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Cile, 11 settembre 1973: il colpo di Stato di Pinochet e il laboratorio di sperimentazione neoliberista

Sono passati 51 anni dal colpo di stato fascista in Cile, dall’uccisione del Presidente Salvador Allende, dall’insediamento di una dittatura militare voluta dagli Stati Uniti che torturò e uccise gli avversari politici, che provocò migliaia di detenuti ed esuli, dando il via a una serie di misure economiche improntate alle teorie liberiste della “scuola di Chicago”.

UNDICI SETTEMBRE 1973

Dal giorno dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001, è in pratica scomparsa dalla narrazione ufficiale la data dell’11 settembre 1973, quando, in Cile, i militari guidati dal generale Pinochet effettuarono un colpo di stato, rovesciando il Presidente eletto, il socialista Salvador Allende, e instaurarono una dittatura basata sul terrore, le torture e l’eliminazione fisica degli avversari politici.

Allende era sostenuto da un’ampia coalizione di sinistra, l’Unidad Popular, che era riuscita a vincere le elezioni, scavalcando tutti gli ostacoli che la CIA e gli Stati Uniti avevano messo in campo per impedire l’affermazione di quel blocco politico/sociale. Pertanto gli USA “furono costretti” a passare alla fase due. Lo dichiarò sfacciatamente Henry Kissinger, il consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di Stato del presidente Richard Nixon: «al fine di evitare che il Paese possa subire l’egemonia comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo […] la questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli».

Le misure messe in campo dall’amministrazione Allende stavano minacciando non solo gli interessi ideologici (era stato introdotto il divorzio e legalizzato l’aborto), ma anche sul versante economico gli Stati Uniti si sentirono messi sotto scacco (aumento dei salari, allargamento delle tutele sociali, una più equa distribuzione delle terre, nazionalizzazione della produzione del rame, togliendo il monopolio alle aziende statunitensi, e sospensione del pagamento del debito estero). Attraverso un embargo gli Usa cominciarono ad esercitare una crescente pressione sul paese latino-americano. Ma, oltre al boicottaggio dell’economia cilena, l’amministrazione Nixon finanziò direttamente i gruppi ostili al governo socialista. Dopo le azioni di influenza e spionaggio, gli Stati Uniti passarono direttamente all’organizzazione del golpe: la mattina dell’11 settembre, vennero bombardate le sedi radio e tv di Santiago del Cile, poi le forze armate capeggiate dal generale Pinochet iniziarono “l’Operazione silenzio”. Carri armati e aerei presero d’assalto il Palacio de la Moneda, sede del governo cileno, al cui interno erano riuniti il Presidente Allende e un gruppo di militanti a lui legati. Quando i militari dichiararono di aver preso il controllo del palazzo, Allende fu ritrovato morto al suo interno.

LE REAZIONI AL GOLPE

In America Latina le reazioni al colpo di Stato non furono unanimi. Alcuni paesi, tra cui Cuba, lo condannarono energicamente, esprimendo solidarietà al popolo cileno e profondo dolore per la morte di Allende. I regimi militari che erano al potere in Brasile e Uruguay salutarono l’evento come una vittoria della democrazia, riconoscendo immediatamente i golpisti. Gli Stati Uniti di Nixon e Kissinger si congratularono con Pinochet e tornarono a sostenere economicamente il Cile.

In Europa, i paesi della CEE scelsero di mantenere le relazioni con la giunta militare. In Italia, la Democrazia Cristiana al governo col presidente Mariano Rumor (pressata anche dai socialisti e dai comunisti) fu costretta ad esprimere una “doverosa” condanna ufficiale del colpo di Stato, mantenendo però un atteggiamento cauto, teso a non indebolire la Democrazia Cristiana cilena che aveva auspicato la soluzione golpista. Infatti, non ci fu la rottura con il Cile di Pinochet. L’allora ministro degli esteri Aldo Moro scelse una linea di “attesa” che lasciava al nostro paese la porta aperta a qualsiasi sviluppo futuro.
A livello di base, invece, nei giorni successivi al golpe furono indette su tutto il territorio italiano centinaia di manifestazioni e iniziative di solidarietà per le vittime della dittatura fascista, che continuarono senza sosta anche negli anni successivi. Oltre a tutto questo, il nostro paese, grazie all’impegno civile delle organizzazioni politiche della sinistra, dei sindacati, del movimento studentesco, dell’associazionismo culturale e di diversi enti locali, fu in prima linea nell’accoglienza di tantissimi esuli cileni in fuga dalla dittatura.

