Il Battaglione azov non è l’unica formazione di destra presente nelle fila di Kyiv. Così come militanti fascisti combattono dalla parte russa e sono presenti in Donbass. Non mancano neanche gli internazionalisti di estrema destra in viaggio verso entrambi i fronti. Conversazione con Elia Rosati
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Fra le componenti militari ucraine più controverse c’è di sicuro il cosiddetto “Battaglione Azov”, reggimento di volontari dalle simpatie neonaziste inquadrato da anni dentro l’esercito regolare e ora protagonista della “resistenza” della città di Mariupol. Ma Azov non è l’unica formazione di destra presente nelle fila di Kyiv. Così come militanti fascisti combattono dalla parte russa e sono presenti in Donbass. Internazionalisti di estrema destra, inoltre, stanno arrivando sul terreno di battaglia, arruolandosi in tutt’e due gli schieramenti, come recentemente sottolineato in un reportage del Washington Post.
Una tale complessa situazione rimanda alla più ampia storia dei movimenti neo-nazisti e di estrema destra in est-Europa, che non ha un andamento lineare e interroga anche le forme di governo democratico-liberali “occidentali”. Abbiamo chiesto al ricercatore Elia Rosati (autore di CasaPound Italia. Fascisti del terzo millennio e L’Europa in camicia nera) di tratteggiare questa storia, provando a capirne le origini e i potenziali rischi per il futuro.
A oltre un mese dall’inizio della guerra, ti sembra che stiano cambiando i rapporti di forza e il peso delle formazioni neonaziste come il battaglione Azov?
Mi sembra di no. Credo che la visibilità avuta dal battaglione Azov in questo conflitto sia fondamentalmente la conseguenza di una “distorsione ottica”. Per dirla in maniera un po’ brutale: Mariupol è in questo momento la città “resistente” per eccellenza, il battaglione neonazista sta combattendo a Mariupol (che è tra l’altro la città in cui è nato, sostanzialmente) ed ecco che automaticamente il battaglione assume uno status di “resistente”. Da qui anche la legittimazione e le onorificenze assegnate da Zelens’kyj ad alcuni suoi comandanti, come Denis Prokopenko, più volte esaltato ed esibito pubblicamente dal premier di Kiev.
Nonostante a livello propagandistico si sia venuta a creare una forte polarizzazione ideologica (e sarebbe strano il contrario in un contesto di guerra), penso quindi che le coordinate entro cui leggere il conflitto rimangano di base coordinate di natura geopolitica. Non c’è un’appartenenza “valoriale” che divide le due fazioni. Lo si vede se rivolgiamo lo sguardo al Donbass, per esempio: Aleksandr Zacharčenko, capo di stato maggiore delle repubbliche indipendenti dal 2014 al 2018, era un esponente di destra radicale. Tutto il movimento imperialista, euroasiatico e tradizionalista ortodosso russo ha partecipato alla vita politica di questi territori autonomi.
D’altra parte, è interessante notare come il battaglione Azov non sia l’unica forza militare di estrema destra sul campo ma, generalmente, è quella a cui si uniscono i combattenti internazionalisti che arrivano in Ucraina. Tuttavia, come riportano anche i nostri servizi, pare che la maggior parte di combattenti italiani di estrema destra si siano uniti alle forze russe, ma questo ha una incidenza minima in un contesto bellico in cui anche solo gli USA stanziano 3 miliardi di dollari di aiuti militari a Kiev e la Russia dispiega un contingente di un centinaio di migliaia di uomini, con artiglieria pesante, aviazione e mezzi corazzati. Questo per ribadire che le ragioni di natura geopolitica mi sembrano appunto di gran lunga prevalere su quelle ideologico-valoriali.
Nessuna “de-nazificazione” in corso quindi…
Molti hanno affermato che nel suo discorso del 22 febbraio Putin ha voluto criticare l’Unione Sovietica per riagganciarsi invece all’eredità dello zarismo. Io credo invece che volesse esprimere una continuità anche con l’Urss e questa continuità poggia sul mito staliniano della “Grande guerra patriottica”. Nella sua ricostruzione della storia russa, Putin ha sostanzialmente detto: c’erano gli zar, poi l’URSS, ci siamo difesi dagli invasori nazisti (e gli ucraini stavano con questi ultimi) siamo stati un impero nella Guerra Fredda e poi, dopo un periodo di decadenza in cui la NATO ci ha circondati e limitati, sono arrivato io.
