare le questioni di costituzionalità, contro una trasformazione in agenti securitari che ha investito prima la magistratura di sorveglianza e si riflette ora sugli stessi giudici di merito, alle prese con il continuo ricorso alle pene fisse. Davanti all’evidente mancanza di ogni proporzione nell’attuale regime detentivo di Cospito, occorre ovviamente chiamare alla propria responsabilità, ripetiamolo ancora una volta, innanzitutto il ministro della giustizia, che avendo il potere di decidere, conserva evidentemente anche quello di revocare o sospendere (al di là del dato letterale della legge). Dal punto di vista politico, però, la posta in gioco oltrepassa l’abrogazione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo, che sono solo le punte più “visibili” della struttura attuale della risposta penale, chiamando in gioco l’opposizione alla complessiva trasformazione del sistema penale e del carcere in un sistema di gestione sicuritaria del controllo sociale: un obiettivo strategico che richiede da parte di ogni attivista disponibilità e intelligenza per costruire coalizioni ampie, nel nome dell’assunzione piena e radicale della “questione democratica”. I movimenti americani, in questi anni, in situazioni ovviamente molto diverse da quella italiana, ci hanno però consegnato, anche semplicemente a livello di metodo, alcuni esempi importanti sul modo di affrontare le questioni del carcere, del sistema penale e dei poteri di polizia. In generale, la ripresa americana dei temi dell’abolizionismo penale e delle lotte contro il carcere ci dicono che l’antiautoritarismo, come critica delle politiche securitarie e carcerarie, e la lotta sociale per l’uguaglianza, come critica radicale alle gerarchie di classe, razza e genere, vanno sempre declinati insieme. Da noi, abbiamo visto come il crescere di un sistema penale autoritario si è radicato anche e soprattutto attraverso l’affermazione di strategie esclusivamente carcerarie e securitarie nella “guerra” alla criminalità organizzata, e attraverso la progressiva marginalizzazione del ruolo centrale della lotta sociale e di classe contro i poteri criminali. Se c’è un modo oggi di rifondare una prospettiva seriamente garantista, sta nel riaprire la questione del protagonismo delle lotte di classe, razza e genere nella costruzione delle scelte di politica criminale, criticando la centralità del carcere, le pene infinite e “intrattabili”, e, infine, la funzione punitiva e coercitiva dello stato come unica barriera contro i poteri della criminalità organizzata.
da Euronomade
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Stato di diritto e umanità della pena
Lo hanno chiamato «diritto penale del nemico»: la previsione della possibilità della giustizia di dislocarsi in uno spazio altro rispetto ai confini che la definiscono, di negare se stessa e i propri principi, continuando a definirsi giustizia
di Elton Kalica e Francesca Vianello
Adesso abbiamo fretta, perché Alfredo Cospito sta morendo. Sono però almeno due decenni che da scienziati sociali e da studiosi del carcere – oltre che da persone che hanno vissuto sulla propria pelle o visto su quella altrui le ripercussioni di sistemi detentivi che si richiamano alla massima sicurezza – riflettiamo criticamente e scriviamo contro il particolare accanimento dello Stato nei confronti di chi attenta all’ordinamento giuridico-istituzionale: il sistematico ripresentarsi, in situazioni considerate di emergenza, di dispositivi eccezionali rispetto alla giustizia ordinaria, il loro altrettanto sistematico eccedere le dichiarate emergenze e il loro ripetuto estendersi a situazioni e soggetti diversi da quelli inizialmente contemplati. Si tratta di una storia che si ripete nel tempo: dalla legislazione di emergenza degli anni Settanta, a quella pensata per le stragi di mafia degli anni Ottanta, fino alle disposizioni che pretendono di far fronte al cosiddetto terrorismo islamico, ci troviamo di fronte a quello che penalisti e sociologi hanno chiamato “diritto penale del nemico”: la previsione della possibilità della giustizia di dislocarsi in uno spazio altro rispetto ai confini che la definiscono, di negare se stessa e i propri principi, continuando comunque a definirsi giustizia.