IL “COMPROMESSO STORICO” ITALIANO

Il colpo di stato in Cile ebbe conseguenze politiche immediate anche da noi. Infatti, qualche settimana dopo l’11 settembre, il segretario del Pci Enrico Berlinguer propose la teoria del “compromesso storico” con il saggio “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” . Una linea politica che lasciò il segno (non certo positivo) nelle vicende della sinistra italiana nei decenni a seguire, fino ai giorni nostri. Sulla rivista del partito comunista Rinascita, con tre articoli, si diede il via alla discussione. Riportiamo alcuni stralci di uno dei tre articoli, quello intitolato “Alleanze sociali e schieramenti politici”, pubblicato il 12 ottobre 1973, trentuno giorni dopo il rovesciamento del governo di Salvador Allende.

In paesi come l’Italia si deve muovere dalla constatazione che si sono create ed esistono una stratificazione sociale e una articolazione politica assai complesse (…)
Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica (…)
D’altronde, la contrapposizione e l’urto frontale tra i partiti che hanno una base nel popolo e dai quali masse importanti della popolazione si sentono rappresentate, conducono a una spaccatura a una vera e propria scissione in due del paese, che sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico (…)
Di ciò consapevoli noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia ove a questa unità si contrapponga un blocco di partiti che si situano dal centro fino alla estrema destra. Il problema politico centrale in Italia è stato, e rimane più che mai, proprio quello di evitare che si giunga a una saldatura stabile e organica tra il centro e la destra, a un largo fronte di tipo clerico-fascista, e di riuscire invece a spostare le forze sociali e politiche che si situano al centro su posizioni coerentemente democratiche (…)
Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica» e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico (…)
Vi è innanzitutto il problema, sul quale la nostra posizione di principio e la nostra linea politica sono note, posto dalla presenza in Italia della Chiesa cattolica, e dai suoi rapporti con lo Stato e con la società civile (…)
Ma non si può certo pensare di sfuggire all’altro grande problema costituito dalla esistenza e dalla forza di un partito politico come la Democrazia cristiana (…) che accoglie nelle sue file o sotto la sua influenza una larga parte delle masse lavoratrici e popolari di orientamento cattolico (…) Nella DC e attorno ad essa si raccolgono anche altre forze e interessi economici e sociali, da quelli di varie categorie del ceto medio sino a quelli, assai consistenti soprattutto in alcune regioni e zone del paese, di strati popolari, di contadini, di giovani, di donne ed anche di operai (…)
E’ necessario riconoscere la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari senza che ciò significhi confusioni o rinuncia alle distinzioni e alle diversità ideali e politiche che contraddistinguono ciascuna di tali forze (…)
La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano (…)

GLI EFFETTI DELLA DITTATURA FASCISTA

A capo del governo cileno si insediò il generale Augusto Pinochet, la giunta militare sciolse l’Assemblea Nazionale, distrusse i registri elettorali, mise fuori legge tutti i partiti che avevano fatto parte di Unidad Popular. Fin da subito vennero imposte molte restrizioni alla libertà individuale dei cittadini e furono emanate diverse leggi speciali. Oltre alle modifiche normative, il regime di Pinochet si caratterizzò per l’uso della violenza fisica come strumento della propria azione di comando. Subito dopo il golpe, lo stadio nazionale di Santiago venne trasformato in un enorme campo di concentramento dove, nel corso dei primi mesi della dittatura, vennero torturate e interrogate migliaia di persone.
La resistenza in Cile venne repressa nel sangue, i numeri del famigerato regime di Pinochet lo stanno a dimostrare: decine di migliaia furono i detenuti e i desaparecidos, circa 15 mila furono le persone assassinate, 40 mila quelle torturate e 164 mila quelle costrette all’esilio.

