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Carceri: come si ordina un omicidio. Riflessioni a margine della pubblicazione del video…

Alcune riflessioni, dopo aver visto il video che per alcuni giorni è comparso sulla pagina di Repubblica on line. Titolo: come si ordina un omicidio. Nelle immagini Giovanni Di Giacomo, che darebbe l’ordine al fratello di uccidere alcuni esponenti mafiosi. Giuseppe Di Giacomo, il fratello, verrà poi ucciso prima di portare a termine il mandato…

Un racconto che fa orrore, per la crudeltà e la ferocia. Giusto inorridirsi e sapere. Eppure, mi sono chiesta, è giusto che l’informazione su quanto avviene in carcere, a proposito di boss e appartenenti o ex appartenenti a vario titolo a organizzazioni criminali sia solo questa? Dare in pasto solo brandelli d’informazione, quella che fa più effetto, quella che fa più orrore? Io penso che non basti e che non sia neanche giusto. Non basta ad aiutarci a capire situazioni complesse come quelle del mondo della criminalità e delle mafie. Mentre rimane un racconto che, piuttosto che aiutarci a capire e ragionare su strade possibili, si limita ad assecondare l’attesa di un’opinione pubblica già così incline a pensare che sempre e solo di mostri si tratti, mostri irredimibili, che la pena degli altri, sempre e comunque coincida con la nostra sicurezza, e che si getti pure la solita chiave…
Una riflessione, che non vuole insegnare naturalmente niente a nessuno. Solo invitare a interrogarsi. Sono stata anch’io per qualche tempo cronista. Pur occupandomi prevalentemente di “bianca”, come si diceva, è capitato anche a me di fare “un minutino” per i tg su operazioni di polizia, e quant’altro. Tot arrestati, tot condanne, plauso… e tutto finiva lì. Da qualche anno, da quando ho iniziato a entrare in alcune carceri, a guardare in faccia persone che dal mondo della criminalità vengono e interloquire con loro, ho capito che la realtà delle persone che pensiamo “le peggiori” può essere anche altra. Non cercare di indagare anche queste realtà, non affiancarne il racconto a ciò che ci piace tanto mettere in prima pagina per l’effetto che fa, ho capito sia cosa non giusta, anche e soprattutto se dichiariamo che è una società migliore, “libera dalle mafie”, quella che vogliamo…
Frequentando e confrontandomi con alcuni ergastolani appartenuti ad organizzazioni criminali, ho capito che le storie proprio quando alle loro spalle si chiudono i cancelli di un carcere cominciano. E possono prendere tante direzioni. Possiamo incontrare i Di Giacomo, certo, ma ho conosciuto anche persone, venute dallo stesso ambiente, in regime di alta sicurezza, e che pure durante decenni di carcere un percorso positivo davvero l’hanno fatto. E non è questo ciò che poi la Costituzione richiederebbe come fine della pena? Il fine rieducativo enunciato dall’art.27. Uno dei più violati della Costituzione. Ma qualche volta accade… Con alcuni continuo a scambiare parole, racconti. Conosco storie sorprendenti. Ma chi parlerà mai, se non come dato “folkloristico”, di Carmelo Musumeci che in carcere si è laureato in giurisprudenza e ora scrive i ricorsi per chi non ha avvocato. O di Alfredo Sole che mi scrive lettere zeppe di filosofia, o Giovanni Lentini, che studia religioni ortodosse, o di Claudio Conte che argomenta di leggi e di romanzi, o di Pasquale De Feo che si è dato a studi storici sul meridione per trovare anche il senso della “sua” personale storia? E perché non dare lo stesso risalto del video che abbiamo visto alla storia di Marcello Dell’Anna, che non solo si è laureato in giurisprudenza ma, udite udite, ha poi continuato gli studi e nei mesi scorsi la scuola forense di Nuoro gli ha affidato il ruolo di relatore nel corso di formazione giuridica per avvocati che si è tenuto fra gennaio e febbraio. Dagli atti ne verrà un libro che sarà presentato, nel carcere di Badu ‘e Carros, il 13 giugno… Ebbene, Dell’Anna è stato boss della corona unita, in carcere da quando aveva 23 anni, ora ne ha 46. Vorrei farvi leggere cosa scrive e come lo scrive… Ancora un nome: Mario Trudu. Ho appena finito di seguirne l’autobiografia. Uscirà in agosto, con Strade Bianche… Un libro crudo, che non risparmia nulla né a sé né agli altri. Un giorno gli ho chiesto se non ritenesse di “smussare “ alcuni racconti. Lui mi ha risposto che no, che se ha scritto questo libro è perché vuole che le persone sappiano esattamente chi è stato, per capire la differenza con quello che è adesso. E un po’ del mio stupido consiglio mi sono vergognata… Ecco, perché non dare adeguato risalto anche a queste storie? Davvero non ci importa più di loro se hanno seguito il percorso a cui tutti, in carcere, dovrebbero tendere? Ma non è ciò per cui ( anche ) sono stati messi in galera? Eppure, e lo testimonia chi questi percorsi ha seguito, c’è chi è ormai giunto ad un livello di maturità tale da non dimenticare nemmeno per un istante il dolore delle vittime… Dare adeguato spazio a questo significherebbe anche rendere merito e aiutare chi nell’amministrazione penitenziaria agisce in questa direzione pur nelle condizioni difficili, quando non impossibili, che conosciamo. In un momento in cui si richiede l’impegno di tutti nella lotta contro le mafie, perché allora non far sapere che una strada è possibile, che c’è chi, dopo aver sofferto e aver raggiunto un profondo intimo cambiamento,( e provate un secondo a immedesimarvi: entrare in carcere a 25 anni ed essere ancora lì a 50, 60…) potrebbe offrire alla società la testimonianza del suo percorso? E invece no, vincono gli orrori… cosa che poi, anche se non vogliamo, diventa ben funzionale alla necessità di dare in pasto alla gente, all’elettorato, direi in questo momento, norme sempre più restrittive, spesso feroci, che come nella pesca con reti a strascico rastrellano le periferie, e non intendo solo in senso fisico, delle nostre città…
Mi piacerebbe che fossero i giovani cronisti a ragionare su questo. A chiedersi se la cronaca “nera” debba finire precisamente dove inizia “la bianca” o la “società”, come si dice adesso, e non saperne nulla l’una dell’altra. Con tutte le differenze del caso, queste catalogazioni mi fanno lo stesso triste effetto di quando mi sono occupata per radiouno di una rubrica sulla disabilità. Storie di persone, ma anche questioni politiche e di economia e lotte “di classe”, libri, cultura… Non ho mai veramente capito quando e perché la storia di una persona con disabilità possa uscire dal recinto di una rubrica ed essere “degna” di diventare cronaca, quando bianca e quando nera… In generale, non ho mai capito, e mi rifiuto di capirlo, dove finisca la cronaca e dove inizi la cultura…
Tornando alla criminalità, mi sono chiesta e continuo a chiedermi: ma il carcere “duro” non è stato studiato, oltre che per punire, per educare anche i criminali? E perché allora quando succede, che le condizioni portino a una profonda riflessione sulla vita che è stata, non ne vogliamo sapere, come si trattasse di errori di scrittura….
Credo che continuando a dividere il mondo in bianco e nero, e stabilendo da subito chi è bianco e chi è nero, e occupandoci solo di chi appare subito evidente “nerissimo”, e così vogliamo che rimanga, non facciamo che assecondare le derive peggiori del nostro fragile, impaurito, pensiero…
Francesca de Carolis
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