Mauro Palma dal punto di vista del Garante delle persone private della libertà cosa pensa della nomina di Luciana Lamorgese, ex prefetto di Milano e ex capo gabinetto di Angelino Alfano al Viminale, a nuovo ministro dell’Interno?
Un prefetto d’esperienza come lei è una buona occasione per sviluppare una politica che risponda insieme a due esigenze apparentemente contrapposte: quella della sicurezza e quella della risposta umanitaria. C’è bisogno di far crescere culturalmente il Paese, abbandonare la logica del rifiuto nei confronti di persone che arrivano per cercare un inserimento. Lamorgese è sicuramente una persona che può rappresentare questo punto di equilibrio. Io ero scettico sulla possibilità di mettere al Viminale una personalità molto schierata contro le politiche adottate finora dal ministro Salvini, tanto più in un governo che nasce nelle aule parlamentari e non da una sconfitta elettorale, perché avrebbe potuto suscitare un rigurgito sociale negativo. È necessario piuttosto ricostruire un tessuto di dialogo, sviluppare una cultura più serena rispetto a situazioni oggettivamente difficili. Non basta negare la fondatezza della percezione, diffusa nella società, di essere aggrediti dai migranti. Bisogna trovare il modo di far capire che la contingenza può essere vissuta in maniera più armonica. Da quel poco che ho potuto vedere – ho conosciuto la prefetta Lamorgese nel 2016 quando è stato attivato l’ufficio del Garante – lei è una persona che dà molta fiducia ai corpi intermedi, agli svincoli di mediazione, alle autorità di garanzia. Quindi sono molto fiducioso.
Alla Giustizia è stato confermato il ministro Alfonso Bonafede. Una buona notizia?
Se devo fare un bilancio di ciò che c’è stato finora dal punto di vista dell’esecuzione delle sentenze e del carcere, devo dire che siamo tornati ad una situazione che definire molto allarmante è poco. In questo istante, 60.785 persone sono detenute nelle carceri italiane che contano 50.462 posti letto, di cui però 3.700 non sono utilizzabili per lavori vari. C’è dunque un problema di sovraffollamento, ma non solo. Mentre nei mesi scorsi c’era stato un rallentamento, ora il numero di detenuti è tornato a crescere. E non c’è un aumento dei reati, lo abbiamo detto tante volte, né un aumento degli ingressi in carcere. Aumentano invece le «non uscite».
Perché, cosa è cambiato?
È cambiato che oggi parlare di misure alternative è come pronunciare una parolaccia. Più in generale possiamo dire che c’è un problema di osmosi tra il dentro e il fuori del carcere. Da un lato, le celle sono spesso il punto di arrivo di fallimenti di politiche territoriali, si riempiono di “prodotti” della marginalità sociale. Dall’altro lato, per quanto riguarda l’esecuzione penale, non si dà fiducia a ciò che c’è fuori dal carcere, al territorio. È significativo il fatto che ci siano più di 30 mila reclusi che devono scontare meno di tre anni di carcere. In questo momento 8700 detenuti hanno un residuo di pena di meno di un anno e altri 8 mila devono scontare meno di due anni. Non sarebbe possibile pensare un modo diverso di far tornare liberi questi carcerati? In condizioni di sicurezza, ovviamente, non affidandoli genericamente a servizi sociali o simili.
Il ruolo del ministro, in tutto questo?
Sono questioni che si risolvono nell’ambito di un progetto culturale. Che manca. E di cui il ministro è anche un costruttore. Il ministro Bonafede – che, devo riconoscere, si è emancipato dagli slogan usati all’inizio, e ha dimostrato un’evoluzione nel linguaggio e nella riflessione sui temi del carcere, in questi 14 mesi – si è di certo impegnato. E ha anche compiuto alcuni passi avanti, per quanto riguarda la detenzione in carcere. Quello che tuttora manca invece è un’idea progettuale sull’esecuzione penale. Si è andata perdendo, e va recuperata. Va rivista e ripensata l’idea stessa della rieducazione e del reinserimento, non c’è solo la funzione di contenimento. In questo senso, credo che quanto elaborato dagli Stati generali del 2016 sia ancora materiale buono per riaprire una discussione.
Con il Pd nel governo crede che cambierà qualcosa?
Bah, in ogni partito ci sono interlocutori più aperti o meno aperti all’inclusione. Non a caso neppure il precedente governo Pd emanò i decreti attuativi della riforma voluta dal ministro Orlando. Sicuramente però ora mi aspetto che sparisca il linguaggio di odio che era diventato quasi istituzionale: «Marcire in galera», i «lavori forzati a vita», ecc. Il linguaggio è un costruttore di categorie, va cambiato.
Lo può fare il ministro Bonafede?
Credo di sì, io trovo positiva la continuità al ministero di Giustizia. Anche se sono necessari altri contrappesi – che finora non ci sono stati – affinché si possa riaprire la riflessione su «cosa deve essere il carcere».
La convivenza di “sensibilità” diverse all’interno del governo, dal populismo penale fino al garantismo, può produrre qualche risultato positivo?
In generale, siccome sono culture esistenti nel Paese, quanto più si costruiscono luoghi dove si possono confrontare, meglio è.
C’è speranza, dunque? (E non solo nel senso del nuovo ministro).
Io sono chiamato a doverla avere. Nel senso che c’è sempre speranza di affermare nel concreto i diritti. E quando non ci si riesce, c’è sempre una responsabilità perché ciò non avviene. Anche nostra, anche mia.
Eleonora Martini
da il manifesto