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Carlo Saturno morì nel carcere di Bari: per il pm non ci sono colpevoli

Terza richiesta di archiviazione. Svanita per la terza volta la speranza di giustizia per Carlo Saturno, morto impiccato in carcere dopo che subì un pestaggio.

Carlo si era affidato alla giustizia, ma trovò la morte. Era il 30 marzo del 2011, cinque anni fa. Dopo uno scontro fisico con un agente di polizia penitenziaria, alla presenza di altri agenti e di detenuti, Carlo Saturno, un ragazzo di soli 23 anni, veniva rinchiuso in una cella di contenimento del carcere di Bari e, dopo poco meno di un’ora, veniva ritrovato soffocato con un lenzuolo legato al collo e già in condizioni disperate. Il 7 aprile Carlo moriva.

Nel 2010, era stato testimone in un processo penale a carico di agenti di polizia penitenziaria minorile imputati per lesioni, abuso dei mezzi di correzione, lesioni gravi ed altri reati.

Carlo, come altri ragazzi, detenuti in quell’istituto minorile, veniva pestato, vilipeso, sbeffeggiato, costretto al silenzio, messo in celle di isolamento, legato nudo alle reti metalliche dei letti. Allora Carlo, come i suoi compagni di sventura, aveva appena 15 anni. Ebbe un enorme coraggio per la sua età: denunciò i fatti affidandosi alla giustizia. Con altrettanto coraggio, poi, si era presentato in aula ed aveva testimoniato su tutto ciò che aveva subito.

Ma la denuncia, sofferta, rabbiosa e solitaria di Carlo non avrebbe prodotto alcun risultato. Dal 7 aprile 2011 ad oggi la Procura di Bari ha richiesto ben tre volte l’archiviazione e ben due volte è stata rigettata dal gip.

La procura del capoluogo ritiene che quella morte non abbia colpevoli, nonostante il gip abbia ripetutamente indicato la necessità di individuare gli agenti di polizia penitenziaria responsabili del pestaggio, i medici che ebbero in cura il ragazzo, gli psicologi e tutti coloro che permisero che restasse solo nella cella in cui fu trovato cadavere, nonostante fosse un soggetto pericoloso per se stesso. “Le indagini non risultano complete” aveva affermato il gip alla penultima richiesta di archiviazione.

Tra le anomalie del tutto senza spiegazione, rilevava anche la circostanza che incredibilmente un soggetto che era considerato fragile e assumeva psicofarmaci, dopo uno scontro fisico con alcuni agenti di polizia penitenziaria, era stato lasciato solo in una cella asfittica dove, forse da solo, aveva avuto la possibilità di stringersi una corda al collo.

Agli atti del pm che chiedeva l’archiviazione, non c’erano i verbali delle sommarie informazioni rese dagli altri detenuti presenti quel giorno nel carcere di Bari, né le cartelle mediche e psichiatriche del ragazzo che ne attestavano la condizione psicologica determinata dalle violenze in passato subite, né erano state raccolte le dichiarazioni dei medici che lo avevano visitato dopo il pestaggio, né di quelli che lo avevano accompagnato in ospedale dopo il tentativo di suicidio, né della sua educatrice cui, a quanto pare, non era stato consentito di incontrarlo sebbene Carlo, dopo quanto accaduto, ne avesse chiesto la presenza perché era in stato di grande agitazione emotiva.

Una inspiegabile voragine investigativa a fronte della notizia di reato elaborata: istigazione al suicidio. Un’ipotesi, in realtà, già oltremodo circoscritta che esclude l’accertamento sulla dinamica del suicidio ed allontana il sospetto sulla eventuale responsabilità di terzi nella drammatica morte del giovane sebbene una perizia disposta dalla Procura ed eseguita dal medico legale Francesco Introna, abbia stabilito che i segni intorno al collo sarebbero compatibili sia con un salto nel vuoto che con un eventuale strangolamento da parte di altri.

Ufficialmente non si conoscono i nomi di coloro che picchiarono Carlo e che lo condussero a forza nella cella di isolamento lasciandolo poi morire. Però in maniera informale i nomi erano emersi all’ascolto dei testimoni, ma nessuno di loro è stato mai iscritto nel registro degli indagati.

Il ragazzo poteva essere salvato. Forse non sarebbe morto se il magistrato della Corte di appello dell’epoca gli avesse accolto la richiesta di essere assegnato ad una casa famiglia al nord nella quale avrebbe potuto imparare ad occuparsi dei più bisognosi e avrebbe potuto studiare. Invece fu mantenuto “ristretto” come un giovane adulto fino al triste epilogo. La famiglia si oppone alla terza richiesta di archiviazione. La speranza per la giustizia è di nuovo sospesa.

Damiano Aliprandi da il dubbio