Carcere: il 41-bis è una tortura, ma tutti tacciono per paura di apparire collusi con la mafia
Il principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, continuamente sbandierato come limite e come garanzia fondamentale su cui si regge il nostro ordinamento sembra talmente ovvio che se taluno lo definisse una banalità non si sottrarrebbe ad una censura di blasfemia. Solo coloro che la legge l’applicano (o la subiscono) tutti i giorni sanno che la legge prima ancora di essere applicata va interpretata.
Non c’è quindi da stupirsi se si ritenga compatibile con l’anzidetto principio di uguaglianza la disposizione di legge che disciplina il “carcere duro” per i più pericolosi criminali: le disuguaglianze infatti non derivano solo dalla riserva di trattamenti differenti, ma anche dall’applicazione di trattamenti uguali a coloro che si trovano in situazioni diverse.
Quindi con buona pace di Cesare Beccaria che aveva tessuto le lodi della pena detentiva, non soltanto per la sua perfetta frazionabilità, ma soprattutto per l’uguaglianza del trattamento che veniva riservato a tutti i rei che venivano privati allo stesso modo del medesimo bene, ossia della libertà personale, ancora oggi la nostra legislazione non riesce a liberarsi del famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, ossia di quell’istituto noto con il termine di carcere duro che, introdotto come rimedio eccezionale e temporaneo nel 1992 dopo la strage di Capaci e di Palermo, è diventato ormai definitivamente acquisito nell’ordinamento e che nessuno si azzarderebbe più ad abrogare o soltanto a modificare per non essere additato come amico delle più famigerate organizzazioni criminali.
Si tratta di una disposizione normativa che rende la vita carceraria nel nostro paese non dissimile da quella che veniva riservata ai detenuti in epoca medioevale.
Nella culla del diritto dove anche l’esecuzione della pena è giurisdizionalizzata, ossia affidata al controllo della magistratura di sorveglianza, nel trattamento previsto dall’art. 41 bis è limitata la possibilità di controllo giurisdizionale. Tutto ciò che ad altri è consentito, ai detenuti in regime di 41 bis è vietato. A loro è consentito un colloquio al mese attraverso i vetri con l’obbligo di controllo auditivo e di videoregistrazione.
Sono limitati i colloqui anche con i difensori. L’aria non può essere fruita in gruppi superiori a 4 persone e non può protrarsi più di due ore al giorno. Il regime carcerario in parola è stato definito un’autentica tortura. Ma più che la necessità di adeguare qualsiasi trattamento penitenziario al livello di civiltà raggiunto dal nostro paese, prevalgono gli interessi elettorali, politici e di potere. L’etica penale viene così piegata dinanzi al consenso populista, mediatico e politico.
Ci sono persone sottoposte al regime del 41 bis dal 1992. Centinaia di persone condannate a vivere come gli animali in un bioparco: vengono alimentati, se necessario curati, ma privati di qualsiasi altro diritto in genere riconosciuto agli uomini, anche se condannati per crimini efferati. Trascorrono ventidue ore su ventiquattro nell’inattività più totale, in pochi metri e in sostanziale isolamento. Non possono abbracciare figli, padri, madri, nipoti, talvolta anche per il resto dei loro giorni. Un giorno di carcere trascorso in tali condizioni equivale esattamente ad un giorno trascorso nelle carceri normali o ad un giorno trascorso dai più fortunati in regime di arresti domiciliari o addirittura di semilibertà. Ma la legge è uguale per tutti. E tutti tacciono, per paura di apparire collusi con la mafia.
Adriano Francesco Verde – Agenzia Fuoritutto
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