Dalla Premier League alla Champions, l’escalation dei prezzi sta scaldando le curve di mezza Europa. E in Italia un biglietto per un posto “comodo” può arrivare a costare ben 20 volte quello di una curva
SUPPORTERS NOT CUSTOMERS. Scendendo la ripida scaletta del tunnel che porta sul manto erboso di Anfield Road, c’è una targa affissa sul muro di spalletta: protetta da un vetro, pulito ogni giorno con ossequioso rispetto, recita con fermezza This is Anfield. Bill Shankly, indimenticato tecnico e manager del Liverpool, la fece affiggere lì per ricordare ai giocatori per quale maglia e per quale gente giocassero. Due settimane fa gli inquilini di Anfield hanno rivendicato il diritto di parola che spetta a chi è di casa, contestando le politiche adottate dalla nuova società (la New England Sports Ventures, che ha rilevato il club per 300 milioni di sterline nell’ottobre 2010). Al minuto 77 del match casalingo contro il Sunderland è iniziata la protesta contro l’aumento dei ticket che dalla prossima stagione porterà l’accesso al Main Stand (la tribuna principale) da 59 a 77 sterline: Get out of our club!, Enough is £nough, Supporters not customers, sono solo alcuni degli slogan scanditi e scritti su decine di striscioni che di colpo si sono moltiplicati sulle gradinate di Anfield.
MEZZA EUROPA IN PROTESTA. La questione del caro-biglietti, tuttavia, sta scaldando le curve di mezza Europa. La reazione delle tifoserie organizzate all’imposizione di nuovi tariffari è stata la logica conseguenza di un ragionamento più ampio, che da anni individua nella spettacolarizzazione dell’evento sportivo e nella sua messa a profitto l’architrave di un nuovo modello di sport (e di tifo) contro cui è necessario resistere. Dalla sperimentazione di nuove forme di controllo e repressione alla gentrificazione degli spalti, di cui l’aumento dei costi dei tagliandi è la manifestazione più eclatante: quello che nasceva come sport popolare (accessibile, cioè, alla stragrande maggioranza della società) oggi rischia di livellarsi pericolosamente verso l’alto, rendendo l’accesso agli stadi una questione di classe poiché non è scontato che il tifoso medio, nell’Europa della crisi, possa permetterselo. Si tratta di ragioni fatte proprie dalle tifoserie dei principali campionati europei, al punto che pochi giorni dopo la protesta dei tifosi del Liverpool è toccato ai supporters del Borussia Dortmund (in trasferta a Stoccarda per un match di coppa nazionale, 55€ l’ingresso) solidarizzare con gli inglesi e manifestare il dissenso con un fitto lancio di palline da tennis in campo.
Ma è soprattutto in Champions League che si sono manifestate le proteste più rumorose. Lo scorso anno l’intera manifestazione è stata un successo dal punto di vista del marketing: per l’ultimo atto, la finale di Berlino tra Juventus e Barcellona, furono oltre 200 i paesi collegati, 400 milioni gli spettatori, con una media di 180 milioni in visione (l’evento più seguito dell’anno in TV). Uno spettacolo per pochi, però, dentro gli stadi. Se a Roma ha fatto discutere la scelta di Pallotta di far pagare 40 euro le curve e 60 euro i distinti per il match di stasera contro il Real Madrid (nonostante la protesta della curva non avesse fino ad oggi garantito il pienone all’Olimpico), ben più clamore ha destato lo scorso ottobre la scelta dell’Arsenal di far pagare 64 sterline il settore ospiti ai tifosi del Bayern Monaco. L’accesa reazione dei tedeschi, che hanno disertato in massa la trasferta, si è consumata nell’invio di una delegazione che ha aperto immensi striscioni su cui c’era scritto £64 a ticket, but without fans football is not worth a penny (64 sterline per un biglietto, ma senza tifosi il calcio non vale un centesimo, ndr). Stessa ragione alla base della protesta dei tifosi dello Schalke 04 nell’edizione 2012 dell’Europa League, quando per seguire la squadra in trasferta a Bilbao, per il ritorno dei quarti di finale, i baschi chiesero 90 euro a biglietto. ¿Entrada 90€=1€ por minuto? ¡El fútbol no es sexo telefónico!, recitava lo striscione esposto nel match d’andata.
EPICENTRO UK. Da tempo, però, nel Regno Unito si è creato un cordone sanitario tra le tifoserie volto a fronteggiare il dramma del caro-biglietti. La FSF (Football Supporters’ Federation) ha lanciato nel 2013 la campagna «Twenty’s Plenty for Away Tickets», attraverso cui mira a stabilire a 20 sterline il prezzo del tagliando per il settore ospiti, in controtendenza con l’aumento generale dei prezzi che sta contagiando la Premier League. Una campagna che nel giro degli ultimi due anni, stando a quanto riportato dal sito della federazione, ha fatto risparmiare oltre 700mila sterline ad oltre 68mila tifosi inglesi. La campagna, e più in generale la coscienza che il caro-biglietti sia un problema ineludibile, ha inoltre preso piede una volta che si è constatato come i vertici della Premier League non abbiano incoraggiato la diminuzione dei prezzi nonostante per il triennio 2016–2019 avessero venduto i diritti tv delle partite per la cifra record di 5.13 miliardi di sterline (pari ad oltre 7 miliardi di euro), registrando un incremento del 71% rispetto alla vendita effettuata per il triennio precedente.
Come ha recentemente evidenziato in un approfondimento il portale Calcio&Finanza, la Premier League non è certo un campionato che soffre di carenza di spettatori. Non solo rispetto alla Serie A (dove il nuovo mantra è «riportare la gente allo stadio») ha un appeal tecnico-tattico decisamente più alto, ma la percentuale di riempimento stadi in Inghilterra si aggira intorno al 95%, rendendo residuale il problema dei posti invenduti. A ciò si aggiunga che «tra i biglietti più cari e quelli meno cari la forbice è molto ristretta», mentre in Italia un biglietto per un posto “comodo” può arrivare a costare ben 20 volte quello di una curva. Insomma, oltre ad una questione etica, ci sono anche delle difficoltà oggettive che impediscono il propagarsi generalizzato di questa protesta (l’80% dei posti negli stadi inglesi è venduto dietro abbonamento), ma l’esempio lanciato negli ultimi può sicuramente lasciare ben sperare.