«La pena della prigione è ancora e soprattutto una pena corporale, qualche cosa che dà dolore fisico e produce malattia e morte» scriveva il compianto Massimo Pavarini quasi trent’anni fa. Affermazione che nel tempo della pandemia si è rivelata ancor più vera, nella latitanza degli attuali governo e parlamento, come già dei precedenti, quando si tratti di riformare il carcere e il sistema delle pene per renderli aderenti al dettato costituzionale.
Si dice spesso che l’articolo 27 della Costituzione, al pari di molti altri, è rimasto inapplicato, ma – in effetti e ancor peggio – esso è stato invece riscritto nella Costituzione materiale. Quella formale recita: «La responsabilità penale è personale». Peccato non sia più vero perlomeno da quando, nella «madre di tutte le emergenze», ovvero quella contro il cosiddetto terrorismo, i magistrati e poi il legislatore si inventarono e usarono a piene mani la fattispecie del «concorso morale». Nella successiva emergenza contro le mafie il virus del giustizialismo produsse la fumosa variante del «concorso esterno»: appena più presentabile, senza richiami da Stato etico ma di analoga strumentalità repressiva nella logica ormai a quel punto affermatasi del fine che giustifica i mezzi.
«L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» è poi scritto nel bistrattato articolo. E qui la forzatura sostanzialista avvenuta è ancora più estesa e precedente, poiché, come ben si sa e si vede, chiunque incappi in un provvedimento restrittivo e giudiziario è automaticamente considerato colpevole in perpetuo dal senso comune, a sua volta indotto da un sistema mediatico che – anche qui a seguito delle diverse «emergenze» – è assai spesso divenuto ossequiosa appendice delle procure.
Infine, i lungimiranti e utopisti padri costituenti, che numerosi avevano provato la galera sulla propria pelle, scrissero: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». E qui, più che una riscrittura, va constatata l’aggiunta di una postilla, laddove, oggi, nel concreto, diritti e garanzie sono subordinati alla «collaborazione», vale a dire al mandare altri in galera. È questa la ratio dell’ergastolo cosiddetto ostativo, della regime duro del 41bis e in generale della legislazione antimafia.
Pur in modi diversi, una analoga filosofia agisce in generale nei confronti, se non di tutti, di una buona parte dei reclusi, attraverso i meccanismi della giustizia riparativa, che, al di là dei suoi condivisibili principi, è divenuta soglia e condizione per l’accesso a benefici e misure alternative. Da queste torsioni della Costituzione e dell’ordinamento emerge il quadro di un sistema penale e processuale sostanzialista e giustizialista e di un sistema penitenziario vendicativo. Eppure, si sente da ultimo dire che «il sistema funziona». Paradossalmente anche o proprio da quelli che dicevano di volerlo cambiare per via referendaria in una alleanza contronatura tra Partito Radicale e Lega di Salvini, della cui vena garantista è lecito dubitare.
A meno che per garantismo non si intenda solo quello verso i Mori e i Morisi, vale a dire i potenti. Un garantismo a corrente alternata che, non da oggi, caratterizza le destre di questo paese. È bastata la sentenza assolutoria nel processo di appello sulla «trattativa Stato-mafia» per far loro affermare con giubilo e soddisfazione che il sistema giudiziario funziona. Come funziona, e quali interessi difenda, ce lo ha ora di nuovo mostrato l’entità abnorme della pena inflitta a Mimmo Lucano.
Non è certo il generale Mori a essere rappresentativo del mondo dolente e variegato delle vittime della giustizia che affollano a decine di migliaia le celle. È a loro che è rivolto un diverso, più credibile e potenzialmente incisivo referendum: quello per la legalizzazione della cannabis, promosso, tra gli altri, da Forum Droghe e Società della Ragione.
da il manifesto