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Che cosa c’entra Budroni con il Quirinale?

Una lettera del Quirinale  condanna “l’azione di chi alimenta diffidenza e avversione nei confronti delle forze di polizia”. Pochi giorni dopo le controverse assoluzioni nei processi Ferrulli e Budroni

di Ercole Olmi

Ha detto «assolve» chinandosi appena sul microfono, con lo sguardo obliquo a escludere una parte dell’aula, l’ha detto di corsa, forse senza sedersi. Ha detto «assove» mangiadosi le lettere, le parole, la speranza. Ma l’ha detto scappando come a dire buone vacanze, la vita è bella, troppo, per sprecarla come fate voi. In un baleno è sparito dietro la sua porta.

Ma cosa si saranno messi in testa questi parenti che un istante dopo hanno rotto la penombra dell’aula di piazzale Clodio gridando la disperazione di chi si vede oscurare il resto della vita dopo aver trascorso tre anni a scandagliare ogni aspetto della vicenda che ha portato all’uccisione di loro figlio, fratello, cognato?

Ma cosa si saranno messi in testa quei senzapatria tatuati, che seguono quelle famiglie tribunale per tribunale, che scrivono comunicati e rispondono addirittura a un numero verde per evitare che succedano “abusi in divisa”, così li chiamano? Hanno perfino inventato un’associazione, Acad, provano a impedire che ogni vittima sia messa da morto sul banco degli imputati, processato per la sua vita bruciata da un pestaggio o da un proiettile d’ordinanza. Hanno un bel dire che non se la siano cercata!

Un proiettile calibro 9, come quello che ha trapassato il fianco sinistro di Dino Budroni mentre era fermo, così ha detto il pubblico ministero citando la perizia dei Ris e le testimonianze dei carabinieri che gli avevano tagliato la strada. Budroni s’era fatto inseguire dopo una notte del cazzo di cui non si sa tutto ma la pubblica accusa s’era convinta fosse ormai fermo «dopo una manovra di straordinaria efficacia», «un accerchiamento in corsa», formazione a “S”, una gazzella dei carabinieri davanti, di taglio, una volante a sinistra, quasi parallela, e un’altra macchina della polizia dietro. Appena fermi, «in contestualità all’arresto generalizzato», un poliziotto della volante parallela, ha sparato due volte. I carabinieri hanno pensato che avesse sparato in aria, a scopo intimidatorio. I poliziotti, con testimonianze non proprio sovrapponibili, hanno detto che aveva sparato in corsa e che solo per quello ha sbagliato mira ammazzando una persona di 40 anni. Ma il pm propende per i ricordi meno viziati di quelli dei poliziotti da quel veleno che si chiama “spirito di corpo” e che è facile confondere con l’omertà. «In buona sostanza non ha sparato in corsa… l’accerchiamento era compiuto». Sì, va bene, l’uso dell’arma è legittimo durante gli inseguimenti, lo dicono alcune sentenze della cassazione, quando sono in pericolo pedoni e altre automobili, o quando si vuole sventare un crimine. Ma Budroni era ormai fermo. La macchina nemmeno è andata a sbattere al guard rail, aveva la prima innestata e il freno a mano tirato. Ma il poliziotto era eccitato, «una discarica adrenalinica», l’unico a percepire il pericolo proveniente da quella Focus, uno che non aveva mai sparato nei suoi parecchi anni di servizio. «C’è un veicolo fermo, sei agenti armati che lo circondano. Il più folle dei delinquenti sarebbe già dissuaso». Invece il poliziotto spara un colpo, passa qualche secondo e ne spara un altro. Per il pm è un eccesso colposo, un errore molto grave determinato dall’«incapacità di leggere correttamente la situazione», un «sintomo di imprudenza e di imperizia». Ha sparato male, ha sparato due volte, ha sparato senza che nessuno gliel’abbia ordinato. Due anni e sei mesi, tanto ha chiesto, e l’avvocato di parte civile, della famiglia Budroni, ha obiettato che forse era qualcosa di più «inquietante» di un eccesso colposo, probabilmente un «eccesso doloso» perché la differenza di angolazione tra i due spari, quasi 16 gradi, coi veicoli ormai fermi, racconta che è il braccio a essersi mosso per inseguire un bersaglio e non come dicono i colleghi che quel braccio si sia spostato per via dell’urto tra le auto. La volante era già riuscita a speronare la macchina di Budroni contribuendo alla fine della fuga. E le registrazioni di quello che si sono detti alla radio quella notte con le rispettive sale operative restituisce lo «sconcerto dei carabinieri». Che i colpi non siano in rapida successione lo dimostrerebbe anche una di quelle registrazioni dove le pistolettate sono rimaste incise assieme alle voci dei tutori dell’ordine. E in fin dei conti poco prima dell’alba, alla fine di luglio, non c’era poi tutto questo traffico, ha ricordato Alessandra Pisa, un’altra legale della famiglia Budroni. L’uomo stava cercando di tornare a casa, se mai avesse commesso dei reati in quel momento «non c’era un pericolo imminente e attuale», «nessun atto aggressivo» e l’agente nemmeno ha sparato in aria come si vede fare in qualsiasi film.

