Carceri sovraffollate e promiscuità forzata. L’epidemia dimenticata tra gli “invisibili”
Dilaga la falsa credenza che il carcere sia il luogo più sicuro. Se i 21 parametri utilizzati dal governo per tracciare la mappa cromatica del contagio Covid fossero applicati al sistema penitenziario italiano, il rosso non basterebbe a segnalare lo stato di allarme pandemico: servirebbe una tonalità di colore più violenta.
E forse andrebbero rivisti anche altri indicatori, quali quelli relativi alle fasce di età maggiormente colpite: come spiegare, infatti, che su una popolazione detenuta infantile (avete letto bene: infantile) di 33 minori, si registrino più casi di positività?
A quanto riferisce la bravissima Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino, Monica Gallo, due bimbi di appena pochi anni, reclusi con le proprie madri nell’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) presso il carcere cittadino, sono risultati positivi per alcune settimane. Ma quello dei bambini galeotti (o meglio: degli innocenti assoluti prigionieri) è tema da rinviare.
Qui si parla di adulti, muovendo dalla vicenda di Antonio Tomaselli, condannato in passato per associazione mafiosa e oggi sottoposto al regime di 41bis nel carcere di Milano-Opera, in custodia cautelare e imputato per fatti non di sangue.
Nel luglio del 2017, gli vengono diagnosticati tumori inoperabili ai polmoni e al surrene e pochi anni di vita. Il 31 ottobre scorso viene ricoverato d’urgenza perché risultato positivo al Covid, ma la moglie verrà avvertita solo il 2 novembre da una generica informativa del carcere. Tomaselli è stato per più giorni tra i detenuti positivi “invisibili”. Infatti, per un’intera settimana – come ha documentato il valente cronista del Dubbio, Damiano Aliprandi – i rapporti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sui detenuti positivi indicavano alla voce “Carcere di Opera” un rotondo 0. E ciò nonostante che si avessero notizie certe della presenza di almeno sei contagiati, alcuni dei quali già in terapia intensiva. Nasce anche da qui la credenza che vorrebbe il carcere, e (ancor meglio!) il regime di alta sicurezza e quello di 41bis, come i più efficaci strumenti di protezione dal contagio. Il che non solo ha portato il Fatto Quotidiano a sostenere che la prigione è il luogo ideale per evitare la pandemia, ma anche altri a cadere nel medesimo errore.
Il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli, ha scritto che l’isolamento imposto dal 41bis “ha il pregio di tutelare la salute dei detenuti”. Grazie al cielo, non tutti la pensano così. Il magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito, riferendosi al 41bis, ha scritto: “Benché il detenuto sia sottoposto a regime differenziato e dunque allocato in cella singola, ben potrebbe essere esposto a contagio in tutti i casi di contatto con personale della polizia penitenziaria e degli staff civili che ogni giorno entrano ed escono dal carcere”.
Tutto ciò per arrivare a ricordare gli attuali numeri della pandemia in carcere, che sembrano costituire un’autentica emergenza nell’emergenza. Lunedì scorso, i positivi tra i detenuti erano 758, quelli tra il personale amministrativo e di polizia oltre 900. Non c’è da stupirsi. Il carcere è il luogo più affollato d’Italia e la cella può essere lo spazio più congestionato e insalubre dell’intero sistema penitenziario.
Bisogna averlo visto: camere dove si trovano anche sei, sette, otto maschi adulti, in una promiscuità coatta e degradante; corpi che si incontrano, si scontrano, si urtano, si incrociano; sudori, umori, efflussi, liquidi; e defecare, urinare, mangiare, lavare, cucinare, tutto in pochi metri quadrati, in un’intimità forzata, antigenica e patogena. Ecco, è qui che si dovrebbe adottare il “distanziamento sociale”. Nel corso della prima ondata del virus tutto ciò restò come trattenuto e i numeri della pandemia si fermarono a circa 250 contagiati tra i detenuti e a circa 500 tra il personale.
C’è una spiegazione per una crescita così prepotente del contagio? Sofia Ciuffoletti, docente dell’Università di Firenze, partendo da uno studio di100 anni fa sull’andamento dell’influenza Spagnola nel carcere statunitense di San Quentin, suggerisce: le istituzioni totali, vale anche per le Rsa, “possono essere inizialmente preservate dal contagio ma, appena colpite, la diffusione si rivela assai più rapida, proprio a causa delle condizioni di convivenza altamente integrata”.
E tanto più “quando la struttura non riesce a garantire spazi per l’isolamento terapeutico”. Ecco, gli spazi. Secondo i dati più recenti, la popolazione detenuta ammonta a 54.815 unità, rispetto a una capienza virtuale di 50.552, ai quali vanno sottratti 3.447 posti non disponibili, con una percentuale di affollamento pari al 116,37% (e queste sono le cifre ufficiali sulle quali l’esperienza induce a nutrire qualche timido dubbio).
Di fronte a una simile situazione, si impone l’ineludibile necessità di ridurre, in tempi stretti e in misura significativa, il numero dei reclusi. Le misure finora adottate si sono rivelate palesemente incapaci di invertire la tendenza alla congestione e, di conseguenza, all’ulteriore diffusione del contagio. E molti segnali fanno temere che l’amministrazione penitenziaria voglia procedere verso una sorta di “chiusura del carcere”, limitando tutte le attività trattamentali, quelle lavorative, scolastiche e formative, i colloqui con i familiari e i rapporti con l’esterno.
Sarebbe davvero la soluzione peggiore. All’opposto, a sostegno di provvedimenti di legge che riducano la popolazione detenuta, senza compromettere in alcun modo la sicurezza collettiva, si sono espressi magistrati e sindacati di polizia, associazioni per i diritti umani e la Conferenza dei Garanti territoriali. E attualmente sono in sciopero della fame numerosi cittadini (tra cui Sandro Veronesi, Roberto Saviano e Alessandro Bergonzoni) che, guidati da Rita Bernardini, si battono per evitare un po’, almeno un po’, di sofferenza non necessaria. Mi si chiederà: e la sofferenza delle vittime dei reati? Certo, quella c’è ed è enorme: ma davvero pensiamo che addizionare dolore a dolore produca esiti positivi?
Luigi Manconi
da La Stampa