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Cascina Spiotta, al via il processo bis: Curcio, Moretti e Azzolini perseguitati dopo 50 anni

L’uso giudiziario della storia, per altro distorto. Il nuovo processo alle Brigate rosse. Inchiesta sulla sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti a targhe alterne che affollano questo paese.

di Frank Cimini da l’Unità

Norimberga Due. I vincitori processeranno i vinti questa volta a mezzo secolo dai fatti. Il giudice dell’udienza preliminare di Torino Ombretta Vanini ha rinviato a giudizio Renato Curcio, Mario Moretti e Lauro Azzolini per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso durante la sparatoria alla Cascina Spiotta il 5 giugno del 1975 in cui rimase uccisa anche Margherita Cagol. È stato prosciolto per intervenuta prescrizione Pierluigi Zuffada.

Il processo inizierà il prossimo 25 febbraio davanti alla corte di assise di Alessandria. La decisione del gup Vanini era scontata dopo il rigetto due settimane fa di una serie di eccezioni di nullità proposte dalla difesa. Gli avvocati avevano segnalato una serie di irregolarità e di forzature. Ma inutilmente. Ti piazzano addosso il captatore informatico trojan, ti intercettano per mesi confrontando le tue impronte con quanto repertato 50 anni fa e quando i tuoi difensori eccepiscono l’assenza del decreto autorizzativo da parte del gip il gup rigetta l’eccezione perché al momento l’inchiesta era contro ignoti diventata contro noti solo dopo aver ascoltato le conversazioni intercettate. Insomma, ti metto addosso il mezzo più invasivo possibile e non si può dire che ti sospetto. Sei ignoto. Ovviamente l’indagine si occupa solo dell’omicidio del carabiniere e non del colpo di grazia con cui fu finita Mara Cagol mentre era per terra arresa e disarmata.

Il gup ha deciso il 16 ottobre e ribadito oggi con il rinvio a giudizio che non c’erano irregolarità e violazione dei diritti. Il captatore insomma veniva usato per ragioni di assoluta urgenza. Su un fatto – badate bene – avvenuto mezzo secolo fa. In una indagine riaperta annullando una precedente sentenza di proscioglimento per Azzolini del 1987 senza leggerla perché le carte erano scomparse nel 1994 durante l’alluvione nella provincia di Alessandria. A far riaprire l’indagine era stato un esposto presentato dagli eredi del carabiniere D’Alfonso. In aula di udienza erano stati letti articoli di stampa e anche alcune frasi dei libri di Curcio e Moretti per dimostrare che erano stati dirigenti delle Brigate Rosse. Un fatto notorio già all’epoca della prima indagine poi “alluvionata”.

Ma allora Curcio e Moretti non erano stati chiamati in causa. Vengono tirati in ballo adesso per spettacolarizzare e mediatizzare l’indagine e consumare una vendetta politica contro un intero periodo storico, quello degli anni 70. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti che affollano questo paese. Tutti garantisti solo per gli amici e il proprio clan. Con quello che hanno speso nell’indagine per i captatori trojan non si poteva permettere una smentita all’operato della procura di Torino un delle più forcaiole d’Italia. Tutti ad Alessandria quindi per il Norimberga Due.

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Un padre ucciso, tre brigatisti ottantenni e i misteri di cascina Spiotta. Quando la giustizia bussa 50 anni dopo i fatti

di Stefano Cappellini

La scena vista da lontano è: un casolare su una placida verde collina dell’alessandrino, località Arzello, e una macchina sulla stradina di campagna che sale verso il cucuzzolo. Nella macchina ci sono dei carabinieri. Nel casolare, che si chiama cascina Spiotta, ci sono dei brigatisti rossi e un signore, Vallarino Gancia, noto alle cronache più pigre come “il re dello spumante”. Il ruolo di Gancia nella cascina Spiotta è: ostaggio da scambiare con riscatto miliardario. Passano pochi minuti e la scena diventa: un ostaggio liberato, un brigatista in fuga e due cadaveri per terra. Sono l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e Mara Cagol, una delle fondatrici delle Br. È il 5 giugno del 1975.