PINOCHET E IL LABORATORIO LIBERISTA

Nei mesi successivi al colpo di stato, la giunta militare di Pinochet adottò velocemente una politica economica fortemente liberista ispirata al pensiero di Milton Friedman e alla scuola di Chicago. Alcuni economisti cileni che avevano studiato all’università nordamericana, i famigerati “Chicago boys”, divennero consiglieri o ministri del governo fascista e vararono una violenta terapia d’urto che scandì per anni il programma economico di quello che passerà alla storia come il primo laboratorio neoliberista del mondo. Venne sperimentata una politica economica che smantellò la struttura produttiva cilena, avviando un processo di privatizzazione delle risorse naturali, delle aziende pubbliche, della sanità, del sistema di istruzione e pensionistico. Queste misure imposte con la forza produssero una vera e propria desertificazione dei rapporti sociali; vennero messe fuori legge le organizzazioni dei lavoratori, fu varata una controriforma del mercato del lavoro che provocò il crollo dei salari reali e portò la disoccupazione al 20%. Ci fu un aumento impressionante delle disuguaglianze. Il “dio mercato” divenne l’altra religione (insieme a quella cattolica) da osservare ciecamente. Con l’aumento vertiginoso delle importazioni si creò una fortissima dipendenza dai paesi del blocco occidentale. Vennero abbassate unilateralmente le tariffe doganali e si avviò il processo di apertura dell’economia al libero scambio.

Su tutte queste scelte Pinochet venne appoggiato dall’oligarchia finanziaria cilena, dalle classi medie e dalle multinazionali a cui aveva affidato il controllo delle imprese che Salvador Allende aveva nazionalizzato. Gli epigoni del “pensiero unico liberista”, in relazione al primo decennio della dittatura, non provarono nessun imbarazzo a sostenere che sotto il governo della giunta militare il “miracolo economico cileno” era un esempio per tutto il mondo sulla bontà delle teorie neoliberiste. Mai fino allora nessuno era riuscito a portare i processi di privatizzazione a una sottomissione così elevata ai poteri del “libero mercato”.

Gli avvenimenti cileni, con tutte le loro laceranti contraddizioni, furono un “caso di scuola” per l’applicazione di paradigmi economici che, in seguito, attraverso la globalizzazione, si sono estesi al mondo intero. Beninteso, la repressione e la violenza della dittatura militare facevano parte della ricetta di trasformazione dell’economia cilena, togliendo di mezzo il fastidio della conflittualità sociale.

Che questo “modello cileno” nel corso degli anni abbia creato grandi diseguaglianze, concentrando la ricchezza in poche mani, non è mai stato ragione di scandalo. Anzi, una buona parte dell’élite economica, debitamente rappresentata nel Parlamento “decapitato”, e i grandi media che avevano giustificato e (sotto sotto) approvato il colpo di Stato, furono i custodi di quel modello economico e i difensori del regime militare per i diciassette anni in cui rimase al potere.

DOPO LA FINE DELLA DITTATURA

Pinochet rimase a capo della giunta militare fino al 27 giugno 1974 poi, dal 17 dicembre di quell’anno, si autoproclamò “Capo Supremo della Nazione” e Presidente del Cile. Venne varata ad hoc una nuova Costituzione e Pinochet cominciò ad apparire in pubblico in abiti civili. Durante gli anni Ottanta le conseguenze della crisi economica, il crescere delle proteste contro il governo e uno sciopero generale, aumentarono le difficoltà del regime. La dittatura militare durò fino al referendum del 1° ottobre 1988. Dopo la sua rimozione Pinochet, per i crimini che aveva commesso, non fu né processato, né destituito dalla sua carica militare (queste furono le condizioni imposte dagli Stati Uniti per avere la consultazione popolare).

