L’ombra delle botte in caserma sulla morte di Giuseppe. “Mi dissero che non era sangue ma pomodoro”. Una perizia del tribunale parla di tracce ematiche. Il cadavere potrebbe essere riesumato. Per l’inchiesta di Varese, l’uomo era deceduto per un’aritmia causata da un farmaco.
Da quella “maledetta notte”, Lucia Uva aspetta ancora la verità. “Sono passati tre anni e quattro mesi e finora la procura non ha fatto nulla per spiegare cos’è successo a Giuseppe nella caserma dei carabinieri di Varese”, scrive nella sua lettera aperta. Era il 14 giugno 2008, e solo oggi, tre anni e quattro mesi dopo, i parenti di Giuseppe Uva, morto a 43 anni in ospedale dopo essere rimasto tre ore in caserma, vedono uno spiraglio di luce.
Le pagine della consulenza dei periti del Tribunale mettono in discussione l’impianto accusatorio del pm Agostino Abate che ha mandato a processo per omicidio colposo lo psichiatra Carlo Fraticelli, il medico che avrebbe somministrato i farmaci a Uva. Per i periti, invece, l’artigiano è sì morto per “aritmia cardiaca” ma le concentrazioni di medicinale sarebbero “inidonee a causare il decesso”. E solo la riesumazione potrà dire se i traumi sul corpo possono essere collegati alla notte in caserma, e alle botte denunciate dall’unico testimone.
Sono le 2.55 quando Giuseppe e il suo amico Alberto Biggiogero vagano per il centro di Varese. Sono ubriachi. Si divertono a mettere transenne di traverso per strada. Arriva una gazzella dei carabinieri e i due finiscono nella caserma di via Saffi. Alberto racconta di “un via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Piangevo e urlavo di smetterla di massacrare Giuseppe. Udivo ugualmente le sue urla incessanti per circa un’ora e mezzo ancora”.
“In tre anni e quattro mesi, un’inchiesta a dir poco bizzarra è stata capace di non ascoltare mai l’unico testimone oculare, che il giorno dopo presentò un dettagliatissimo esposto” accusa Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”, che ha denunciato anche i casi Aldrovandi e Cucchi. Proprio nella perizia si parla di “tracce di natura ematica sui pantaloni”, un “indizio – ha sempre sostenuto Fabio Anselmo, il legale della famiglia Uva – che indica chiaramente un’emorragia derivante da traumi, estesa sui pantaloni dieci centimetri per sedici”. “Mi dissero che era pomodoro” dice oggi, amaramente, Lucia Uva.
Se il tribunale deciderà per la riesumazione del corpo di “Pino”, alcuni quesiti medici potrebbero trovare risposta. I periti ritengono “imprescindibili” una nuova autopsia, una tac per individuare eventuali traumi in grado di provocare l’aritmia, l’analisi biologica sui jeans Rams insanguinati “tra il cavallo e la zona anale” e su “altri vestiti eventualmente reperibili”, un accertamento farmaco-genetico alla ricerca di eventuali allergie.
Altri punti oscuri potranno essere chiariti dalle indagini della procura. Perché il ricovero arriva così in ritardo rispetto al fermo? Chi fa sparire gli slip della vittima, arrivato di fronte all’anatomopatologo solo con “un pannolone e una maglietta bianca”? Cosa indicano le scarpe “visibilmente consumate” nella parte anteriore, mette a verbale il poliziotto in servizio quella notte in ospedale, come se ci fosse stata “un’estenuante difesa a oltranza dell’uomo”?
Non morì per i farmaci, i periti chiedono di riesumare il corpo
Varese, torna l’ipotesi del pestaggio in caserma: “Trovate tracce di sangue”. Gli esperti del tribunale riaprono il caso. Per il suo decesso venne imputato lo psichiatra che gli aveva dato le medicine al pronto soccorso.
Non furono i farmaci somministrati in pronto soccorso a uccidere Giuseppe Uva, morto in ospedale dopo due ore di permanenza nella caserma dei carabinieri di Varese, il 14 giugno del 2008. Secondo la perizia ordinata dal tribunale e presentata ieri nel processo all’unico imputato per omicidio colposo, lo psichiatra Carlo Fraticelli, Uva sarebbe morto per aritmia cardiaca, ma le concentrazioni di medicinale sarebbero “inidonee a causare il decesso per depressione del sistema nervoso centrale” ed è necessario riesumare il cadavere per capire l’origine dei traumi sul suo corpo. Per i tre periti (Santo Davide Ferrara, Gaetano Thiene, Angelo Demoni) ci sono “tracce di sangue sui pantaloni”.
Un’analisi che rimette in discussione l’impianto accusatorio della procura che aveva escluso violenze in caserme, denunciate dall’amico di Uva, Alberto Biggiogero, unico testimone mai interrogato dal pm, che racconta di “un via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo”. È lui a chiamare il 118. “Lo stanno massacrando” dice all’operatore dall’interno della caserma.
Per capire cosa ha provocato l’aritmia cardiaca “con particolare riferimento al ruolo di eventuali traumi – scrivono i periti – si impone l’esecuzione dell’esame necroscopico del cadavere esumato e di ogni ulteriore accertamento diagnostico, comprensivo di tac”. “Il riferimento al sangue sui pantaloni conferma pienamente i nostri sospetti: in caserma è successo qualcosa di terribile” commenta il legale della famiglia di Uva, Fabio Anselmo, lo stesso che ha assistito le famiglie di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. “L’ambulanza viene mandata via dai carabinieri – dice il legale – se Uva stava già male perché non si fa entrare a soccorrerlo?”. Ma i parenti chiedono risposte anche ad altre incongruenze di quella notte: perché in caserma affluiscono carabinieri e poliziotti? Come si spiega il sangue sui vestiti e le macchie rosse tra pube e regione anale? Perché l’autopsia non ha previsto esami radiologici che evidenzino fratture?
Fonte: La Repubblica
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