L’omicidio di D’Alfonso è una delle poche vicende di terrorismo rosso rimaste senza una verità giudiziaria. Nel novembre del 2021 Bruno D’Alfonso, figlio dell’appuntato ucciso e carabiniere pure lui, ha presentato un esposto alla procura di Torino per chiedere la riapertura delle indagini. Più o meno in contemporanea è uscito un libro dei giornalisti Simona Folegnani e Berardo Lupacchini, prefazione dello stesso D’Alfonso, che indaga sul caso e propone un elenco di brigatisti sospettati di aver partecipato alla scena del delitto. Due giorni fa, quasi cinquant’anni dopo il fatto di cascina Spiotta, la procura di Torino ha ottenuto il rinvio a giudizio di tre ex brigatisti: Lauro Azzolini, 81 anni, Renato Curcio, 83 anni, altro fondatore delle Br e all’epoca marito di Cagol, Mario Moretti, 78 anni, leader delle Br dal 1976 fino all’arresto nel 1981. Dunque si andrà a giudizio e la domanda è: cinquant’anni dopo, questo è un processo che mira ad accertare responsabilità giudiziarie o rischia di essere un processo politico alla storia degli imputati, una specie di processo alla Storia? Una domanda legittima, come l’ansia di giustizia di D’Alfonso per il suo babbo ucciso. Ma un conto è individuare un assassino che l’ha fatta franca, e qui non c’è oblio e prescrizione che tenga, altro conto è perseguire i curricula anziché le responsabilità penali, che in uno Stato di diritto sono sempre personali o almeno dovrebbero esserlo.

Torniamo dunque alla riapertura delle indagini, inizio 2022. Gli inquirenti aprono un fascicolo contro ignoti e ascoltano svariati ex brigatisti. Non emerge nulla di significativo. Ma fin dalle prime fasi i pm hanno un sospetto preciso e cioè che il responsabile dell’uccisione di D’Alfonso sia Azzolini. C’è un problema, però, e non piccolo. Azzolini è stato già oggetto di una indagine per cascina Spiotta, aperta nel 1983 e chiusa nel 1987 con una sentenza di proscioglimento del giudice istruttore (all’epoca era ancora in vigore il vecchio rito istruttorio). Un fatto che inizialmente sembra sfuggire a chi indaga. Questo significa che, per riaprire l’indagine servirebbe una richiesta specifica al gip, corredata di prove o almeno di indizi, e la conseguente iscrizione di Azzolini nel registro degli indagati. Tutto questo, però, non avviene. Forse perché gli inquirenti hanno deciso di passare alle intercettazioni, nella speranza che gli ex Br commentino i fatti e si lascino scappare qualche confidenza. Un avviso di garanzia comprometterebbe la tattica di indagine che ovviamente ha bisogno di essere svolta all’insaputa dell’indagato. Il punto di partenza, insomma, non è il massimo: un indagato, Azzolini, che non potrebbe essere indagato senza un decisivo passaggio formale e che diventa anche intercettato senza poterlo essere, per ragioni conseguenti. Azzolini viene iscritto nel registro degli indagati solo il 15 febbraio 2023, dopo che la procura ha cercato di far revocare il vecchio proscioglimento senza avvisare l’indagato. Nel marzo del 2023 è stato chiesto l’arresto di Azzolini, richiesta che il gip ha respinto con la motivazione appena esposta: non si può arrestare qualcuno per un reato dal quale è stato prosciolto senza che vi sia una revoca ufficiale del provvedimento. Sono seguiti altri episodi non proprio in linea con il codice di procedura penale, bene riassunti nel blog Insorgenze dallo storico Paolo Persichetti, che è a sua volta un ex brigatista condannato per l’appartenenza negli anni Ottanta alle Br – Unione comunisti combattenti. Dice: vabbè, ci sono irregolarità formali, ma quanto contano se si può inchiodare un assassino sfuggito alla giustizia? Un cultore dello Stato di diritto dovrebbe tapparsi le orecchie a questa domanda, perché nell’esercizio della giustizia la forma è sempre sostanza, ma pur sorvolando a fatica sul tema restano altri dubbi. Quali sono le prove, o gli indizi concordanti, della colpevolezza di Azzolini? Dice: vabbè, si troveranno, l’omicidio di un carabiniere non deve passare in cavalleria. Vero, e ancora più vero per un figlio che cerca risposte sull’uccisione di un padre. Ma cinquant’anni dopo serve un colpevole certo, non dei colpevoli percepiti.