La fine della dittatura in Cile e l’indizione di elezioni nel 1990 non coincise affatto con un cambiamento delle politiche economiche, il modello liberista subì solo qualche aggiustamento marginale.

Seguirono 20 anni, dal 1990 al 2010, dei cosiddetti governi della Concertacion, sostenuti da un’ampia coalizione di partiti a tendenza democristiana e socialdemocratica. In quel periodo non ci furono cambiamenti significativi alla politica economica. Nel 2010, tornò al potere la destra neoliberista “post-pinochettista”: venne eletto Sebastián Piñera che immediatamente promulgò un programma di privatizzazioni e di dismissioni del welfare statale. Si trovò così a fronteggiare un primo ciclo di forti proteste sociali nel biennio 2010/2011. A seguire, ci fu poi una nuova parentesi della “socialista” Bachelet, a cui si alternò nel marzo 2018 di nuovo Piñera.

Nei trent’anni successivi la deposizione di Pinochet i governi che si sono succeduti, sia che fossero di centro-sinistra o di centro-destra, hanno goduto di una specie di “rendita democratica”: la gioia per la libertà riconquistata, insieme alla fine del terrore, hanno messo da parte le rivendicazioni sociali per diverso tempo. Nessun partito politico al potere, in tutto questo tempo, ha sconfessato però le politiche economiche messe in campo dopo il colpo di stato. Secondo un rapporto della Banca Mondiale del 2016 il Cile era il settimo paese al mondo per il più alto livello di diseguaglianze. Il 25 per cento della popolazione viveva sotto la soglia di povertà. L’istruzione pubblica era tra le più costose del continente americano; i servizi pubblici e il welfare avevano subito tagli che ne mettevano in discussione l’efficacia; era altissimo il livello dell’indebitamento privato; era elevata la sua dipendenza economica e geopolitica dagli Stati Uniti, come pure l’esposizione all’estero.

È così che si arriva al clima dell’ottobre 2019 e alle proteste oceaniche di quei giorni. La scintilla iniziale partì dall’aumento del biglietto della metropolitana, iniziarono gli studenti a scendere in piazza in migliaia a Santiago, a cui subito dopo si aggiunsero centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, stremate dalla condizione di disagio sociale e precarietà a cui erano costrette a vivere. “Non sono i 30 pesos, sono 30 anni“, era lo slogan riferito all’aumento di 30 pesos del biglietto della metro, ma anche ai 30 anni di politiche neoliberiste, rimaste in piedi anche nel post-dittatura.

In risposta alle proteste di massa, il governo di Sebastián Piñera attuò una serie di durissime misure repressive, con la dichiarazione dello “stato di eccezione” e le forze speciali della polizia a guardia delle stazioni. Una vera e propria dichiarazione di guerra del presidente contro il suo popolo.

In questa occasione, dando risposte politiche degne di una dittatura, dimostrò di essere una democrazia in crisi e ancora molto debole. Tuttavia, le misure repressive del governo non riuscirono a frenare le mobilitazioni, l’occupazione delle strade da parte dell’esercito, invece di intimidire i manifestanti ne moltiplicò lo sdegno.

LA CADUTA DELLE ULTIME “EREDITA’ PINOCHETTISTE”

Le ultime “eredità” del regime fascista di Pinochet caddero per merito del movimento femminista (il collettivo Las Tesis, NiUnaMenosChile) e delle lotte delle donne cilene. Sotto la dittatura della giunta militare l’aborto era stato proibito senza eccezioni. L’aborto terapeutico (in caso di stupro, rischio di morte della madre e d’impossibilità di sopravvivenza del feto) fu introdotto solo nel 2017. Questo venne ritenuto un passaggio storico, frutto dei decenni di lotta delle femministe, della donne e delle organizzazioni per i diritti umani. Ma la mobilitazione non si fermò con questo risultato, il 25 luglio 2018 venne organizzata la 6a Marcia femminista per l’aborto sicuro, libero e gratuito. Durante la manifestazione nazionale di Santiago tre donne vennero accoltellate da uomini incappucciati e lungo il percorso del corteo ci furono diverse provocazioni ad opera di neonazisti del gruppo Patriot Movimento Sociale, seguaci di Pinochet. Alla fine del 2019 furono le donne del collettivo femminista Las Tesis a riaccendere le proteste contro il governo di Sebastian Piñera e i suoi tentativi di ritornare ai tempi di Pinochet. Quando le mobilitazioni erano ormai deboli e fiaccate dalla violenza della polizia, il 25 novembre 2019 con un’azione improvvisa (cantando Un violador en tu camino) un gruppo di donne interruppe il traffico in piazza Anibal Pinto a Valparaíso. Poi il collettivo cileno chiamò a raccolta tutte le donne dissidenti per riproporre iniziative in altre città e in lingue diverse. La risposta non si fece attendere: l’azione si diffuse in tutto il mondo fu riprodotta in tanti paesi dai movimenti femministi.

