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Cartoline dal Pakistan

Mentre le accuse di “blasfemia” colpiscono non solo le minoranze religiose (vedi i pogrom dell’anno scorso contro i cristiani), ma anche qualche musulmano non del tutto “in regola”, il Pakistan si trova incastrato tra l’incudine iraniana e il martello statunitense (o viceversa)

di Gianni Sartori

Il Pakistan rimane un “paese a rischio”. In agosto si è raggiunto il record mensile (dal luglio 2018) dei morti ammazzati in azioni condotte da milizie. In genere costituite da estremisti islamici, talvolta da gruppi indipendentisti (e anche in questo caso una cosa non esclude l’altra).

Delle 254 vittime accertate (numero ovviamente per difetto), 92 erano civili e 54 personale di sicurezza (mancano dati precisi sulle altre).

Non è l’unico problema ovviamente. Vanno registrate le pressanti richieste (in parte una velata minaccia) da parte di Teheran per la prosecuzione e conclusione dei lavori per la realizzazione di 80 chilometri di un gasdotto che dovrebbe unire Iran e Pakistan. Inaugurato nel 2013, stando a quanto dichiara, l’Iran avrebbe già speso ben due miliardi di dollari per costruire i 1.150 chilometri di sua competenza.

Ma purtroppo, il Pakistan si trova con le spalle al muro. Importare petrolio iraniano comporterebbe automaticamente ritorsioni da parte degli USA.

In realtà nel febbraio di quest’anno, Islamabad aveva timidamente annunciato l’inizio dei lavori. Bloccati sul nascere dall’intervento statunitense di Donald Lu, assistente segretario statunitense per l’Asia centrale e meridionale. Vedremo come andrà a finire.

Altro problema per Islamabad (ma che si coniuga con il primo), l’ulteriore diffusione dell’intolleranza religiosa. O meglio dell’estremismo di matrice islamica. Alimentato dal fatto che l’islam in Pakistan è religione di Stato e che la legislazione sulla blasfemia implica sia l’ergastolo che la pena di morte (anche se non risulta sia stata applicata negli ultimi anni).

Si parva licet (“parva” in confronto al diffuso, persistente odor di mattatoio che avvolge questo paese, non l’unico, ovviamente) riporto quanto è capitato recentemente al proprietario – musulmano praticante – di un piccolo Sakhi Hotel a Kharotabad. Durante una telefonata Abdul Ali aveva – avrebbe – commentato in maniera poco rispettosa il Khatme Nabuwwat (un principio della fede islamica, ma corrisponde anche al nome di un’organizzazione pachistana) offendendo il profeta Maometto.

Nei suoi confronti si era scatenata un’autentica caccia all’uomo. Mentre rischiava letteralmente il linciaggio da parte degli estremisti di Tehreek-i-Labbaik Pakistan (Tlp), veniva arrestato dalla polizia (in base all’articolo 295c e 34 del Codice penale pachistano, quelli sulla blasfemia).

Mentre la folla assaltava con lanci di pietra (e pare anche con un paio di granate) la stazione di polizia dove era rinchiuso, il poliziotto Syed Khan Sarhadi gli avrebbe sparato. Anche se la dinamica non è del tutto chiara, sul corpo di Abdul Ali si contavano numerose ferite da arma da fuoco.

In ogni caso un episodio emblematico del clima di generale, fetido fanatismo a sfondo religioso che avvolge il Pakistan.

Del resto è passato soltanto un anno dal pogrom di Jaranwala (nel distretto di Faisalabad, Punjab).

Sempre a causa di un presunto episodio di “blasfemia” (alcuni abitanti sostenevano di aver visto “due uomini profanare il Corano e insultare il Profeta”), il 16 agosto 2023 almeno 25 luoghi di culto cristiani (non solo cattolici, anche la Chiesa dell’Esercito della Salvezza e quella presbiteriana) venivano assaltati da una folla inferocita armata di spranghe e bastoni. Così come centinaia di abitazioni, saccheggiate e poi incendiate. Conseguentemente migliaia di persone venivano messe in fuga, costrette a diventare sfollati (profughi interni).

Commentando l’uccisione di Abdul Ali , lo scrittore Jamshed Iqbal ha detto che “questo Paese può uscire dalla crisi economica ma non può liberarsi dell’estremismo e del fondamentalismo”.

 

 

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