Certo, il tutto è complicato dal fatto che dietro l’ideologia putiniana c’è una forte componente euroasiatica, la Russia negli ultimi vent’anni, ricordiamolo, è stata la stella polare, la sponda politico-ideologica e la casa comune di ogni tendenza di destra radicale sviluppatasi negli ultimi decenni. Ma da parte di Putin la retorica della “denazificazione” ha assunto una veste fintamente ideologica e infatti generica per cui l’Ucraina viene identificata come un territorio “degradato” (non a caso parla di “drogati”, ecc.). Però, appunto, è rimasto l’accento sulla lotta all’invasore (nazista) che deriva dall’immaginario della “Grande guerra patriottica” , soltanto che gli invasori questa volta sono i russi e il conflitto, con la benedizione della Chiesa ortodossa, assume toni quasi da crociata.
La questione del battaglione Azov e delle formazioni neo-naziste ucraine si inserisce quindi in un quadro decisamente più ampio e complesso.
La questione del battaglione Azov infatti non nasce ora. Puoi tratteggiare un po’ la sua storia?
In molti legano il battaglione Azov alle proteste di Euromaidan, ma in realtà il suo “periodo d’oro” arriva dopo. Possiamo definirlo un “frutto” di Pravy Sektor ma si tratta di un battaglione di volontari patriottici e nazionalisti che è stato utilizzato dallo stato ucraino in funzione anti-Donbass e che si era dato pure un braccio politico. Il leader della formazione militare Andrіj Bіlec’kyj è stato infatti anche un deputato dal 2014 al 2019 (Bіlec’kyj viene da Maidan, apparteneva a Pravy Sektor).
Questo forse è un dato non così preso in considerazione: il battaglione Azov è anche una forza politica e si è strutturato come tale. Nelle ultime elezioni parlamentari del 2019, si presentava assieme a Pravy Sektor e Svoboda senza riuscire a entrare in parlamento. Ciononostante, queste forze hanno dei rappresentanti nelle amministrazioni locali. Il tutto in un quadro di assoluta normalità della presenza di sigle neonaziste dentro la vita politica ucraina (da sempre, anche da prima di Euromaidan). Cosa che, mi pare, non genera neanche polemiche da parte dei rappresentanti della comunità ebraica locale.
La casa comune dei neonazisti ucraini è sempre stata costituita dal partito di Svoboda. Svoboda (che nel 1991 si chiamava partito nazionalsocialista ucraino) ha avuto una sorta di svolta nel 2004 che le fa fare un salto di qualità: comincia ad avvicinarsi a posizioni filo-Nato. Questo le fa effettivamente diventare un po’ delle mosche bianche, perché abbinavano un programma totalmente nazionalista alla richiesta di alleanza con la Nato. Volevano addirittura le atomiche in Ucraina per difendersi dai russi! Per realtà nostrane come Forza Nuova, con cui pure Svoboda si gemellava negli anni ‘00, un discorso del genere ha sempre rappresentato una bestemmia…
Dopodiché Svoboda nel 2012 è arrivata al 10,5% e successivamente ha sempre sfiorato l’ingresso in parlamento: le proteste di Euromaidan sono successive alle elezioni dell’ottobre del 2014, dove loro per pochissimo non sono entrati in parlamento (la regione dove Svoboda raggiungeva le sue percentuali più alte era quella di Leopoli). Svoboda era contraria agli accordi di Kharkiv, volevano togliere lo statuto speciale alla regione della Crimea, hanno portato avanti le battaglie per cambiare la toponomastica sovietica, ecc. Effettivamente Euromaidan dà ai membri di Svoboda una visibilità maggiore: fanno pure parte di un governo provvisorio per pochi giorni. Subiscono però anche la concorrenza di Pravy Sektor, per poi però – come accennato – fare una lista insieme nel 2019. Tuttavia, il loro consenso ora è sostanzialmente in una fase decrescente.
Su cosa si basa il loro consenso dal tuo punto di vista?
Lasciando stare la regione di Leopoli, Svoboda ha avuto il suo “anno di gloria” durante le elezioni del 2012. Quella è stata una tornata molto importante: il partito Patria di Tymoshenko si scontrava con il Partito delle Regioni di Janukovich. Fu la prima grande elezione nella politica ucraina in cui si profilava un distacco dalla Russia ed è appunto questa controversia che ha rinfocolato il nazionalismo. A mio modo di vedere, dunque, i picchi di consenso raggiunti da Svoboda sono figli di una “luce riflessa” della campagna anti-russa. L’Ucraina inoltre aveva la particolarità per cui il voto di estremismo nazionalista non si era disperso negli anni, contrariamente ad altri contesti est-europei.
