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Colombia: Mario Paciolla ucciso per i suoi articoli di denuncia del narcotraffico e del boicottaggio di Stato alla pace con le Farc

Dai suoi articoli emerge la capacità di analisi di Paciolla. Emerge anche altro: la depoliticizzazione della cooperazione internazionale e i temi che spiegherebbero il movente dei suoi assassini, il narcotraffico e il boicottaggio di Stato della pace con le Farc

«So di aver sforato, e non di poco, ma considerando la delicatezza del tema mi sono reso conto che andando avanti con la scrittura dovevo praticamente argomentare e giustificare ogni virgola. Ho quindi preferito metterci tutto, lasciando poi a un secondo momento la valutazione sul da farsi anche in base alle tue osservazioni». Così scriveva Mario Paciolla in una mail inviata a Luigi Spinola, allora direttore responsabile della rivista di geopolitica Eastwest e attuale conduttore di Radio Tre Mondo.

Mario scriveva con lo pseudonimo Astolfo Bergman, rispettando la cautela che caratterizza il mondo della cooperazione internazionale e le norme che regolano l’operato dei suoi lavoratori. La “discrezione” è una delle prime regole di condotta che vengono impartite dai superiori quando si muovono i primi passi in un’ong internazionale, così come rientra tra i doveri «mantenere un profilo basso», specialmente nella comunicazione verso l’esterno. Le ragioni di tale cautela hanno a che fare con la tendenza alla depolicitizzazione della cooperazione internazionale, attenta – anche attraverso il controllo dei suoi lavoratori – a non incrinare le relazioni con le autorità statali dei paesi in cui opera e garantirsi così la possibilità di operare in sicurezza.

Mario Paciolla però non era un volontario alle prime armi: non era ingenuo e non era uno avventuriero sprovveduto. I contenuti dei suoi articoli pubblicati su Eastwest e su Limes lo dimostrano ampiamente. Aveva una conoscenza profonda del contesto in cui viveva e una consapevolezza della violenza politica e strutturale che attraversa la Colombia. Sapeva che era impossibile raccontare il paese attraverso schemi manichei e che senza immergersi nelle sue zone d’ombra era impossibile comprenderlo. Per questo quando scriveva era così importante «argomentare e giustificare ogni virgola», perché la complessità andava indagata e criticata. «La coincidenza tra il momento storico che sta vivendo il paese, e l’opportunità lavorativa» – come raccontava in un’altra mail inviata a Luigi Spinola – gli «permettevano di viverlo da vicino», toccarlo con mano, attraversarlo.

In un’intervista a Radio Tre Mondo il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, lo ha descritto così: «Mario non era un giovane volontario, come in parte è stato descritto dai media, era un operatore delle Nazioni unite con un’esperienza solida internazionale». Il lavoro con l’Onu era il frutto di un percorso che lo aveva visto impegnato per due anni in Colombia con l’organizzazione Pbi-Peace Brigades International, lavorando fianco a fianco con organizzazioni di attiviste e attivisti fortemente minacciati per il loro lavoro in difesa dei diritti umani.

L’accostamento tra Mario Paciolla e il concetto di «volontario» è un accostamento fallace, un equivoco che nasce dalla posizione formale che ricopriva all’interno dell’Onu, quella di UNV-United Nations Volunteer, Volontario delle Nazioni unite. Tuttavia l’ordinamento lavorativo in cui veniva inquadrato il suo operato non corrisponde alle reali responsabilità che comportava il suo ruolo e all’esperienza necessaria per poterlo ricoprire. Questa ambiguità è il risultato di una generalizzata precarizzazione del lavoro nella cooperazione internazionale, tema che meriterebbe un approfondimento più ampio dato che Mario, secondo la giornalista e amica Claudia Duque, aveva avuto un diverbio con i suoi superiori dell’Onu pochi giorni prima della sua morte, proprio in merito alla disparità di trattamento tra «funzionari» e «volontari» durante la pandemia.

Mario era un professionista nel campo della cooperazione e leggendo i suoi articoli lo si può considerare senza dubbio anche un fine analista dei conflitti politici e sociali che caratterizzano la società colombiana. Andando a ripescare le prime tracce dei suoi articoli sul web, Astolfo Bergman alias Mario Paciolla, a quasi un anno dagli Accordi di Pace scriveva su Eastwest a proposito della visita di papa Francesco in Colombia. Era settembre 2017 e nel suo articolo Mario faceva dialogare il percorso riformista del papa con l’apertura dell’allora presidente Juan Manuel Santos, firmatario dell’Accordo di Pace, senza però esimersi dal ricordare le sue «indubbie responsabilità morali nell’aver esacerbato il conflitto durante l’epoca di Uribe al potere», in quanto ministro della Difesa.

Sottolineava inoltre come a un anno dagli Accordi «la Colombia non è per nulla un paese in pace, se si considera che, secondo il rapporto di Somos Defensores, nel primo semestre 2017 è stato rilevato un incremento delle aggressioni dirette a difensori dei diritti umani con 51 omicidi, il che dimostra che lo spettro della Unión Patriótica aleggia tuttora sulle sorti del post-conflitto. Insomma, c’è ancora molto da fare».

In queste righe non c’è solamente la capacità di analisi del presente ma anche la consapevolezza storica di un percorso di pace accidentato e violento, fatto di tradimenti e repressione statale come dimostra il riferimento all’Unión Patriótica, il partito politico nato nel 1985 dalla smobilitazione di alcuni gruppi guerriglieri, nell’ambito dei dialoghi di pace avviati con il Presidente Betancur, i cui membri sono stati sistematicamente eliminati da gruppi paramilitari.

