Il “caso Cospito” sul confine tra diritto, garanzie e ordine pubblico
- settembre 20, 2023
- in 41bis, carcere, riflessioni
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Il “caso Cospito” ci dice di cosa si può e di cosa non si può discutere sul confine tra diritto, garanzie e ordine pubblico. La tendenziale dismisura del potere punitivo resiste a ogni tentativo di suo contenimento e invoca ripetutamente l’eccezione per soddisfare quelle istanze di difesa sociale e disciplinamento che gli derivano dalla sua oscura origine sacrificale e vendicatoria.
di Stefano Anastasìa
Improvvisamente, a trent’anni dalla sua introduzione, il regime detentivo speciale previsto dall’articolo 41bis, comma 2, dell’Ordinamento penitenziario è entrato nel dibattito pubblico italiano. Stavolta non per lamentarne una insufficiente applicazione, o per paventarne i rischi di una sua elusione di fatto o di diritto (lamentele e preoccupazioni a cui siamo educati da una incessante litania), ma proprio per la sua natura, per le modalità concrete della sua applicazione, per le sue finalità. Di questo va dato atto ad Alfredo Cospito, uno degli oltre 700 detenuti che vi sono sottoposti e che – vuoi in ragione della motivazione politica dei reati per cui è in carcere, vuoi per la personale intolleranza al regime cui è stato costretto – attraverso un calibrato sciopero della fame durato più di quattro mesi e i patimenti che il proprio corpo ne ha subito, ha messo al centro del dibattito pubblico l’intoccabile regime detentivo speciale individualizzato.
Si sono intrecciate, in questa vicenda, almeno tre questioni distinte, ciascuna meritevole di essere adeguatamente affrontata. Prima è emersa, agli occhi dell’opinione pubblica, quella della tutela della vita e della salute di Cospito, con le implicazioni conseguenti sugli obblighi di cura e il rispetto della volontà della persona. Questione su cui sono stati chiamati a pronunciarsi (più o meno propriamente) il Comitato nazionale di bioetica (sull’eventualità dell’alimentazione forzata del detenuto in sciopero della fame) e il Tribunale di sorveglianza di Milano (sulla richiesta di sospensione della pena di Cospito per motivi di salute). Accanto a essa è stata posta la questione della legittimità del provvedimento di applicazione del regime di 41bis a Cospito, militante anarchico detenuto per reati motivati politicamente; legittimità confermata dalla Corte di Cassazione, nonostante le incertezze e le obiezioni proposte anche dalla Procura generale e dalla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Infine, sottese a queste, si stagliava la questione dello stesso regime del 41bis, della sua legittimità costituzionale e convenzionale; questione che era la motivazione originaria della protesta di Cospito. Tutte questioni che avrebbero meritato risposte adeguate, ma che non sempre ci sono state, talvolta nel merito, talaltra in assoluto.
In particolare, assenti o evasive sono state le risposte istituzionali sulla questione della legittimità del regime previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, dalle sue circolari applicative e dalle prassi in cui si sostanzia. La Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti umani e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura hanno più volte giudicato legittimo, e dunque compatibile con il divieto di trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità il regime detentivo speciale. Ma ciascuno di questi pronunciamenti ha posto o ha chiesto dei limiti al 41bis, invocandone la provvisorietà, la rivedibilità, la limitazione alle misure strettamente necessarie all’interruzione dei rapporti con l’esterno, la garanzia dei diritti umani fondamentali, e invece dalla giurisprudenza di sorveglianza così come dai ripetuti rilievi del Garante nazionale delle persone private della libertà e del Comitato europeo per la prevenzione della tortura quei limiti appaiono frequentemente, se non legalmente, travalicati. Di queste cose, grazie alla protesta di Cospito, l’opinione pubblica ha iniziato ad avere informazioni nel dibattito pubblico che ne è scaturito, ma il tabù che aleggia intorno al 41bis ha impedito che avessero un approfondimento istituzionale nella sede propria, anche solo nella forma minima di una indagine conoscitiva parlamentare.
