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Catania: morì in carcere a 19 anni; la madre vuole riaprire il caso “non si è suicidato”

Grazia La Venia è l’ennesima madre che non crede alla versione ufficiale di un’amministrazione penitenziaria. L’ennesima a battersi contro un’archiviazione annunciata. Suo figlio si chiamava Carmelo Castro ed era incensurato. E’ morto il 28 marzo nella cella numero 9 del carcere catanese. Era lì da quattro giorni, da quand’era stato fermato per una rapina nella tabaccheria del suo paese, Biancavilla. Aveva 19 anni. Secondo la versione ufficiale «la morte è avvenuta per asfissia da impiccamento»: avrebbe attaccato il lenzuolo allo spigolo della branda. Nulla pi di questo per il pm che ha proposto l’archiviazione. Ma sua madre chiede che si accerti ciò è avvenuto prima che Carmelo entrasse in carcere anche perché, una volta dentro, per suo figlio,sottoposto al regime di massima sorveglianza, sarebbe stato difficile impiccarsi. La foto segnaletica diffusa dopo il fermo fa sorgere parecchi dubbi: «Forse lo hanno ripulito ma si vede comunque un livido sopra l’occhio sinistro e il labbro gonfio, oltre all’orecchino strappato». I carabinieri lo hanno trattenuto in caserma un intero pomeriggio e lei da sotto lo sentiva piangere e gridare. Potrebbe esserci del sangue sulle scarpe e il giubbotto che indossava. Anche l’avvocato della famiglia segnala «molte incongruenze nella ricostruzione dei fatti»: ad esempio il fatto che, per il trasporto del ragazzo in ospedale, venne utilizzata una normale auto di servizio. Il medico del carcere riferisce di aver praticato le manovre di rianimazione cardiorespiratoria poi le interrompe ma non ritenne di dover disporre il trasporto con un’ambulanza adeguta a continuare le manovre rianimatorie. Il suicidio sarebbe avvenuto alle 12.30 ma Carmelo aveva nello stomaco il pranzo non digerito. Tutte domande che attendono una risposta e che ricordano vicende come quelle che hanno registrato la morte di Niki Aprile Gatti – anche il suo fu un suicidio strano dopo essersi dichiarato disponibile a collaborare. Di Giuseppe Uva – l’analogia consiste nelle urla sentite mentre era in custodia dei carabinieri – e di Stefano Cucchi, passato anche lui dalle mani dell’Arma a quelle del carcere prima di finire “seppellito” in un repartino penitenziario. Così pure la mamma di Marcello Lonzi e i figli di Aldo Bianzino stanno mettendocela tutta perché non cali il sipario sulla morte dei loro cari. E che dire di Manuel Eliantonio e Stefano Frapporti: l primo ucciso dal carcere a Marassi, dicono che si sia ammazzato col gas di una bomboletta ma sua madre Maria non riesce a capire come faccia il gas a spezzare le ossa. Frapporti, invece, si sarebbe “suicidato” dopo due ore dall’arresto. Uno stranissimo arresto. Molti di loro saranno a Perugia venerdì e sabato (per il programma vedi www.veritaperaldo.noblogs.org ), nella due giorni promossa dal Comitato Verità e giustizia per Aldo Bianzino su autoritarismo, proibizionismo, carcere e sicurezza. Appuntamenti di questo tipo stanno producendo un ragionamento collettivo che prova a ribaltare l’ossessione sicuritaria di cui Perugia è laboratorio avanzato.