Ma questo non è un film, è la storia dell’uccisione di un uomo e di tutte le manovre messe in atto per farla sembrare un’uccisione dovuta, quel famoso uso legittimo delle armi che scagiona gli agenti da qualsiasi conseguenza, che gli lava la coscienza e lo stato di servizio. La Pisa s’è andata a leggere il manuale di tiro dei poliziotti, dice che per sparare in movimento bisogna essere molto affiatati nell’equipaggio ma lui ha sparato senza nemmeno avvertire il collega, in stato di agitazione, accettando il rischio. «Un atto impulsivo per fermarlo ad ogni costo».

Infatti, a sentire il suo difensore, Budroni doveva essere fermato, è inammissibile perseguire, dice l’avvocato, «un pubblico ufficiale che usi delle armi nel corso di un intervento necessario per impedire la consumazione di delitti». Ma come? Il “delitto” era già stato consumato, l’ha detto il pm all’inizio della requisitoria?! Ma l’avvocato va avanti come un treno e sembra il pm che processa il violento Budroni e insiste con la storia che le macchine andavano ancora forte. E il giudice, in effetti, è lo stesso che aveva condannato Budroni da morto: una storia blanda, gli avevano trovato in casa, in campagna, una balestra giocattolo e una carabina, porto abusivo di armi.

Poi l’attesa della sentenza. Qualcuno dice che c’è la possibilità di rispedire gli atti in Procura perché le perizie e i testimoni fanno intravedere un reato più grave, perché di lati oscuri ce ne sono ancora troppi. Ma, poco dopo, poche parole del giudice fanno piazza pulita di tutte le speranze di verità e giustizia di una famiglia che mai avrebbe pensato di finire in tribunale con un figlio morto. Le loro urla, le facce disperate, restituiscono lo smarrimento arrabbiato di chi si sente spinto ai margini della storia, privato della dignità.

Chissà cosa si sono messi in testa per due-tre casi che gli sono andati bene – Aldrovandi, Gugliotta e boh – che lo Stato possa mettere sotto processo lo Stato? Che i poliziotti e i carabinieri debbano rispettare la Costituzione anche con i sospetti, i delinquenti, i drogati, i manifestanti? Lo ha detto anche il Quirinale quando ha restituito la medaglia al sindacalista del Sap, uno di quelli che avevano applaudito «per carità» gli assassini di Aldrovandi, che l’aveva rispedita perché indignato dall’indignazione di molti esseri umani senza divisa per gli applausi suoi e dei suoi colleghi. Napolitano gliel’ha rispedita e la sua segreteria ha scritto che ribadisce “i sentimenti di riconoscenza e apprezzamento” verso le forze dell’ordine e che condanna “l’azione di chi tende ad alimentare un clima di diffidenza, se non di avversione, nei confronti delle forze di polizia e specificamente della polizia di Stato“. Pochi giorni dopo le assoluzioni dei quattro agenti che avevano cercato di arrestare Michele Ferrulli fino a fargli venire un infarto. Il pm aveva chiesto sette anni ma il giudice li ha assolti. Poi l’assoluzione dell’agente che ha ammazzato Budroni sparandogli da fermo, secondo l’accusa. Quella del Quirinale, letta adesso, ha tutto il sapore di una direttiva o, comunque, dell’insofferenza dell’ex ministro degli Interni che inventò i Cpt (e mise il segreto alle carte della commissione parlamentare sulla Terra dei fuochi) per chi contesta la violena.

Quelli di Acad, adesso parlano di “pena di morte”, di “licenza di uccidere”, parlano di uno Stato che ancora una volta «ha assolto sé stesso giocandosi la carta dell’opposizione qualitativa tra “buoni” e “cattivi”, tra individui di serie A e individui di serie B, per la cui misura del valore della vita esistono due pesi e due misure nettamente distinti, con buona pace di quel “La legge è uguale per tutti” brutalmente sbattuto in faccia in ogni aula di tribunale. Ancora una volta ci siamo trovati di fronte a una sentenza agghiacciante, che grazie a questo gioco ha legittimato ancora la pena di morte per i “cattivi” assolvendo gli assassini in divisa». Dicono pure che continueranno «a cercare la verità, nonostante la recente assoluzione degli assassini di Michele Ferrulli e la vergogna di ieri ci ribadiscano il delinearsi di uno scenario quanto mai inquietante. Siamo vicini alla famiglia di Dino e di tutte le altre vittime degli abusi in divisa. Perché non accada mai più». Anche Amnesty prende parola all’indomani della sentenza: «lascia perplessi l’assoluzione con formula piena dell’agente che, la notte del 31 luglio 2011, sparò due colpi di pistola contro Dino Budroni al termine di un inseguimento sul Grande raccordo anulare di Roma. A fronte delle richieste di condanna dell’agente, formulate a vario titolo sia dal difensore di parte civile che dal pubblico ministero, la sentenza del 16 luglio dice categoricamente che quella notte non fu commesso alcun reato, neppure colposo. Leggeremo con attenzione le motivazioni della sentenza per comprendere come mai sia stato possibile escludere un uso eccessivo della forza letale».

 

da popoffglobalist.it