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Caro Roberto (Vecchioni)

Da Samarcanda alla piazza del 15 marzo

di Marco Sommariva*

Non avevo ancora compiuto quattordici anni quando i miei pomeriggi venivano scanditi dal giradischi, o meglio, dai pochi vinili che avevo: all’epoca, trovare i soldi per comprarne uno non era semplice – sto parlando del ’76, ’77.

Diesel di Eugenio Finardi, Burattino senza fili di Edoardo Bennato, La luna di Angelo Branduardi e Samarcanda di Roberto Vecchioni arrivarono a ruota di Umanamente uomo: il sogno di Lucio Battisti, del Volume 3° di Fabrizio De André, de La torre di Babele di Edoardo Bennato e di Elisir di Roberto Vecchioni: questi otto dischi hanno dato un’impronta indelebile all’animo di quel ragazzino che, tra le mille peripezie della Vita, è diventato l’uomo che sono, quello che oggi ha più di sessant’anni.

Raccontare nel dettaglio cosa mi hanno insegnato questi otto dischi, quanto mi ha fatto crescere ogni loro canzone, quali ragionamenti la mia giovane mente è stata indotta a intraprendere, sviluppare grazie ai testi contenuti in questi long playing, sarebbe cosa lunga e, molto probabilmente, anche noiosa; nonostante tutto, vorrei provare a fare quest’analisi prendendone uno a caso: Elisir di Roberto Vecchioni, per esempio.

Dal brano Un uomo navigato ho imparato che non vanno letti i giornali e i libri o ascoltati i telegiornali e i segretari di partito solo per poter ripetere come pappagalli frasi scritte o dette da altri, cercando di convincere se stessi e gli astanti che, non solo si crede fermamente in questa nostra recita, ma che l’esposizione è addirittura frutto del proprio intelletto, ragionamento; questo, secondo me, è ciò che Vecchioni mi ha insegnato col passaggio Sentirsi il migliore, il primo, il vero, il solo, e invece elencare concetti presi a nolo.

Dal brano Velasquez ho imparato che bisogna sempre scrivere e lottare, e così ho sempre fatto, specie quando ho scoperto che la prima azione aiuta la seconda, e ho continuato a farlo anche quando era molto più semplice fermare la vela delle mie rotte intraprese volutamente fra i marosi della Vita e tornare in un porto sicuro che sapevo bene esserci e come trovarlo: Certe sere quanta voglia, fermare la vela e ritornare da mia moglie, e tu [Velasquez] mi dici Fatti scrivere è normale. Per te [Velasquez] bisogna sempre scrivere e lottare.

Fu soprattutto lì che per me tutto cominciò, caro Roberto, con Velasquez, e per questo mondo, questo mondo da cambiare.

Dal brano Le belle compagnie ho imparato che c’è qualcosa al mondo che si chiama anarchia e che occorre fare attenzione a non commettere l’errore di entrare in competizione con chi, come te, quest’idea prova a praticarla, ma anche che, in generale, non dev’essere una gara a chi è più antifascista, più “a sinistra”, più rivoluzionario o chissà che altro, specie se nel frattempo ci è sfuggito il fatto che proviamo ad avere conferma di quanto siamo belli per la nostra ribellione che spesso ci anima solo a parole senza, però, preoccuparci d’essere ancora una rotella dell’intero sistema che siamo convinti di combattere: Su, dimmi specchio delle mie brame chi è il più anarchico del reame?

Dal brano A.R., iniziali di Arthur Rimbaud, ho imparato che, nel tentativo di cercare un’altra poesia, si può cambiare, persino rivoltare il senso alle parole, ma al contempo ho capito che la stessa tecnica la può utilizzare chi vuole farti credere una cosa per un’altra, chi tenta di far passare per “vincenti” concetti espressi in passato ma risultati chiaramente “perdenti” e, quindi, capisco che occorre fare attenzione a tutti questi artigiani della parola, che siano professori di scuola, preti, leader politici, parenti, giornalisti, partner, scrittori, eccetera: Ribaltare le parole, invertire il senso fino allo sputo.

Da Il suonatore stanco ho imparato che si può anche dire no, che questo “no” può essere tanto deciso quanto pacifico ed elegante, e che il diniego va osato anche quando dall’altra parte c’è gente potente, capace di far male: All’alba verranno a domandarmi venti chili di riso, ma manteniamo la calma, l’importante è dirgli un no deciso. Forse li accoglierò con la vestaglia turchese, rendendo baci per le offese […] Sta di fatto, però, che quelli là giocan duro, quelli mi infilano in un muro.

Da Canzone per Francesco, un testo dedicato al suo amico Francesco Guccini, ho imparato che se una volta ci si muoveva, si spendevano energie per far valere i propri diritti, oggi ci si muove per giungere a mete che altri ti hanno convinto essere importanti, movimenti di persone verso il niente, soprattutto, contro il niente: La rabbia un tempo la scandiva soltanto la locomotiva […] e contro il niente adesso parte ogni mezzora un volo charter itinerario di gran moda.

Da questo testo ho anche imparato che il sedersi su un volo charter è deleterio, che invece bisognerebbe darsi da fare e pure in fretta, ma non per correre dietro ad aerei che decollano ogni mezz’ora: E noi vediamo un po’ d’alzarci, perché è l’ora, perché è tardi.

Da Pani e pesci ho imparato a diffidare dalla Storia che ci insegnano, per cui ho iniziato a cercarla andando a chiedere lumi direttamente a chi aveva vissuto gli avvenimenti, e non leggendo pagine che, visto il periodo storico, potevo ricostruire e scrivere personalmente: Ad Adua si era in mille contro duecento negri però la Storia dice che ci siamo ben difesi. Ho imparato a diffidare di chi promette: I vecchi han mille mille mille maschere da giovani quando spargendo lacrime e medaglie ti promettono pani e pesci, pesci e pani. Ho imparato a diffidare di chi manda al macello gli altri, sia che si tratti di guerre sia che si tratti di lavori indegni: Ben altra morte in tanti senza batter ciglio affrontano per mantener le sedie a tutti quelli che promettono pani e pesci, pesci e pani. Ho imparato a diffidare persino di chi contesta il Potere e le sue modalità: E l’occhio del padrone a furia d’ingrassare fece ingrassare pure chi lo stava a contestare.

Da Figlia ho imparato ad agitarmi, sempre, anche quando mi si diceva che era inutile tanta verve, che era meglio omologarsi, ho imparato a strillare la mia agitazione, a strillare la Vita: Sempre contro finché ti lasciano la voce, vorranno la foto col sorriso deficiente, diranno Non ti agitare che non serve a niente, e invece tu grida forte, la Vita contro la Morte.

Da Pagando s’intende (Canzone degli effetti sbagliati) ho imparato che l’agitazione, la verve, il brio che, fra le tante cose, mi hanno permesso di gridare la Vita anche contro una libertà che non mi sembrava tale, erano tutti elementi che mi aiutavano a essere lucido: La rabbia mi mantiene calmo e abbasso questa libertà.

Caro Roberto, credo proprio che fu soprattutto lì che tutto cominciò, fu con l’ascolto attento delle canzoni contenute nel trentatré giri Elisir che capii che serviva darsi da fare per questo mondo, questo mondo da cambiare.

Caro Roberto, so che il 15 marzo scorso, durante la manifestazione «Una piazza per l’Europa», hai profferito anche questa frase: Ora […] chiudete gli occhi un momento e pensate ai nomi che vi dico, io vi dico Socrate, vi dico Spinoza, Cartesio, vi dico Hegel, Marx, e vi dico anche Shakespeare, vi dico Cervantes, vi dico Pirandello, Manzoni, Leopardi, ma gli altri le hanno queste cose?

Non considererò altri passaggi del tuo intervento, anche perché so che l’hanno già fatto in molti e, sono certo, meglio di quanto potrei riuscire io: mi limiterò a questo.

Caro Roberto, chi sono “gli altri”? Per cortesia, non rispondermi: è una domanda retorica – ho paura di quello che potresti dirmi. Ti dico solo che mi hai ricordato una conoscente che ho smesso di frequentare perché così pregna di tanta ignoranza da rivelarsi pericolosa per sé e per gli altri, perché col suo “noiatri” – “noi”, in dialetto genovese – a infarcire ogni suo discorso, ha sempre sbattuto in faccia a tutti “gli altri” che noi genovesi certe cose non le diciamo, non le facciamo, neppure le pensiamo, che il male viene sempre e soltanto da “gli altri”, e con questo sbattere in faccia a chiunque il suo pedigree peraltro tutto da dimostrare, ha creato rancori, inimicizie, odii, vendette che hanno colpito specialmente la persona in questione e i suoi cari, perché dopo aver seminato gerarchie, ghetti, confini, è questo che alla fine si raccoglie: astio, dolore, guerra.

