L’articolo 27 della Costituzione prevede chiaramente la “rieducazione” del condannato. Non quello di morire.
Massimo Floris, 19 anni, in attesa di processo, si è impiccato, recentemente, in una cella del carcere di Cagliari, il Buoncammino. E’ uno dei tanti che si è tolto la vita in carcere, una vita senza prospettive, senza speranza, senza futuro. Ammazzarsi a 19 anni è terribile ma Massimo è in buona compagnia. Dall’inizio dell’anno (sino a metà dicembre 2007), i suicidi nelle carceri italiane sono stati 43. E’ una cifra in difetto perché è sempre molto difficile avere dati precisi sulle morti in carcere. I tentati suicidi, invece, nel 2006 (ultimi dati conosciuti), sono stati ben 640.
Massimo Floris era “dentro” per una rissa avvenuta un anno fa quando lui, solo diciottenne, aveva accoltellato un giovane di 24 anni. Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 15 volte maggiore rispetto alle persone libere (dal 1991 al 2006 il tasso di suicidi è stato compreso tra lo 0,65 e lo 0,68 ogni 10 mila abitanti) soprattutto se sono ospiti di istituti carcerari fatiscenti, come appunto il Buoncammino, con poche attività trattamentali, con scarsa presenza del volontariato.
Ed è proprio in situazioni come questa che l’idea del suicidio prende corpo, soprattutto sui giovani, sui più fragili che perdono ogni speranza. Basta poco. Basta una lettera che non arriva, un colloquio non effettuato con un parente oppure, come il caso di Massimo, l’intenzione della fidanzata di lasciarlo. Anche i primi giorni di detenzione sono momenti a “rischio”, così come la notizia di un trasferimento in un altro carcere, l’esito negativo di un ricorso alla magistratura, la revoca di una misura alternativa al carcere. Tutti momenti difficili da superare per chi è solo col suo dramma e sa benissimo che anche se riacquisterà la libertà gli rimarrà il “marchio” del delinquente, una vita ai margini, con sofferenza fisica e psicologica.
Cosa avrà pensato Massimo? E gli altri prima di lui? Quali i suoi sentimenti, le sue aspettative, le sue passioni. Nessuno sa nulla. I giornali, anche quando portano la notizia di un suicidio o di una morte in carcere – il che non avviene sempre – fanno solo statistiche, scrivono numeri, spersonalizzano e violentano, ancora una volta la vita di queste persone. Si scrive 43 suicidi. Punto. E invece sono 43 vite umane recise. Persone di cui non conosciamo nulla e di cui non ricorderemo più nulla dopo aver letto la notizia.
La stessa cosa avviene per chi non si toglie la vita ma muore comunque in carcere. Quest’anno sono stati 117 (sempre sino a metà dicembre) le persone, uomini e donne che sono morti in carcere. Anche qua le cifre, certamente fredde e aride, sono in difetto. Non sempre le morti si conoscono, alcuni muoiono nel tragitto fra il carcere e l’ospedale, altri in ospedale. Ecco allora che la morte non è ascritta al carcere, ma alla conseguenza della malattia. E anche in tutti questi casi non sappiamo nulla del loro vissuto. Al lettore basta sapere che è morto un “delinquente”. Qualcuno penserà: uno di meno! Basta sapere che loro, i “delinquenti”, siano messi in condizioni di non nuocere. Se poi chi muore è uno straniero, difficilmente si verrà a sapere della sua morte. Chi non ha una cerchia di parenti, avvocati, amici solidali, volontari, spesso scompare, è solo un nome e, forse, neppure quello vero.
Molti non dovrebbero neppure stare in carcere e, invece, in carcere ci stanno e ci muoiono. In questi giorni c’è un gran dibattito se concedere la grazia o meno all’ex poliziotto ed ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada. Condannato, definitivamente, a 10 anni per collusione con la mafia, Contrada da “servitore dello Stato” è diventato “servitore della mafia”. Oggi dice che è malato ed è incompatibile con il carcere. Sono d’accordo. Ma sono d’accordo a concedere la grazia a tanti altri detenuti meno noti che, pur malati, in carcere ci stanno e spesso ci muoiono.
Uno degli ultimi casi è quello di Fabrizio Ciappetta, 44 anni, morto dopo il suo ricovero all’ospedale “Santo Spirito” di Roma. Ormai era da tempo su una sedia a rotelle e pesava 120 chili. E’ rimasto paralizzato dopo aver subito una lesione midollare in carcere (sulle cui circostanze è aperto un procedimento penale) e le sue condizioni sono andate sempre a peggiorare. Per bloccare i dolori gli davano cortisone e metadone (la morfina, in carcere è proibita). Agli inizi di novembre il centro clinico del carcere di Rebibbia aveva segnalato l’incompatibilità del Ciappetta con il carcere.
Ex componente della banda della Magliana, Fabrizio Ciappetta aveva passato una ventina d’anni in carcere. Un anno fa, mentre era in misura alternativa aveva tentato una rapina. Arrestato era stato riportato in carcere.
Anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma, Gianfranco Spadaccia, si era rivolto al Tribunale di Sorveglianza che aveva però respinto l’istanza perché precedentemente il detenuto aveva tentato di rapinare un negozio, non tenendo conto che i medici avevano sentenziato che la malattia degenerativa escludeva del tutto il ripetersi di questa possibilità.