Questo non è un caso Priebke, sfuggito per decenni alle responsabilità per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, e non è nemmeno un caso Altobelli, pseudonimo di Germano Maccari, il brigatista romano che fu uno dei carcerieri di Aldo Moro e che rimase ignoto per moltissimi anni prima di essere identificato e processato. Tutti gli imputati, Azzolini, hanno a carico numerosi ergastoli, nessuno di loro è rimasto impunito. Curcio e Moretti non erano presenti alla Cascina Spiotta. Questo è un fatto acclarato. Curcio, 25 anni in carcere di cui 12 nel circuito di massimo sicurezza, e Moretti, sei ergastoli, in semilibertà dopo più di 35 di detenzione, finiscono oggi alla sbarra in quanto capi delle Br, “figure apicali”, e dunque accusati di essere responsabili delle azioni che hanno portato all’uccisione di D’Alfonso. Qui davvero è difficile capire il senso di un nuovo processo. Il sequestro Gancia fu deciso da Curcio o Moretti? Nel 1975 l’organizzazione Br non era fondata su una leadership politica, ma sull’autonomia delle colonne. Curcio, che all’epoca era da poco evaso di galera dopo una pirotecnica azione militare guidata proprio da Cagol, non aveva ruoli nella colonna torinese. Moretti apparteneva a un’altra colonna. Furono Curcio o Moretti a dare linee guida secondo le quali, in caso di interventi delle forze di polizia, la risposta avrebbe dovuto essere l’annientamento delle pattuglie? No, anzi, nel 1975 i vertici Br avevano concordato che le regole di ingaggio in situazioni simili avrebbero dovuto essere la fuga del commando e la liberazione dell’ostaggio. Curcio e Moretti portano la responsabilità morale dei fatti? Certo, di questa come di molte altre azioni brigatiste, ma è di responsabilità penale che si dovrebbe parlare, a maggior ragione in un processo istituito a 50 anni di distanza. Peraltro, per ricostruirne la responsabilità politica sul caso Gancia, a entrambi vengono contestate frasi contenute nei libri-intervista che i due ex brigatisti realizzarono all’inizio degli anni Novanta, Curcio con Mario Scialoja (A viso aperto, Mondadori), e Moretti con Rossana Rossanda e Carla Mosca (Brigate rosse, una storia italiana, Anabasi). Peccato che in A viso aperto Curcio dia, del brigatista in fuga da cascina Spiotta, un identikit incompatibile con Azzolini.

Curcio è intervenuto con una lettera, inviata al blog di Persichetti, nella quale contesta, con argomenti che appaiono fondati, la sua responsabilità penale per cascina Spiotta e chiede verità “sull’uccisione di Mara Cagol, già a terra ferita e in stato di arresto”. Scrive Curcio: “So per lunga esperienza personale che non è mai semplice mettere d’accordo la verità giudiziaria e la verità storica. Della prima comunque sono altri a doverne rendere conto e mi auguro lo facciano tutti onestamente”. Il disprezzo per le azioni delle Br, e per la scia di lutti e dolore che si sono lasciati alle spalle, non dovrebbe impedire di vedere la netta differenza tra la meritoria ricerca di colpevoli impuniti e l’accanimento su figure già condannate dai tribunali e dalla società civile. È, in fondo, la differenza tra polizia giudiziaria e polizia della storia.

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