Nel ’76 mai avrei immaginato che tu finissi col ricordarmi personaggi del genere.

Roberto, cosa ti è successo? Una volta “gli altri” erano quelli che ti tenevano fermo tanto per parlare, ricordi? Era quando tu pensavi Ora gli dico sono anch’io fascista, ma a ogni pugno che ti arrivava dritto sulla testa, la tua paura non bastava a farti dire Basta. Ricordi? Sapessi quanto coraggio mi hanno dato queste tue parole, quando il fascismo di tante insospettabili camicie bianche mi prendeva a pugni sulla testa per schiacciare e scacciare certi miei ragionamenti e io, che sapevo mi sarebbe bastato schierarmi un minimo dalla loro parte per smetterla di soffrire, nonostante la paura che m’incuteva la violenza del nemico, perseveravo perché non accettavo di scendere da quella pianta libertaria che tu avevi fatto germogliare e che nessuna ideologia al napalm riuscirà mai a defoliare, tantomeno ad abbattere

Non ti ho seguito più molto, ma so che frequenti la TV, che spesso siedi accanto a un giornalista, e spero questo non t’abbia dato alla testa: ricordi quando in Canzone per Francesco cantavi che il giornalista in fondo è un modo di campare? Nella stessa canzone dicevi che gli imbonitori sono troppi e non li fermi, e avevi ragione: nessuno ti ha fermato durante il tuo intervento in Piazza del Popolo, nessuno ti ha detto sbagli, guarda che t’inganni, quelli che hanno organizzato tutto questo hanno solo meno dubbi e meno anni. Dove sono finiti i tuoi dubbi, Roberto? Nel caso il tuo fosse stato solo un tentativo, mi permetto di consigliarti di fare attenzione a certi esperimenti perché, andando a svestirti per tornar normale, potresti non essere più in grado di distinguere cos’avevi indossato di vero e cosa di finto rischiando, così, di confondere te stesso con la barba al mento.

Hai parlato di “noi” europei scegliendo, quindi, per compagnia anche portoghesi, inglesi e tanti altri uccelli da rapina come cantavi in A.R.

Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato che il più grande conquistò nazione dopo nazione e che quando fu di fronte al mare si sentì un coglione perché più in là non si poteva conquistare niente e che questo signore, in fondo, aveva percorso tanta strada solo per vedere un sole disperato.

Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato ai ragazzi di fare attenzione a quelli che diranno loro parole rosse come il sangue, nere come la notte, perché non è vero che la ragione sta sempre col più forte.

Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo avevi già invitato a chiudere gli occhi, ma non per pensare ai “nostri” Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Manzoni e Leopardi, bensì per credere solo a quel che si vede dentro, hai invitato a chiudere gli occhi e insieme a stringere i pugni per non lasciargliela vinta neanche un momento.

Non ti ho seguito più molto, ma so che nel frattempo hai cantato di lasciar parlare chi dice che al mondo certe persone sono destinate a perdere sempre perché, semmai, queste continue sconfitte che il Sistema ti affibbia sono, in realtà, delle vittorie.

Ammetto che potrei aver scritto un’infinità di sciocchezze sinora perché potrei aver inteso dalle parole dei tuoi testi, cose che neanche hai mai pensato, ma sarei comunque contento d’aver interpretato così certi tuoi brani: mi hanno tenuto in piedi anche quando non sapevo fossero loro a darmi forza, e in questo senso funzionano ancora benissimo.

Le tue parole cantate mi hanno insegnato una marea di cose, a essere forte, a essere dolce, a essere forte senza mai dimenticare la dolcezza, a essere dolce senza mai dimenticare la forza; sarà per questo che ho sempre un fiore dentro il pugno.

Caro Roberto, anche se non credo sia per te granché importante, desideravo dirti che lo scorso 15 marzo mi hai deluso molto, mi hai ricordato troppo da vicino quel conte di cui canti in Pagando s’intende (Canzone degli effetti sbagliati), quel conte che, al sommo della sua gloria, fece a pezzi la sua vita, a pezzi la memoria, a pezzi i rubinetti e il sole, e si mangiò anche il cavallo gridando Adesso so chi sono, più tardi mi ci abituerò. Per piacere Roberto, non ti ci abituare.

Caro Roberto, anche se non credo sia per te granché importante, desideravo dirti che, nonostante quanto sopra, non riesco ancora a non volerti bene: forse non lo sai ma pure questo è amore.

 

*scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni

 

 

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