A questa dislocazione è necessario fare riferimento per comprendere appieno il 41bis, la previsione normativa di un trattamento “fuori legge” per determinate figure considerate particolarmente pericolose, addirittura – con una significativa dislocazione finanche del linguaggio – “malvagie”, trasgressive non tanto di singole norme, quanto dell’intero ordinamento, non sanzionabili nello stesso modo del comune cittadino. Si tratta di una giustizia dai due pesi e dalle due misure, che vede il cittadino normale come meritevole di garanzie e tutele, destinatario, pur se colpevole e condannato, di risorse che la legge gli attribuisce e che la Costituzione vuole come rieducative e risocializzanti. Dall’altra parte c’è il “nemico”, che si è macchiato di comportamenti particolarmente riprovevoli, pericolosi e dannosi: a quest’ultimo il 41 bis riserva un trattamento conseguente, senza garanzie né tutele, finalizzato primariamente alla neutralizzazione dei rischi per la sicurezza pubblica che, attraverso un potenziale afflittivo ormai fuori controllo, rischia continuamente di tradursi nella neutralizzazione della persona. Le ricerche e le testimonianze di chi ci è passato raccontano di isolamento perpetuo, di perquisizioni profondamente invasive, di drastiche limitazioni nell’accesso alla luce e all’aria, di negazione di ogni rapporto familiare e umano; raccontano della tumulazione in vita, della negazione della vita stessa, della “pena di morte viva”.
Può la risposta penale assomigliare così tanto alla vendetta senza con questo tradire la propria legittimazione?
È in questa situazione che, dopo 10 anni di carcere e 10 mesi al 41 bis, Alfredo Cospito ha maturato la decisione di rinunciare ad alimentarsi, come denuncia estrema nei confronti del trattamento a cui è sottoposto, lui e altre 748 persone in 12 istituti penitenziari in Italia. Il suo caso ha toccato per la prima volta la sensibilità di un numero estremamente elevato di persone: anarchico con reati gravi alle spalle, senza morti né affiliazioni di mafia, Cospito, in ragione della sua situazione e del modo in cui ha deciso di farvi fronte, sta progressivamente minando un dispositivo finora sigillato. L’ambiguità e l’arbitrarietà con cui gli è stata estesa e applicata una legislazione pensata come strumento eccezionale di lotta a un fenomeno criminale particolare, toglie improvvisamente il velo alla giustificazione che, facendo affidamento sull’estrema peculiarità del fenomeno di mafia, ha finora messo tutti a tacere; saltando quel legame originario, finora dato per scontato, si apre anche la riflessione, sempre rimandata, sulla trasformazione delle organizzazioni criminali negli ultimi due decenni e sulla necessità di attualizzare e documentare le giustificazioni di quell’afflizione apparentemente ingiustificabile. Infine – ma chissà se i tempi ci consegneranno altro – la sua minaccia di morte (la sua) ha il pregio, se così si può dire, di travalicare il suo caso specifico, rendendo temporaneamente accessibile una tematica estremamente complessa.La minaccia di morte di Cospito ha il pregio, se così si può dire, di travalicare il suo caso specifico, rendendo temporaneamente accessibile una tematica estremamente complessa
Attraverso il suo corpo, ormai in rovina, Cospito traduce in un linguaggio comprensibile a tutti secoli di interrogativi filosofici: può un sistema di diritto coincidere con la violenza al punto da portare un uomo a preferire la morte? Può la risposta penale assomigliare così tanto alla vendetta senza con questo tradire la propria legittimazione? Non doveva il diritto penale della tanto decantata modernità proteggerci, oltre che dalla violenza del potere, anche dalla violenza della vittima? Non doveva impedirci, infine, di diventare noi stessi dei carnefici? Vogliamo davvero che in nostro nome si annichilisca un uomo; che si tolga a un uomo aria e luce, che gli si vietino libri e penne, che si impedisca a una madre di toccare le mani del figlio? Vogliamo davvero che in nostro nome si costruiscano tombe per viventi sotto il livello del mare? Se non succederà nulla Cospito morirà, ma continueremo a sentire questa urgenza. La speranza è che questi interrogativi, una volta sollevati, possano continuare a vivere di vita propria, che si faccia di tutto per sostenerli e alimentarli, a prescindere da chi sarà ad essere investito dal 41bis. Una lettera aperta promossa da un gruppo di ricercatrici e ricercatori in scienze sociali ha raccolto in pochi giorni più di 200 adesioni. Chiede di porre fine al diritto di guerra e di cambiare pagina tornando a ripensare la risposta penale in termini diversi, all’interno di una cultura istituzionale che non preveda dispositivi inumani e degradanti e non contempli fine pena mai.
da il Mulino
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