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I primi “carichi residuali” deportarti nei centri di reclusione in Albania

Migranti chiamati dal ministro Piantedosi “carichi residuali” deportati sulla nave dei rifiuti umani in Albania. Sono originari dell’Egitto e del Bangladesh. L’arrivo previsto per mercoledì mattina

di Marina Della Croce da il manifesto

Dopo tanti annunci alla fine i primi migranti destinati ai due centri che l’Italia ha aperto in Albania sono partiti ieri da Lampedusa a bordo della nave militare Libra. Chi si aspettava grandi numeri, però, è rimasto deluso. A bordo del pattugliatore della Marina, che arriverà mercoledì nel porto di Schengjin dove si trova il primo dei due hotspot voluti dal governo Meloni, ci sono infatti appena 16 migranti, tutti maschi adulti, come prevede il protocollo siglato nel 2023, non vulnerabili e provenienti da paesi considerati sicuri, in questo caso Egitto e Bangladesh. Un numero talmente esiguo da far sorgere il sospetto che il viaggio serva al governo più che altro a smorzare la possibilità di un fallimento del progetto viste le volte in cui l’apertura dei centri è stata data per fatta e poi è slittata. «In effetti colpisce un numero così ridotto» commenta l’avvocato Gianfranco Schiavone, giurista dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). «Sarebbe interessante capire come sono state selezionate queste persone, se hanno manifestato una debolezza nella loro domanda di asilo, magari dicendo che sono venuti in Italia alla ricerca di un lavoro. Oppure se si è trattato semplicemente di un piccolo sbarco».

I migranti che in queste ore stanno viaggiando verso l’Albania facevano parte di un gruppo più numeroso che si trovava su due barchini partiti dalla Libia e tratti in salvo due notti fa in acque internazionali, ma in area Sar italiana, dalle motovedette della Guardia costiera. Donne, minori e persone vulnerabili sono stati portati a Lampedusa, mentre i sedici rimasti sono stati trasferiti a bordo della Libra in attesa al largo dell’isola siciliana. Una volta giunti nell’hotspot di Schengjin, nel nord dell’Albania, verranno completate le procedure di identificazione e le visite mediche. Da mercoledì mattina, quando è previsto l’arrivo, la sezione immigrazione del tribunale di Roma avrà 48 ore di tempo per confermare il provvedimento di fermo firmato dal questore di Roma.

Chi avrà i requisiti per richiedere asilo verrà trasferito nel centro di Gjader che si trova a venti chilometri di distanza. Sempre lì, ma in una struttura separata ,è stato allestito anche un Cpr per quanti invece dovranno essere rimpatriati. In teoria la procedura di asilo dovrebbe concludersi in quattro settimane: chi ha diritto verrà trasferito in Italia. I tempi per i ricorsi – previsti video collegamenti con il tribunale di Roma per esaminarli – sono stati dimezzati a 7 giorni dal decreto flussi approvato di recente.

Quello in corso in queste ore nel Mediterraneo è però un viaggio nell’incertezza, e non solo per i migranti. Tutto l’impianto normativo messo a punto nei mesi scorsi dal governo per rendere legittimi i centri in Albania, potrebbe infatti essere messo in discussione nelle prossime ore. Se con il decreto flussi il governo ha messo al sicuro le procedure di frontiera prevedendo la possibilità di effettuare i respingimenti anche alle persone salvate in mare, e quindi che non hanno mai messo piede in Italia, una recente sentenza della Corte di giustizia europea rischia di far saltare completamente il protocollo con la Tunisia. La decisione presa il 4 ottobre scorso dai giudici di Lussemburgo fissa infatti paletti più stretti rispetto a quelli previsti dall’Italia per la definizione di paese sicuro, stabilendo che eventuali violazioni dei diritti umani non debbano avvenire in nessuna zona e nei confronti di nessuna persona.

Come siamo arrivati al nostro campo di concentramento

Qualche giorno fa ero stipata in un autobus di linea e al semaforo di un grande incrocio c’erano dei ragazzi che vendevano fazzoletti, o ti proponevano di lavare dei vetri. E il conducente ha detto «ah qui si è aperto un centro commerciale». Allora io lo so che non si parla al conducente ma gli ho riposto.

Come rispondo da una quindicina d’anni quando voglio chiudere rapidamente la questione, cioè da quando lo sentii dire a una vecchietta. Cito sempre quella vecchietta e lei disse: «Chissà che croci devono avere nei paesi loro, per venire qui da noi a dormire in terra». In genere questa frase zittisce rapidamente i razzisti, i fascisti, gli arroganti, i vili, perché è semplice da capire.

Stavolta qualcosa però non ha funzionato e il conducente ha detto non sono d’accordo e ha cominciato a parlare un buon italiano, mi ha detto che la questione va regolamentata. Per non farsi dare del razzista mi ha detto che sua madre, quando lui era piccino, aveva ospitato per sette anni un bambino dell’Africa subsahariana, a casa loro, come un fratello. Per non farsi dare dell’ignorante mi ha detto che sua sorella fino a maggio di quest’anno ha lavorato in un famoso hotspot italiano. Per non farsi dare del fascista ha detto io certo non sono mai stato di destra ma la questione va regolamentata.

Allora, per continuare l’amarcord, anche io gli ho raccontato che avevo una prozia che votava Msi ma che calava due porzioni di pasta in più, tutti i giorni, per dei ragazzi esattamente come quelli che avevamo incontrato al semaforo, perché era cattolica. E poi una notte aveva scoperto che un senza fissa dimora dormiva nella sua auto e gli aveva fatto trovare un cuscino e una coperta.

Insomma io ho conosciuto quell’italiano di cui Giorgia Meloni rivendica il mandato. Guida un autobus di linea, parla bene italiano e sua madre era una donna piena di umanità. Nonostante quella donna gli avesse insegnato che se c’è un bambino che ha bisogno di una casa e si possiede una casa, si ospita quel bambino, perché non c’è differenza ab origine tra le persone, lui quell’analogia ora non la vedeva più. Si era perduta, opacizzata, e diceva cose odiose contro altri esseri umani.

Cioè, ho avuto la sensazione – ma io non sono un’analista politica, è stata solo un’idea da autobus di linea – che questi italiani che hanno dato mandato a Giorgia Meloni per costruire il nostro primo campo di concentramento extraterritoriale se li sono nutriti proprio loro, o sono cresciuti assieme, ci hanno messo una ventina d’anni – cosa è successo in questi ultimi vent’anni? – e hanno creato gli italiani che avranno piacere a vedere come è turrito il campo di Gjader.

Ora noi stiamo qui sgomenti a guardare queste due teorie di muri grigi invalicabili, con le torri d’avvistamento e le luci issate su alti pali, addossate le mura a una parete montuosa brulla, arida, dove non può crescere nulla, e dentro una miriade di container, ciascuno con quattro lettini a castello, dove resteranno in attesa di giudizio, come anime in purgatorio, quelle persone che chiedono a noi la carità al semaforo, e possiamo dire tutto quello che vogliamo sull’orrore che li attende, sulla disperazione, sull’arzigogolo burocratico perverso che li condurrà lì. Ma il punto, credo, è che quel campo di concentramento ha il sorriso di Giorgia Meloni mentre stringe le mani di Edi Rama, e gli occhi di un conducente di autobus di linea in un giorno qualunque. (Valeria Parrella da il manifesto)

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