Note romantiche e politiche su Genova 2001
Avere vent’anni è una delle canzoni degli Assalti Frontali che preferisco, con il suo mix di spensieratezza e nostalgia. Io vent’anni li avevo nel luglio del 2001, fatti una settimana prima di partire per Genova; e di sogni grandi ne avevo a bizzeffe, come quelli di un’intera generazione che alcuni definirono – a ben vedere – la “terza potenza mondiale”.
Arrivammo a Genova la mattina di mercoledì 18, dopo un viaggio che ci era parso interminabile. Ci dirigiamo al Carlini che siamo quasi senza forze: notte praticamente insonne, ma ricca di discussioni, improvvisate strategie di piazza, alcuni momenti di ansia e altri di fremito. Lo stadio, che una decina di anni prima era stato anche teatro di una partita amichevole tra il Genoa e la mitica nazionale dell’Unione Sovietica, era già stracolmo, tanto che facciamo fatica a posizionare le nostre tende.
È stato proprio in quel momento, con quel contatto con migliaia di giovani come noi, che ci siamo sentiti e abbiamo sentito “la moltitudine”. Eppure di manifestazioni in quel periodo ne avevamo fatte tante: Napoli pochi mesi prima – quante botte che ho preso a Napoli! -, un mese prima a Göteborg contro il summit europeo, l’anno precedente al vertice Ocse di Bologna e a Praga, dove fui anche fermato dalla polizia. Ma l’atmosfera di quei giorni era un’altra cosa e il Carlini era proprio come ce lo immaginavamo: carico, elettrizzante, meticcio.
Ricordo ancora il caldo e il sudore, le subitanee con i vicini di tenda, che per noi – compagni e compagne di provincia – erano sempre manna dal cielo, le file ai bagni. È lì che incontro Chiara, che ha da poco preso il diploma di ragioneria a Milano anche se – ci tiene subito a dirmi! – i suoi genitori vengono dalla provincia di Crotone e di milanese lei ha ben poco. Ma a me proprio non importava da dove venisse, tanto era dolce il suo sguardo e belli i suoi lineamenti. Decidiamo di andare a vedere insieme il concerto di Manu Chao in piazzale Kennedy, quell’indimenticabile saluto che il “Clandestino” fece al “popolo no-global”. Con Chiara passo delle ore bellissime, parliamo di musica, di ideali, di politica e anche se non viene – come me – dalla “galassia dei centri sociali” ha le idee molto chiare sul perché è ingiusto che 8 “potenti” decidano le sorti di un’umanità intera. Torniamo al campeggio che è tardissimo, ma continuiamo a parlare, anche se con la voce bassissima per non disturbare, e ci baciamo lungamente. Ci diciamo entrambi che sarebbe bello andare qualche giorno insieme al mare, magari a Rapallo o Portofino, per goderci un po’ di sole e salsedine dopo giornate che si preannunciavano intense e faticose. Ma gli eventi politici dei giorni successivi saboteranno queste intenzioni e Chiara rimarrà una sorta di “eccedenza romantica” in un quadro che di passioni ne avrà fin troppe. Ma quando ci ripenso i brividi sono sempre in agguato.
Dal mattino dopo in avanti i miei ricordi si mischiano con la narrazione politica che pone Genova 2001 in sospensione tra storia e leggenda, tra politica e mitologia. Il corteo per la “libertà di movimento”, con migliaia di migranti in piazza fianco a noi e, forse, era la prima volta che accadeva in Italia una cosa del genere. E poi il 20 luglio: il corteo delle Tute Bianche che parte dal Carlini verso la “zona rossa”, l’agguato dei carabinieri, gli scontri che dilagano tra via Tolemaide e via Caffa e poi in tutte le vie circostanti, lo sparo di piazza Alimonda, il corpo esanime di Carlo e Genova che d’improvviso si trasforma da sogno da realizzare in teatro dell’orrore. A ancora: la “macelleria messicana”, la vergogna della Diaz e di Bolzaneto, gli insabbiamenti politici e giudiziari, le ferite che sono ancora aperte e continuano a far male.
Le «lacrime di luglio» cantavano due anni dopo i Linea 77. Ma quel movimento non fu solo lacrime, sangue e morte; è stato forse un errore che quella memoria che tutti chiamammo “ingranaggio collettivo” abbia messo il suo carico soprattutto su questo. Da Genova tornammo frastornati, ma con nessun senso di sconfitta. Neppure il lutto poteva cancellare quelle parole d’ordine che hanno fatto da apripista ai movimenti contemporanei. Una “visione lunga”, che aveva letto con largo anticipo le brame del capitale finanziario, i pericoli della crisi ecologica, l’istituzionalizzazione del razzismo.
Quasi vent’anni dopo quei giorni, con il mondo nel pieno di una crisi che si appresta a diventare epocale, pensare solo di aver avuto ragione sa tanto di “pacca sulla spalla”. Probabilmente quel movimento, quel tipo di soggettività e di approccio alla militanza non tornerà più, perché è figlio di un’epoca in cui gli effetti devastanti del neoliberismo non si erano ancora palesati a pieno, ma allo stesso tempo carica di speranze. L’importante, però, è continuare a guardare le immagini della Genova che brucia con rabbia e non con nostalgia, sovrapporle a quelle attuali di Portland o Santiago del Cile e iniziare a intravederci il futuro e non il passato. Perché è solo così che gli eventi politici si possono emancipare dalla dimensione mitologica e diventano storia, nei suoi corsi e ricorsi e nelle sue sedimentazioni. Perché a cos’altro serve un movimento nel passato se non a dare la spinta a quelli del futuro?
Dedicato a Carlo Giuliani, a chi ci crede ancora e anche un po’ a Chiara, che non ho mai più rivisto…
El Indio