In questo senso, ritorno a quanto ho già accennato: la svolta filo-atlantista è stata un po’ la chiave del loro successo. Non dimentichiamoci che lo spazio di cooperazione economica e militare della Csi presenta un’egemonia russa molto formalizzata, quasi di stampo “coloniale”. Inoltre, con gli accordi di Karhkiv (già contestati) la Russia poteva contare su basi militari in Crimea.Maidan ha poi dato molta visibilità a Svoboda, ma paradossalmente gli ha dato pure il “concorrente” di Pravy Sektor.
A proposito delle manifestazioni di piazza, la presenza dell’estrema destra è stata così forte come a Maidan anche in altri episodi (Rivoluzione Arancione, Ucraina senza Kuchma, ecc.)?
Credo occorra partire da questo punto: abbiamo visto come in est-Europa (e anche l’Ungheria recentemente lo ha dimostrato) l’opposizione a un leader che resta in carica molti anni porti ad avere una composizione di piazza molto mista. Ma quello che succede nell’Est, generalmente, è che le formazioni di destra in questo senso sono più organizzate, più strutturate e agiscono da minoranza attiva: la piazza di Euromaidan non era certo il “Terzo Reich” che si scontrava con la polizia del governo filo-russo dei brogli elettorali. Sicuramente si trattava di un moto di popolo, ma le formazioni più organizzate erano quelle neonaziste. In piazza così composite, succede questo.
O si sviluppa la dinamica delle cosiddette “rivoluzioni colorate” (il cui ciclo però al tempo di Euromaidan era già terminato), vale a dire una dinamica per cui ci sono dei partiti liberali nuovi (figli spesso anche di interessi oligarchici locali e con un sostegno politico occidentale) che riescono a intestarsi l’andamento delle proteste e a canalizzarlo in senso elettorale, oppure, se si sfocia in grossi disordini come nel caso del 2014, le componenti giovanili di estrema destra nell’est europeo finiscono quasi sempre per essere l’avanguardia.
Purtroppo, i movimenti giovanili antifascisti e anticapitalisti nell’est (così come molte ong e associazioni per i diritti civili) sono essenzialmente minoritari, anche per effetto della costante repressione poliziesca e di spazi democratici molto risicati. Se ci pensiamo infatti le grandi internazionali giovanili neonaziste (nate però tra Usa e Gran Bretagna come Blood and Honour negli anni Ottanta) sopravvivono e prosperano solo nell’Europa dell’Est.
Come mai?
In Russia, per esempio, gruppi e formazioni antifasciste sono state falcidiate dalla loro controparte neonazista: sotto Putin, si è verificato un vero e proprio “scorrazzare indisturbato” di bande neonaziste che ha quasi eliminato fisicamente i gruppi antifascisti, sull’onda della propoganda e dell’esplosione di fenomeni nazionalisti e razzisti connesso al clima di guerra in Cecenia e all’imperialismo putiniano. A questo si sono aggiunti i tribunali e la repressione di piazza. Sotto l’ombrello dell’ideologia euroasiatica è prosperato il neonazismo russo, che è andato a far parte del sostegno di Putin, in modo manifesto e riconosciuto. Oppure in Polonia, dove si sono formati pure straordinari movimenti di massa transfemministi o per i diritti civili, ma in cui comunque la componente antifascista militante finisce per essere piccola perché colpita negli anni sia dalla polizia che dalla violenza neonazista.
Stiamo parlando di paesi che hanno una vita democratica particolare.
In più c’è un dato che secondo me passa spesso sottotraccia: si tende a semplificare la realtà storica descrivendo una dicotomia: il modello della democrazia liberale (occidentale) e un modello autoritario (maggioritario a est). In realtà, paesi come quelli di Visegrad e in particolare l’Ungheria di Orbán hanno teorizzato un modello di “democrazia illiberale”. Hanno costruito e tra l’altro praticano una gestione politico-sociale autoritaria, con un forte controllo della stampa, con messa al bando di alcuni partiti, con una ideologia identitaria-omofoba-razzista di Stato, con un presidenzialismo forte e cambiamenti costituzionali che vanno a certificare questo accentramento di potere. Un modello di governance rappresentativa ma con nessuna divisione dei poteri.
Orbán di fatto ha costruito un modello di presidenzialismo identitario, figlio di continue forzature ma che risulta essere in qualche modo “digeribile” e legittimato dal punto di vista elettorale. Si tratta di un aspetto importante di questo “momento reazionario”, anche perché pure in Occidente si vorrebbe in realtà un presidenzialismo un po’ più forte. Si è riaperta la necessità di un dirigismo maggiore… Dieci anni di “fase reazionaria” hanno portato inevitabilmente a una accettabilità democratica di un certo decisionismo presidenzialista, di alcune forzature giuridico-securitarie e ad una certa insofferenza populista per il dibattito politico, per il ruolo dei corpi intermedi e della contrattazione sociale.
da DINAMOpress