Certamente Fabrizio Ciappetta non era una “mammoletta”. Bisogna però ricordare che in Italia non vige la pena di morte e che i detenuti assegnati alle carceri hanno il diritto di curarsi e che lo Stato deve garantire questo diritto. L’articolo 27 della Costituzione prevede chiaramente la “rieducazione” del condannato. Non quello di morire.
Massimo Floris era “dentro” per una rissa avvenuta un anno fa quando lui, solo diciottenne, aveva accoltellato un giovane di 24 anni. Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 15 volte maggiore rispetto alle persone libere (dal 1991 al 2006 il tasso di suicidi è stato compreso tra lo 0,65 e lo 0,68 ogni 10 mila abitanti) soprattutto se sono ospiti di istituti carcerari fatiscenti, come appunto il Buoncammino, con poche attività trattamentali, con scarsa presenza del volontariato.
Ed è proprio in situazioni come questa che l’idea del suicidio prende corpo, soprattutto sui giovani, sui più fragili che perdono ogni speranza. Basta poco. Basta una lettera che non arriva, un colloquio non effettuato con un parente oppure, come il caso di Massimo, l’intenzione della fidanzata di lasciarlo. Anche i primi giorni di detenzione sono momenti a “rischio”, così come la notizia di un trasferimento in un altro carcere, l’esito negativo di un ricorso alla magistratura, la revoca di una misura alternativa al carcere. Tutti momenti difficili da superare per chi è solo col suo dramma e sa benissimo che anche se riacquisterà la libertà gli rimarrà il “marchio” del delinquente, una vita ai margini, con sofferenza fisica e psicologica.
Cosa avrà pensato Massimo? E gli altri prima di lui? Quali i suoi sentimenti, le sue aspettative, le sue passioni. Nessuno sa nulla. I giornali, anche quando portano la notizia di un suicidio o di una morte in carcere – il che non avviene sempre – fanno solo statistiche, scrivono numeri, spersonalizzano e violentano, ancora una volta la vita di queste persone. Si scrive 43 suicidi. Punto. E invece sono 43 vite umane recise. Persone di cui non conosciamo nulla e di cui non ricorderemo più nulla dopo aver letto la notizia.
La stessa cosa avviene per chi non si toglie la vita ma muore comunque in carcere. Quest’anno sono stati 117 (sempre sino a metà dicembre) le persone, uomini e donne che sono morti in carcere. Anche qua le cifre, certamente fredde e aride, sono in difetto. Non sempre le morti si conoscono, alcuni muoiono nel tragitto fra il carcere e l’ospedale, altri in ospedale. Ecco allora che la morte non è ascritta al carcere, ma alla conseguenza della malattia. E anche in tutti questi casi non sappiamo nulla del loro vissuto. Al lettore basta sapere che è morto un “delinquente”. Qualcuno penserà: uno di meno! Basta sapere che loro, i “delinquenti”, siano messi in condizioni di non nuocere. Se poi chi muore è uno straniero, difficilmente si verrà a sapere della sua morte. Chi non ha una cerchia di parenti, avvocati, amici solidali, volontari, spesso scompare, è solo un nome e, forse, neppure quello vero.
Molti non dovrebbero neppure stare in carcere e, invece, in carcere ci stanno e ci muoiono. In questi giorni c’è un gran dibattito se concedere la grazia o meno all’ex poliziotto ed ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada. Condannato, definitivamente, a 10 anni per collusione con la mafia, Contrada da “servitore dello Stato” è diventato “servitore della mafia”. Oggi dice che è malato ed è incompatibile con il carcere. Sono d’accordo. Ma sono d’accordo a concedere la grazia a tanti altri detenuti meno noti che, pur malati, in carcere ci stanno e spesso ci muoiono.
Uno degli ultimi casi è quello di Fabrizio Ciappetta, 44 anni, morto dopo il suo ricovero all’ospedale “Santo Spirito” di Roma. Ormai era da tempo su una sedia a rotelle e pesava 120 chili. E’ rimasto paralizzato dopo aver subito una lesione midollare in carcere (sulle cui circostanze è aperto un procedimento penale) e le sue condizioni sono andate sempre a peggiorare. Per bloccare i dolori gli davano cortisone e metadone (la morfina, in carcere è proibita). Agli inizi di novembre il centro clinico del carcere di Rebibbia aveva segnalato l’incompatibilità del Ciappetta con il carcere.
Ex componente della banda della Magliana, Fabrizio Ciappetta aveva passato una ventina d’anni in carcere. Un anno fa, mentre era in misura alternativa aveva tentato una rapina. Arrestato era stato riportato in carcere.
Anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Roma, Gianfranco Spadaccia, si era rivolto al Tribunale di Sorveglianza che aveva però respinto l’istanza perché precedentemente il detenuto aveva tentato di rapinare un negozio, non tenendo conto che i medici avevano sentenziato che la malattia degenerativa escludeva del tutto il ripetersi di questa possibilità.
Certamente Fabrizio Ciappetta non era una “mammoletta”. Bisogna però ricordare che in Italia non vige la pena di morte e che i detenuti assegnati alle carceri hanno il diritto di curarsi e che lo Stato deve garantire questo diritto. L’articolo 27 della Costituzione prevede chiaramente la “rieducazione” del condannato. Non quello di morire.
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