Poi ci fu la vittoria del movimento delle donne nel referendum sulla nuova costituzione, chiudendo in questo modo un ciclo iniziato negli anni ottanta con il movimento chiamato “Mujeres por la democracia”, in opposizione al regime di Pinochet, con le manifestazioni silenziose nelle piazze, sfidando gli idranti della polizia.

E’ bene ricordare che negli anni della dittatura, ma anche nei decenni successivi, le donne non potevano sposarsi prima che fossero passati almeno 270 giorni dal divorzio o dalla morte del marito, per evitare dubbi sulla paternità dei figli.

L’intento del movimento femminista era quello di avere una costituzione che prevedesse l’uguaglianza totale tra uomini e donne e correggesse ingiustizie storiche ancora in vigore.
Il 25 ottobre 2020 è stato indetto un referendum in cui ha prevalso il Sì a una nuova costituzione che doveva essere scritta da una convenzione costituzionale mista. A maggio 2021 sono stati votati i convenzionalisti, ma a settembre 2022 la proposta di nuova costituzione è stata bocciata. Oggi la palla è in mano a una nuova convenzione, assolutamente neutralizzata, e comunque in mano all’estrema destra di Republicanos.
Alle elezioni presidenziali del 2021 vinse Gabriel Boric, un ex leader studentesco che, a 36 anni, risultò essere il più giovane presidente della storia del Cile. Quando, l’11 marzo 2022, il suo governo entrò in carica Boric rilasciò un’impegnativa dichiarazione tesa a dimostrare che uno dei suoi obiettivi principali era quello di archiviare la stagione liberista che aveva preso il via con la dittatura di Pinochet: “Affrontiamo con enorme energia la sfida di consolidare la ripresa della nostra economia senza riprodurne le disuguaglianze strutturali. Si tratta di una crescita sostenibile, accompagnata da un’equa redistribuzione della ricchezza”.

Questo annuncio, come era immaginabile, destò forti timori sui mercati che, in parte, si tranquillizzarono con la nomina a ministro del Tesoro di Mario Marcel, che era il presidente della Banca Centrale e un personaggio molto considerato negli ambienti economici cileni.

Staremo a vedere se i presupposti che sostengono la coalizione di sinistra permetteranno al governo di Boric di affrontare la profonda crisi che sta attraversando il paese con ricette diverse da quelle dei suoi predecessori (risultate, del resto, nella maggior parte dei casi fallimentari).

Noi vogliamo chiudere questa scheda, a supporto della discussione che si terrà a Vag61, con una poesia “Sopra il vostro settembre” del poeta cileno Camilo Maturana.

Prendiamo dalle ombre del tramonto
gocce di pioggia fina.
Notte lunga di sole nascosto,
sotto le proprie ombre ovunque raccogliamo feriti, morti.
Teniamo stretta la rabbia
come qualcosa che si ama.
Gustiamo l’odio
come un alimento.
Retrocediamo ma…
ritorneremo domani!
Un giorno – l’undici-
ci strapparono la libertà
e settembre.
Non sanno che di ottobre
ne abbiamo molti
nella nostra storia…
Generali,
sopra il vostro settembre
cadrà
anche il nostro ottobre!

Fonte: Vag61.noblogs.org