L’ombra del paramilitarismo sull’accordo di pace in Colombia è il titolo del secondo articolo uscito sulla rivista di geopolitica Eastwest due mesi più tardi. È sufficiente citare il secondo paragrafo del pezzo per renderci conto della capacità di analizzare e raccontare le particolarità di un contesto tanto specifico quanto complesso: «L’uso della parola ‘paramilitarismo’ tende a generare un po’ di confusione. Se utilizzato in riferimento a un gruppo armato illegale che agisce parallelamente allo Stato per metterne in discussione la legittimità, allora anche le Farc potrebbero essere considerate un gruppo ex paramilitare. In Colombia ha però sempre prevalso la seconda accezione del termine, con cui si indica la delega volontaria da parte dello Stato dell’uso della forza ai cittadini, che assumono così funzioni di sicurezza svolte in collaborazione con i militari».

Il paramilitarismo in Colombia, ci spiega Paciolla, con la sua capacità di ricostruire le radici storiche dei conflitti del presente, è un fenomeno strettamente legato agli apparati statali che interseca le sue trame con gli interessi del narcotraffico e sfocia nella violenza politica contro attivisti e attiviste che combattono lo sfruttamento e la militarizzazione dei propri territori.

A completare il panorama delle contraddizioni che affliggono la Colombia, Mario non si fa mancare l’analisi dei movimenti guerriglieri. «Scriveva di Colombia con grande profondità e una conoscenza impressionante di alcuni fenomeni– lo ricorda così Spinola – su tutti il neoparamilitarismo e (soprattutto) le dinamiche interne alla sinistra armata, su cui inviava pezzi dettagliati fino all’esasperazione. Era un ricercatore meticoloso ma non freddo, si avvertiva la passione del militante, l’urgenza di dover chiarire delle cose, magari esoteriche per altri, ma cruciali per il paese e il contesto in cui si muoveva».

Dopo Eastwest i suoi pezzi vengono accolti dalla storica rivista di approfondimento geopolitico Limes, che pubblica un suo articolo sul mandato di cattura emanato da una corte di New York contro l’ex comandante delle Farc Jesús Santrich che definisce «preparatissimo sulla questione della redistribuzione della terra» e «figura chiave nella strategia del partito delle Farc per realizzare la riforma rurale integrale prevista dal punto 1 dell’Accordo». Aggiunge che «il rischio di una fuoriuscita massiccia dal processo di smobilitazione non è mai stato così concreto» poiché «l’estradizione darebbe ragione ai comandanti dissidenti Gentil Duarte e Rodrigo Cadete, tiratisi indietro proprio per il timore di essere estradati negli Usa».

A maggio 2018 in Colombia ci sono le elezioni presidenziali e Astolfo Bergman non perde l’occasione di fornire al pubblico italiano degli elementi essenziali per comprendere il processo elettorale. Descrive innanzitutto gli attori politici in gioco grazie a un meticoloso utilizzo delle fonti, e scrive un articolo dedicato al neoeletto presidente, il candidato uribista Iván Duque.

A maggio Mario scrive: «È come se Santos avesse spaccato l’estrema destra per stemperare l’estrema sinistra e permetterne così la partecipazione politica, che poi era il fine ultimo di un processo di pace le cui aspettative rimangono però incompiute». Identificando poi i punti chiave del conflitto, del mancato successo degli Accordi di Pace e le deboli volontà politiche che lo accompagnano. «Tra i vari pacchetti normativi utili a convertire quanto pattuito in legge, mancano infatti quelli relativi alla realizzazione della riforma rurale (previsti al punto 1) e quelli riguardanti lo smantellamento degli altri attori armati illegali attivi sul territorio (punto 3)», constata Mario, per poi centrare l’obiettivo con parole tanto semplici quanto efficaci: «In altre parole, terra e paramilitarismo, i due gangli da sviscerare per garantire l’effettiva estirpazione delle radici del conflitto».

Le elezioni porteranno alla vittoria di Duque che Mario interpreta con queste parole: «La vittoria di Duque è la conclusione di una campagna elettorale iniziata nell’ottobre 2016 in occasione del plebiscito convocato per approvare l’Accordo di pace firmato con le Farc» e sancisce «il successo di uno dei più fermi oppositori di quanto pattuito a L’Avana». Il ritratto di un politico ostile alle trattative di Pace, proprio come il suo mentore Uribe.

In una mail a Spinola Mario raccontava così la sua volontà di scrittura e di comprensione della realtà colombiana: «Il mio interesse principale è pubblicare – sempre e quando un pezzo sia meritevole di pubblicazione – così da poter allegare in futuro una sorta di portfolio tematico su questo periodo che sto trascorrendo in Colombia». Il tramo del suo portfolio che abbiamo ripercorso ci permette di conoscere una parte di Mario attraverso i suoi scritti, provando a restituirgli la parola, quella che sapeva utilizzare in maniera puntuale ed efficace per raccontare l’ingiustizia, senza però perdere la speranza nel cambiamento. Mario era uno scrittore che amava la complessità, le sfumature, le virgole. Un attivista che indagava con profondità le ingiustizie sociali, la difesa della terra e la violenza politica.

Forse i tanti dubbi rimasti sulle cause della sua morte vanno ricercati anche nei temi che stava provando a mettere in luce. Forse proprio questo suo indagare, questa sua volontà di addentrarsi nella complessità per comprendere i meccanismi della violenza e le distorsioni di una pace mai realizzata è stata una delle ragioni che ha spinto qualcuno a mettere a tacere Mario Paciolla e con lui Astolfo Bergman.

Simone Scaffidi, Gianpaolo Contestabile

da il manifesto