Menu

Centri per migranti in Albania: di male in peggio

Il fallimento dei centri costruiti in Albania per il trattenimento di richiedenti asilo le cui domande sono esaminate con procedura accelerata non potrebbe essere più clamoroso. Per riguadagnare credibilità il Governo corre ai ripari e vara un decreto legge con cui li trasforma in centri per il rimpatrio. Ma il rimedio è peggiore del male: la soluzione è in evidente contrasto con il diritto europeo e rischia nuove bocciature.

di Gianfranco Schiavone da Volere la Luna

Il Protocollo Italia-Albania ratificato con la legge 21 febbraio 2024 n. 14 prevede che nelle strutture in Albania «possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso» (art. 3 comma 2) nei cui confronti risulta possibile applicare la cosiddetta procedura accelerata di frontiera per l’esame delle domande di asilo. Per realizzare tale finalità è stata prevista, nella struttura di Gjader, una parte di notevoli dimensioni, da adibire a funzioni di hotspot (o centro di accoglienza) e una, molto più piccola, da adibire a centro per il rimpatrio (CPR) per coloro la cui domanda di asilo sia stata rigettata e in sede di ricorso, se presentato, non sia stata concessa la sospensione dell’allontanamento.

Quanto accaduto negli ultimi mesi è ben noto. Non torno dunque sulle gravi problematiche di legittimità di questa procedura, ma mi limito a evidenziare che, nel recentissimo decreto legge n. 37 del 28 marzo, il Governo, pur negando, contro ogni evidenza, che il testo del Protocollo sia stato modificato in aspetti sostanziali ha cancellato l’esclusività di funzioni sopra indicata prevedendo che nel piccolo CPR interno al centro di Gjader possano essere condotte anche le persone che si trovano in Italia e che sono «destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati ai sensi dell’articolo 14 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998» (art. 1, comma 1, lettera a). Inoltre, si è previsto che il trasferimento effettuato dalle strutture di cui all’articolo 14, comma 1, del testo unico immigrazione (cioè i CPR ubicati in Italia) al CPR interno alla struttura di di Gjader «non fa venire meno il titolo del trattenimento adottato ai sensi del medesimo articolo 14, né produce effetti sulla procedura amministrativa cui lo straniero è sottoposto» (art. 1, comma 2, lettera b). In sintesi, secondo la nuova disciplina che passerà nei prossimi giorni all’esame del Parlamento, è possibile aprire un ordinario centro di detenzione amministrativa per eseguire coattivamente le espulsioni anche fuori dal territorio nazionale e chi vi verrà trasportato non si troverà neppure all’estero in quanto rimarrà sotto la giurisdizione italiana. L’eventuale rimpatrio verso il Paese di origine sarà infatti eventualmente attuato solo facendo rientrare la persona espulsa in Italia al termine del trattenimento in Albania .

La nuova trovata del Governo italiano per salvare i centri in Albania finora falliti pone una questione giuridica e politica di enorme rilievo che può essere sintetizzata nella seguente domanda: può uno Stato membro dell’Unione Europea collocare uno straniero, di cui è stata già decisa l’espulsione coattiva da attuarsi attraverso il trattenimento amministrativo, in una struttura ubicata fuori dal proprio territorio, in un paese terzo, assicurando comunque il rispetto delle procedure e degli standard previsti dal diritto europeo sugli allontanamenti forzati? È possibile aprire una tale tipologia di centri oggi in Albania e domani magari altrove anche dall’altra parte del mondo?

Come la protezione internazionale, anche la materia dei rimpatri dei cittadini stranieri che non sono in regola con le norme sul soggiorno in uno Stato membro dell’Unione è regolata, seppure in modo più scarno rispetto al diritto di asilo, dal diritto dell’Unione Europea sulla base della Direttiva 115/08/CE (oggetto, tra l’altro, di una proposta di riforma presentata pochi giorni fa dalla Commissione). In tale direttiva la nozione di “allontanamento” viene definita come «l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro» (art. 3, par. 5) e per “rimpatrio” si intende «il processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente» (par. 3). Il rimpatrio normalmente si conclude nel paese di origine ma – va detto per inciso – p concludersi anche in un paese terzo che svolge la funzione di «paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre intese» (par. 3, seconda parte). In tal caso il paese terzo si assume interamente la responsabilità della condizione giuridica della persona espulsa e il processo di rimpatrio realizzato dallo Stato membro dell’Unione si conclude con l’allontanamento della persona in tale Paese. Non è questo, ovviamente, il caso dell’accordo tra Italia e Albania, la quale ultima non si assume in alcun modo la gestione degli espulsi né dei richiedenti asilo.

Il diritto dell’Unione non autorizza in alcun modo la collocazione e la gestione da parte di un Paese UE di una propria struttura di trattenimento al di fuori del territorio dell’Unione: ciò in base sia alla interpretazione letterale che a un’interpretazione sistematica e teleologica della norma. Lontano dalle esasperazioni politiche che agitano il nostro oscuro presente, il diritto UE non ha mai contemplato la possibilità che centri di trattenimento europei possano venire aperti a piacimento in giro per il mondo e tuttora prevede che il trattenimento per eseguire l’espulsione dal territorio di uno Stato membro può essere applicato solo come ultima ratio, se non «possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive» e «soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento» (art. 15, par. 1), inteso, come sopra indicato, come trasporto fisico fuori dal territorio UE. Il trattenimento deve essere il più breve possibile, deve essere periodicamente riesaminato per valutare in concreto se ci sono le ragioni per proseguirlo e «se non c’è alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi […], il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata» (art. 15, par. 4). Gli stranieri trattenuti devono avere la possibilità «di entrare in contatto, a tempo debito, con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti» (art. 16, par. 2) nonché con organizzazioni non governative di tutela, le quali «hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea» (art. 16, par. 4).

L’accesso a tali diritti deve essere effettivo: non può stare solo scritto sulla carta e non essere concretamente esercitabile, come avverrebbe in caso di strutture ubicate al di fuori del territorio dello Stato membro dell’UE. Se il centro di detenzione si trova in Albania o in Zimbabwe o in Kazakistan o chissà dove, infatti, il familiare non può in concreto incontrare chi è trattenuto. La esternalizzazione al di fuori dei confini dei centri di detenzione amministrativa renderebbe difficile anche lo svolgimento ordinario delle visite ispettive svolte da parlamentari e le stesse funzioni di monitoraggio e controllo svolte dal Garante nazionale per le persone private della libertà personale non potrebbero essere svolte in modo efficace. La conclusione è evidente: in centri di detenzione ubicati al di fuori degli Stati dell’Unione non è possibile attuare il trattenimento «nel pieno rispetto dei diritti fondamentali» (considerando n. 17) e si può ben dire che le persone in essi rinchiuse sarebbero di fatto ostaggi di un potere arbitrario.

A quanto sopra il Governo italiano risponde sostenendo che i CPR in Italia sono pienamente equivalenti con il CPR in Albania in quanto entrambi sottoposti alla giurisdizione italiana e che il trasporto all’estero delle persone espulse sarebbe una semplice “finzione” e conclude affermando il pieno rispetto, nei trasferimenti coattivi indicati, sia delle garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione sia delle previsioni del diritto europeo. È peraltro evidente, alla luce di quanto si è detto, che tali fumose tesi sono semplicemente una sorta di gioco di parole o di truffa delle etichette per coprire l’ennesimo radicale strappo che si sta consumando nel nostro ordinamento giuridico.

Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000 

News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp