Quando finiscono le pene, i detenuti sono abbandonati a se stessi, perché manca una rete sociale dello Stato per supportare i cittadini ex detenuti che finiscono di pagare il loro debito con la giustizia. Questa mancanza sociale comporta che la recidiva in Italia sia la più alta d’Europa, circa il 70% ma con punte del 90% nel Meridione perché, come in tutti i campi, anche in quello penitenziario ci sono due Italie: nel Nord ci sono eccellenze come il carcere di Bollate (Milano), che sono riusciti a portare la recidiva al 10%. Ci sono riusciti perché hanno creato una rete di lavoro con l’aiuto di ditte esterne e associazioni di volontariato.
Le ditte hanno portato il lavoro all’interno del carcere; con la scarcerazione o con le pene alternative, i detenuti possono fare lo stesso lavoro nella medesima ditta o una similare. In altre realtà del Nord hanno creato esperienze simili perché il sistema penitenziario, in una parte del Paese si apre e nell’altra si chiude e funziona solo nella repressione.
La prima riforma che necessiterebbe il sistema sarebbe quella di creare una rete sociale nazionale per supportare sia i detenuti che escono con le pene alternative sia quelli che vengono scarcerati, incrementare la legge Smuraglia in modo che l’incentivo di non pagare i contributi, stimoli le ditte ad assumere detenuti ed ex detenuti, allargando la copertura di tutela sociale su tutto il territorio nazionale. Anche in termini economici è conveniente per lo Stato, perché un punto di percentuale in meno di recidiva sarebbe un risparmio di 51 milioni di euro all’anno.
Se la recidiva fosse portata al 10% come nel carcere di Bollate, ci sarebbe il 60% in meno di recidiva, che tradotto in euro sono 3 miliardi. Con una cifra simile si potrebbe programmare seriamente la rieducazione e il reinserimento, con una prospettiva per tutti i detenuti ed ex.
All’interno delle carceri del Nord, ci sono realtà che ci mettono alla pari con le civiltà europee; nel Sud ci mettono alla pari con i Paesi arabi.
I lavori nella maggioranza delle carceri, con prevalenza quelli del Sud, sono quelli della sezione: portavivande, lavorante di sezione e spesino, con una paga che non basta neanche per i bisogni primari perché in media è sui 100 euro.
L’art.36 della Costituzione sancisce che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza dignitosa”. Nel caso specifico è disatteso anche l’art.22 dell’O.P. che stabilisce che la paga non deve essere meno dei 2/3 del contratto collettivo, ma anche in questo caso non viene rispettato.
Ciò succede anche con l’art.26 comma 10 delle Regole Penitenziarie Europee, che stabilisce che “il lavoro dei detenuti deve essere remunerato in modo equo”.
Purtroppo con la paga che viene rilasciata si mortifica la dignità dei detenuti. All’interno delle carceri non c’è formazione lavorativa, e anche quando c’è qualche corso rimane fine a se stesso, senza nessuna prospettiva di lavoro; questo impedisce di programmare un futuro.
I disagi sociali derivano dalla mancanza di lavoro e di una struttura istituzionale locale; solo quella della repressione funziona a pieno regime.
La repressione non ha mai risolto i problemi anzi li ha sempre moltiplicati; il lavoro, la scolarizzazione e la formazione rendono consapevoli della dignità di cittadini e dei loro diritti e doveri.
Lo scrittore Bufalini negli anni Sessanta, rispondendo ad un’intervista disse: “La devianza si vince solo con gli strumenti del lavoro, lavoro, lavoro, e più libri, libri, libri”.
L’aveva capito circa quarant’anni fa, ma ancora oggi tutto è improntato sull’oppressione repressiva.
Catanzaro, agosto 2012
Pasquale De Feo.
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e allora che srivi a fare se non vuoi essere criticato,
in carcere ci sei mai vissuto?