Resiste, dunque, il tabù del 41bis, vero e proprio totem intorno a cui ruota la legislazione d’eccezione in materia di trattamento penitenziario degli appartenenti alle organizzazioni criminali di tipo mafioso (e, collateralmente, applicabile anche ai detenuti per reati commessi con finalità politiche, come nel caso di Cospito). E allora tocca capire a cosa si deve la forza di questa resistenza, se essa non trova spiegazione negli argomenti che legittimano l’esistenza del regime speciale nei pronunciamenti delle Corti e degli organismi di tutela dei diritti umani. Tocca capire la distanza tra funzioni manifeste e funzioni latenti del dispositivo legislativo.
Il regime detentivo speciale previsto dal secondo comma dell’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario si giustifica costituzionalmente e convenzionalmente come effetto di una norma derogatoria dell’ordinario trattamento penitenziario, applicabile in via temporanea ai capi delle organizzazioni criminali, finché ne sono a capo, per impedire che possano continuare a esercitare le proprie funzioni di comando in stato di detenzione. Così ne fu giustificata l’introduzione prima e durante il tempo delle stragi di mafia, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, e così è stata accettata dalle Corti e dagli organismi di tutela dei diritti umani dei detenuti. Una misura di prevenzione dei reati applicabile temporaneamente in condizione di detenzione.
Nella prassi, invece, il regime speciale è applicato a circa 740 (dato al 27.2.2023) delle 9068 (dato al 31.12.2022) persone detenute per associazione di tipo mafioso: un po’ tante per presumere che siano tutte effettivamente a capo di organizzazioni ancora attive sul territorio. Inoltre la gran parte delle persone sottoposte al regime speciale lo sono da dieci-venti e più anni, evidenziando il venir meno della temporaneità della misura che spesso coincide con l’intera durata del periodo detentivo, nel caso degli ergastolani spesso fino alla morte.
A queste considerazioni ricavabili da una superficiale indagine quantitativa, si aggiungono quelle conseguenti a un’analisi qualitativa del regime detentivo per come viene rappresentato dalle testimonianze delle persone che vi sono state sottoposte e dei loro congiunti, dalla giurisprudenza e dai rilievi degli organismi di garanzia delle persone detenute. La realtà del regime detentivo speciale è disseminata di divieti e limitazioni (alcune previste per legge, molte per disposizione amministrativa centrale, altre per prassi di indeterminabile attribuzione) che nulla hanno a che fare con le finalità di prevenzione che ne legittimano l’esistenza e che si sostanziano in sofferenze penali ulteriori rispetto a quelle naturalmente insite nella privazione della libertà.
E’ così che si scopre la funzione latente del regime detentivo speciale, diversa da quella dichiarata, e che si risolve non tanto nella più volte paventata misura inquisitoria della induzione alla collaborazione (sono davvero pochi i casi delle persone passate per il 41bis che abbiano iniziato a collaborare con gli inquirenti), quanto nell’attuazione di quel “carcere duro” che la vulgata le attribuisce: una pena di specie diversa da quella detentiva ordinaria, inflitta anche a persone in attesa di giudizio, sulla base della loro appartenenza alle organizzazioni criminali e della loro presunta o reale pericolosità sociale. La fonte di legittimazione della norma si sposta dunque dalle necessità di prevenzione riconosciute legittime in uno stato costituzionale di diritto all’indicibile diritto penale del nemico, per il quale non valgono le garanzie dell’ordinamento giuridico ordinario e la cui pena non può essere circoscritta dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.
La parabola del “caso Cospito” ci dice dunque di cosa si può e di cosa non si può discutere sul confine tra diritto, garanzie e ordine pubblico. La tendenziale dismisura del potere punitivo resiste a ogni tentativo di suo contenimento e invoca ripetutamente l’eccezione per soddisfare quelle istanze di difesa sociale e disciplinamento che gli derivano dalla sua oscura origine sacrificale e vendicatoria. All’analisi critica la responsabilità, volta per volta, di rilevare la distanza del sistema penale dai suoi presupposti di giustificazione e la funzione reale cui esso contingentemente e strategicamente attende.
da studiquestionecriminale.wordpress.com
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