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Colombia: La repressione e i massacri del governo Duque non fermano le proteste

Una nuova esplosione sociale contro le politiche fiscali del governo Duque si è prodotta in Colombia. Milioni di lavoratori, contadini, giovani, donne, disoccupati, hanno paralizzato il paese con una proteste e rivolte iniziate lo scorso 28 aprile, e che continuano ancora nonostante le decine persone assassinate dalle forze dell’ordine, le centinaia di feriti e di torturati.

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Le proteste non si fermano in Colombia: ancora terrore repressivo a Cali

Mentre oggi si torna ancora in piazza per il quindicesimo giorno consecutivo in tutto il paese, negli ultimi giorni la repressione violenta poliziesca e paramilitare ha colpito duramente in particolare i manifestanti e gli abitanti dei quartieri popolari di Cali e le comunità indigene del Cauca

“Presidente della Repubblica, non continui a massacrare il popolo colombiano, non continui a dare l’ordine ad alcuni cittadini di uccidere altri cittadini. Presidente della Repubblica, ascolti il popolo colombiano, si sieda a discutere e si metta a capire come risolvere i problemi del nostro Paese. Lei sta facendo gli interessi di una élite e andando contro tutto il resto della popolazione, che è la maggioranza. Oggi chiediamo ai cittadini di organizzarsi, perché solo un esercizio collettivo può essere più forte del potere militare. L’unione è il potere più grande che esiste sulla Terra”.

Sono queste le parole forti di un rappresentante del Consejo Regional Indigena del Cauca, una delle più importanti organizzazioni indigene della Colombia. Parole rivolte a Ivan Duque, presidente in carica dal 2018, che nelle ultime settimane ha mostrato al mondo intero un uso indiscriminato e violento della forza, reprimendo le proteste pacifiche che si susseguono senza sosta dal 28 aprile.

Lo sciopero nazionale contro la Riforma Fiscale ha portato in piazza migliaia di persone che, nonostante la pandemia, hanno deciso di manifestare il proprio dissenso nei confronti delle proposte impopolari del Governo. In tutte le grandi città le proteste artistiche e pacifiche sono state interrotte bruscamente dall’arrivo delle squadre antisommossa e dalla polizia, che hanno iniziato a colpire i manifestanti con lacrimogeni, proiettili di gomma e idranti per dividerli e respingerli.

La “prima linea” ha salvato in moltissimi casi il resto dei manifestanti permettendogli di mettersi in salvo dalle violenze della polizia e di non essere picchiati, sequestrati o riempiti di gas lacrimogeni. Ragazze e ragazzi con scudi fatti di latta e cartone hanno cercato di tenere testa a un esercito armato di pistole, fucili e granate. Una follia documentata da centinaia di video condivisi sui social da tutte le città. Ad oggi, sono 47 le persone che hanno perso la vita durante le proteste. Tra queste, Lucas Villa, studente di Scienze Motorie all’università di Pereira, diventato una icona di un ingiusto e atroce martirio, dopo essere colpito ripetutamente da paramilitari armati che hanno sparato contro il corteo pacifico nel capoluogo della Regione di Risaralda, Pereira.

Dal 28 aprile non c’è stato un solo giorno di silenzio, di paura. Anche chi non era solito partecipare si è sentito in dovere di farlo. È insopportabile vedere il proprio paese ridotto a un clima dittatoriale in cui vengono uccisi i giovani, picchiati i professori, caricati su camionette senza targa i difensori dei diritti umani, dove vengono tagliate la luce e internet per evitare denunce e trasmissioni dal vivo scomode per chi reprime la protesta. Sono ancora troppe le persone scomparse, illegalmente retenute e ferite, oltre 500 secondo gli ultimi dati della Ong Temblores e Indepaz. Gli abusi sono sfociati anche in almeno 12 casi di violenza sessuale nei confronti di donne arrestate dalle forze di polizia e dalle forze armate.

La rabbia ha scatenato l’arte. Sono tantissime le manifestazioni culturali che hanno avuto luogo nelle città e nei piccoli pueblos sparsi su tutto il territorio nazionale. La musica, il teatro, la danza e la giocoleria come armi per rispondere al rumore degli spari, alle grida di dolore, alla scellerata violenza dello Stato.

Cali, nel sud del Paese, è la città che porta le ferite più grandi che questi giorni hanno lasciato sulla pelle dei cittadini colombiani.

Durante varie notti di seguito, dei veri e propri attacchi militari hanno provato a silenziare le proteste con modalità da lasciare allibita anche la comunità internazionale, con la presenza di paramilitari e corpi di polizia che hanno sparato ripetutamente con armi da fuoco sugli abitanti di diversi quartieri ed in particolare di Siloé, combinati con interruzioni delle forniture di elettricità e rete internet. Anche le Nazioni Unite e Amnesty International hanno chiesto al Governo di fermare il massacro denunciando la repressione contro le manifestazioni di protesta nel paese.

La partecipazione delle comunità indigene è stata di grande importanza per continuare ad agire con forza e sostenere le mobilitazioni. Le comunità indigene della Regione del Cauca si sono organizzate nella Minga, la forma millenaria dei popoli indigeni di concepire il lavoro collettivo e lo scambio di saperi e conoscenze, dove tutti fanno la propria parte per il bene comune.

Arrivati nella città dalle campagne della Regione del Cauca, si sono uniti alle proteste pacifiche nel quartiere “La Luna”. Il sindaco ha cercato di screditare la loro presenza definendoli invasori di uno spazio non proprio. Non riconoscere la comunità indigena come rappresentante della millenaria cultura di tutto il Paese e definire invasore chi è stato invaso e devastato dalla colonizzazione è un atto razzista, classista e imperdonabile.

“C’è un ferito! Sta sanguinando!”, “Buttatevi giù, giù!”, le decine di video della protesta mostrano come uomini armati iniziano a sparare sulla folla da alcuni fuoristrada. Alcune persone in polo bianca scendono dalle macchinone continuando a puntare fucili e pistole contro i manifestanti. Sono 8 i feriti, una in modo grave, è Daniela Soto, leader delle donne dell’organizzazione indigena Cric e giovane studentessa dell’Università del Valle.

La polizia sembra scortare e proteggere gli aggressori mentre si scatena il panico tra chi stava partecipando alla manifestazione. Lo stato e le organizzazioni narco-criminali, insieme, alla luce del sole, hanno cercato di intimorire e assassinare giovani della città e autorità indigene della Minga.

“Siamo quelli che proteggono e difendono la protesta sociale, non abbiamo armi, il nostro potere è la nostra collettività, questo neutralizzerà le aggressioni prima o poi”. Ripetono i rappresentati del Cric ai microfoni della stampa indipendente.

L’ennesima giornata di orrore in un Paese in cui i cittadini non vogliono arrendersi all’idea di vivere in un posto così. Oggi siamo tutti la Minga, oggi siamo tutti con Daniela, sperando che torni a lottare al più presto.

Giulia D’Ottavio

da DINAMOpress